Alle 20 di sabato, al JFK, il Central Diner del Terminal 4 è più simile a uno studio legale di fortuna che a un ristorante.
Da ore, 30 avvocati sono al lavoro per aiutare una decina di persone trattenute dalle autorità doganali come effetto dell’ultimo ordine firmato dal presidente Trump. Alcuni di loro sono specializzati in immigrazione, quasi tutti sono professionisti accorsi volontariamente in risposta alla richiesta di aiuti legali lanciata dall’International Refugee Assistance Project.
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All’esterno dell’aeroporto è in corso una protesta. I presenti, circa un migliaio, agitano cartelli e scandiscono lo slogan: “No hate, no fear, refugees are welcome here.” Piccoli nuclei famigliari, per lo più di origine araba o persiana, aspettano i parenti accasciati sulle sedie di plastica.
Tra gli avvocati volontari c’è Michelle Miao. Lo sconforto è palese: Miao spiega che alle persone fermate per effetto di quello che è diventato noto come ‘Muslim Ban’ non è permesso vedere o contattare famiglie o rappresentanti legali. La strategia usata da Miao e i colleghi per aggirare questo divieto sembra però essersi rivelata utile: aggirandosi per i terminal, gli avvocati cercano famiglie dall’aria preoccupata in attesa di parenti che non si sono presentati. Se il famigliare arriva da uno dei sette paesi citati nell’ordine di Trump, li scortano nel diner e li aiutano a inoltrare una petizione a nome del parente.
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“In quanto avvocato,” spiega Miao, “mi preoccupa che, mentre noi lavoriamo con le famiglie e prepariamo la documentazione, queste persone non sappiano nemmeno che un avvocato si sta occupando del loro caso.”
La famiglia Hussein, di origini irachene, è arrivata in aeroporto alle 8 di sabato mattina. Iman Hussein, che non vedono da sette anni, è arrivata a New York da Baghdad in quelle stesse ore, dopo 30 ore di viaggio (Trump ha firmato il suo ordine esecutivo venerdì, mentre la donna era in volo, presumibilmente dal Qatar al JFK). La donna, in visita alla famiglia, ha un visto temporaneo: all’atterraggio è stata fermata dal Customs and Border Patrol.
Le figlie, Anfal e Elaf Hussein, l’ex marito Namir Hussein e il nipote, Amer Askar, vivono a New York da anni. Askar è nato in Iraq ma si è trasferito a New York giovanissimo. Per 11 anni ha anche fatto parte dell’esercito americano.
“Sono entrato nell’esercito per servire questo paese e per dare una svolta alla mia vita, alla vita della mia famiglia,” spiega. Quando gli viene chiesto cosa pensa delle proteste, commenta soltanto: “Il presidente Trump è il mio comandante supremo. Rispetto i suoi ordini.”
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Namir Hussein ha 52 anni e fa l’autista di autobus. Arrivato negli Stati Uniti dall’Iraq nel 1995 in cerca di “una vita migliore,” non sembra troppo interessato alle proteste in corso. “La gente ha eletto Trump. Non so cosa pensassero.”
Nel frattempo, ogni venti minuti una voce robotica annuncia dall’altoparlante: “Benvenuti all’aeroporto John F. Kennedy. Benvenuti a New York.”
Mitra Anoushiravani, un’altra degli avvocati riunitisi al Central Diner, è preoccupata perché non è ancora riuscita a parlare col suo cliente, un cittadino iraniano probabilmente ignaro della presenza di un gruppo di avvocati al lavoro sul suo caso a pochi metri da lui.
Alle 20.30 le speranze scarseggiano. Due membri del Congresso dello stato di New York, Gregory Meeks e Adriano Espaillat, sono arrivati al terminal per offrire il loro sostegno. Gli agenti della dogana accettano di incontrarli per discutere la situazione.
Terminato l’incontro, Meeks conferma che le persone trattenute sono ancora sotto interrogatorio e non possono parlare con famigliari o avvocati. I cittadini dei sette paesi senza green card sono immediatamente respinti e reimbarcati, mentre quelli provvisti di green card, insieme alle famiglie di militari, sono in fase di valutazione.
“Gli agenti del CBP stanno facendo il loro lavoro,” spiega Meeks ai gruppetti di famigliari e i giornalisti. “Applicano un ordine esecutivo federale ma non possono valutare i singoli casi. La decisione spetta a Washington.”
Annaffi ed Elaf Hussein stanno piangendo.
“Abbiamo chiesto una riserva sull’interpretazione dell’ordine esecutivo,” aggiunge Espaillat. “Ma è una situazione oltraggiosa. Si tratta di famigliari di cittadini americani che hanno già ottenuto un regolare visto. Ecco come li accogliamo.”
Poco dopo si accende una speranza: a Brooklyn, un giudice federale ha predisposto la sospensione dell’ordine esecutivo. Dopo qualche minuto necessario a comprendere la portata della decisione, la folla si unisce in un sospiro di sollievo. La sospensione temporanea del divieto si applica a tutti i detentori di visto e green card bloccati nel limbo, che ora possono finalmente fare il loro ingresso nel Paese.
All’esterno, i manifestanti festeggiano. Alla notizia della decisione del giudice, la parente di un’altra donna fermata scoppia in lacrime. “È il suo caso,” dice, riferendosi alla famigliare ancora sotto interrogatorio.
Gli Hussein e gli avvocati—esausti ma cautamente ottimisti—tornano a sedersi sulle sedie di plastica, a distanza ravvicinata dal caos.
Aggiornamento del 29 settembre alle 4:25 p.m. ora locale: In un tweet inviato dal JFK si vede Iman Hussein riunirsi con figli e marito dopo il rilascio.
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