Che bella l’estate: che vi troviate soli in città o in qualche amena località a prendere il fresco, qualche passeggiata in bicicletta ve la farete, no? Perché è fico andare in bicicletta, giusto? Scrivo questo prologo dozzinale cotto e mangiato per introdurre l’album non album di questo mese che, in maniera bizzarra, vede la sua travagliata genesi partire proprio dalla passione per il ciclismo. Stiamo parlando di Electric Café dei Kraftwerk, il loro penultimo disco d’inediti, datato 1986, nato da un travaglio durato cinque anni. Cosa del tutto inedita per una band che sfornava un album ogni due anni.
Il disco per come lo conosciamo oggi non ha alcun rimando alle piste ciclabili o altre situazioni affini, ma nel lontano 1982 le cose erano ben diverse: Ralf Hütter si prende una scuffia per il ciclismo, tanto che da semplice hobby si trasforma per lui in una ragione di vita che comincia a invadere in maniera trasversale la musica. Secondo lui, il degno successore del pluriosannato Computer World, pietra miliare dell’electro che ancora oggi ci gira nelle orecchie, dovrà essere Tour de France, un concept sul ciclismo, appunto. L’idea non convince gli altri perché considerata troppo personale, eppure sulla carta la cosa sembra stuzzicante: d’altronde per quanto innovatori fossero tutti i loro dischi precedenti, forse solo Computer World può essere veramente considerato un salto nel futuro. Se ci pensiamo, i concept dei Kraftwerk trattano o di automobili quando oramai addirittura Roversi e Dalla ne avevano decretata la probabile fine, o di radio quando imperversa la televisione, o di treni quando probabilmente gli aerei sarebbero stati un argomento più contemporaneo, o di robot intesi più come modernariato fantasovietico che qualcosa di ancorato al presente: insomma, i nostri eroi conservano sempre un che di retrofuturista all’interno della loro poetica. Di conseguenza, concentrarsi sul discorso tecnologico applicato alla bicicletta poteva essere una vera genialata.
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Va da sé che la maggioranza vince e del concept iniziale rimane solo il singolone “Tour de France”, che uscirà nel 1983 e che vedrà campionati (oltre che un frammento musicale rubato a Hindemit) respiri di ciclisti, cinghie, e tutto quello che riguarda il suono degli ingranaggi della bicicletta, processati dall’avveniristico Emulator Emu II. Il singolo va abbastanza bene raggiungendo la quarta posizione della classifica dance di Billboard, e a tutti gli effetti la band vorrebbe inserirlo nel prossimo album: il quale, eliminata la faccenda delle biciclette, ha il titolo suggestivo di Technicolor e probabilmente è pensato come un concept sulla tecnologia in toto, una specie di ode ai vari utilizzi popular della faccenda nella vita quotidiana dell’uomo, con tutto il vasto spettro di possibilità fra le quali anche il cinema, certo (vedremo più avanti l’altrettanto lunga gestazione del video di “Musique Non Stop”). Al cinema però non sta bene che si usino marchi registrati gratuitamente seppure per una nobile causa, ragion per cui il titolo viene accantonato per un più sbarazzino Techno Pop. Il gioco di parole è chiaro: da una parte i Kraftwerk vogliono incidere il manifesto definitivo di quel genere musicale, il techno pop appunto, che vedevano ascendere sempre di più nelle classifiche, con eoni di band e cantanti ad abbandonare le chitarre rock per batterie elettroniche e sintetizzatori (tutta gente che seguiva il loro esempio), tornare sulla scena a gamba tesa e fare, ancora una volta, piazza pulita. D’altro canto, appunto, la tecnologia applicata alla vita umana di tutti i giorni è una realtà concreta che i nostri vedono giorno dopo giorno accelerare, in un senso talmente pervasivo che non è difficile prevedere le macchine nell’atto di superare i loro creatori, verso un’automazione completa finalmente realizzata; la tecno–logia pop-olare in tutto e per tutto. E sarà proprio questo, ahimè, a fregarli.
I “men-machine”, tra l’altro, non hanno fatto i conti con la finitezza dell’essere umano. Ralf Hütter rimane coinvolto in un serissimo incidente di bicicletta che lo fa finire in coma per alcuni giorni e lo costringe a letto per un anno. Ripresa conoscenza, secondo la testimonianza di Karl Bartos, Hütter esclama: “Dov’è la mia bicicletta?”—non certo “Dov’è il mio sintetizzatore?”. Questo è uno dei motivi per cui Wolfgang Flur, nel suo controverso libro autobiografico I Was A Robot, accusa il socio di essere stato più interessato a rimettersi in sella che a creare nuova musica. A ogni modo la gestazione di Techno Pop risulta difficilissima, in primis perché a causa di quest’arresto forzato i Kraftwerk non riescono a far uscire per tempo materiale davvero innovativo. Nel frattempo, infatti, come già accennato, un sacco di cloni del quartetto sfornano singoli a nastro, diventano famosi, e non solo: producono brani ultra-elettronici con tecnologia economica realizzando enormi successi. L’utilizzo dell’Emu e dei campionatori è oramai diffuso. Band come Depeche Mode, Human League o O.M.D. fanno scalpore, Herbie Hancock sconvolgerà il mondo del jazz con la sua nuova direzione breakdance, insomma, la svolta tecnologica profetizzata dagli stessi Kraftwerk è ormai una realtà. Addirittura una band semivirtuale, Art Of Noise, comincerà a smanettare con il campionatore superando a sinistra i nostri eroi tedeschi proprio nel periodo del loro arresto forzato, ottenendo i favori della critica e del pubblico per le loro ardite sperimentazioni sonore. Techno Pop, insomma, è invecchiato precocemente ancora prima di uscire. I campioni sono troppo standard, i suoni FM sono ormai cosa del passato. Bisogna rifare tutto da capo.
I Kraftwerk, perciò, acquistano il nuovissimo e costosissimo Synclavier, all’epoca alla portata di pochissimi, e vanno a remixare tutto a New York da François Kevorkian, uno dei padrini della house music che verrà. Il risultato uscirà nel 1986 con un titolo stranamente diverso, Electric Cafè. Il cambio di rotta anche nel titolo è probabilmente dovuto alla lunga attesa dell’uscita, come se i nostri si fossero fermati pigramente in un caffè sorseggiando tisane elettroniche: una visione opposta al veloce e dinamico concept iniziale ma coerente, almeno sulla carta, con l’idea di una tecnologia che oramai è a portata di tutti e tanto vale rilassarsi e vedere cosa succede dall’esterno. Come prevedibile il ritardo nell’uscita non farà grande onore al disco, distruggendo in sostanza tutte le sue potenzialità. La critica dell’epoca, aspettandosi dai Kraftwerk fuoco e fiamme, non gli perdonerà il fatto di suonare troppo contemporanei e soprattutto di essere così “freddi”. Col senno di poi quest’apparente freddezza risulta il vero colpo di genio del disco, e ora vi spieghiamo perché.
Il quartetto, intuendo i propri limiti, accetta di farsi penetrare completamente dalle macchine, sparendo all’interno dei circuiti. Quello che i vecchi Kraftwerk facevano era rendere calda la musica elettronica, una cosa che attirò l’attenzione di tutto il giro black/funk/hip-hop, Afrika Bambaata in primis che, con la sua “Planet Rock”, riuscì nell’impresa di campionare proprio “Trans Europe Express” creando quell’electro funk che, d’altronde, possiamo trovare anche nei seminali Cybotron e in tutto il suono di Detroit che proprio ai Kraftwerk deve molto.
In Electric Café invece, nel tentativo di superare il discorso Detroit, i nostri cercano di ripartire da zero concentrandosi esclusivamente sull’aspetto chirurgico e tecnico della musica. Ecco che ad ascoltare “Boing Boom Tschak” si rimane di stucco per la perfezione formale dei suoni, per delle geometrie profondissime che sembrano vagare però in un laboratorio asettico: è il loro primo album in digitale in assoluto e hanno intenzione di sfruttare al massimo la situazione. Per questo è come se a ballare fossero finalmente le macchine e non l’uomo, macchine che imparano tra l’altro a parlare, a respirare: le voci campionate sono strizzate a dovere, robotizzate, e si cimentano in una specie di sound poetry neofuturista multilingue incomprensibile (trent’anni prima delle strombazzate sensazionalistiche sulle intelligenze artificiali). Distinguendosi dalla moda dell’epoca, di creare dei remix ed extended version da brani originali, i Kraftwerk creano remix di canzoni inesistenti, estremizzando il concetto di ritmica come qualcosa che funziona da sola. Ritmica che è proiettata verso l’house music inizio anni Novanta. Ascoltando The Mix, uscito proprio nel pieno boom commerciale dell’house e che contiene dei potenti remix proprio da Electric Cafè, è chiarissimo dove i nostri volessero andare a parare. In pratica, smettono di prediligere la melodia, la canzone: diventano più duri. E, in effetti, nella demo del pezzo cardine, “Techno Pop”, fa capolino una meravigliosa melodia ottenuta con l’Orchestron, il rudimentale campionatore figlio del Mellotron già usato nei classici della band, che sparisce completamente nella versione ufficiale.
Quest’autocensura ha prodotto un vero e proprio “caso Techno Pop” fra i fans: ancora adesso gira l’idea che esista una versione alternativa di Electric Café tenuta sotto chiave dai suoi autori. Nonostante le smentite dei Kraftwerk stessi questa leggenda è alimentata dalle dichiarazioni di Karl Bartos, batterista uscente, il quale afferma che il disco venne “congelato” prima delle sue effettive modifiche. Bartos tra l’altro in questo disco fornirà grande prova d’interprete e autore con la stupenda “The Telephone Call”, nella quale si torna indietro al romanticismo del telefono in contrapposizione alle chat di “Computer Love”. Una melodia dolce e melanconica, una specie di nostalgia per un periodo aureo della comunicazione “dal volto umano” in cui era anche possibile animare il desiderio non facendosi trovare: riascoltandola oggi, in epoca di cellulari e WhatsApp, non può che far venire i lucciconi.
A parte questo, l’altro episodio melodico è “Sex Object”, brano che erroneamente è visto come uno sfogo autobiografico di Ralf Hütter, mentre sembra più probabile che narri della disavventura di Flur alle prese con un Helmut Berger particolarmente molesto, raccontata nella biografia del musicista tedesco. L’importanza del pezzo è nel discorso futuribile sesso = automazione, prevedendo una diffusione capillare e alla portata di tutti della pornografia e soprattutto dei messaggi sessuali usati per comprare e vendere merce: insomma, una freddezza estrema dei rapporti e una costante assenza di rispetto per la visone umana della cosa che noi, oggi, conosciamo fin troppo bene. I Kraftwerk analizzano il bersaglio di questo bombardamento come un soggetto ribelle ma allo stesso tempo tentato dalla dinamica vittima/carnefice, che non sa decidersi tra YES e NO e, anzi, aggiunge un bel po’ di perhaps/maybe. In pratica il Basic va a farsi fottere a favore dell’ingresso di linguaggi informatici molto più potenti: in questo senso il sex object è forse lo stesso computer che si ribella inutilmente alla sua identità di oggetto di feticismo e transfer della carnalità (a questo proposito, la clamorosa versione degli Zeni Geva nella compilation Musique Non Stop – A tribute to Kraftwerk restituisce il senso del pezzo agli anni Duemila in maniera davvero dirompente).
D’altronde, la stessa suite di “Musique Non Stop” sembra da una parte lodare la possibilità di diffusione quasi infinita della musica moderna, in un certo senso prevedendo l’avvento del download e dei vari YouTube e Spotify. Ma c’è un contrappasso: due voci sintetiche alternate esclamano il titolo del pezzo, una sembra entusiasta di questo cumulo crescente d’informazioni sonore, l’altra invece sembra… sì, stanca, quasi esausta. In un certo senso si respira il caos di una tecnologia che comincia a parlare da sola e, come già detto prima, si stacca completamente dall’uomo per non arrivare da nessuna parte, fino a esaurimento scorte. Non che sia necessariamente una cosa negativa, anzi: la stessa gestazione del video relativo a questo singolo, a cura della grandissima artista multimediale Rebecca Allen, inizia utilizzando le tecnologie più innovative del 1983 in campo di renderizzazione 3D, ma poi si ferma di botto a causa dello stop forzato di cui sopra. Il progetto dovrà essere quindi messo in standby e ripreso nell’86 per il suo completamento, col risultato che l’opera, finita in fretta e furia, ha un suo proprio fascino “weird” che lo rende ancora oggi incredibile per il suo minimalismo artificiale. Le immagini digitali non sono complete, ne vediamo solo lo scheletro: nonostante fosse uno dei pochi video all’avanguardia, nello stesso tempo sembrava venire da uno spazio di eterno futuro anteriore, tanto da far venire la pelle d’oca per il suo minimalismo imperfetto, come se non si giungesse mai alla fine di un processo e tantomeno di un’era.
Per quanto il disco (e soprattutto il testo di “Techno Pop”) presenti dei versi che lodano e prevedono l’entrata definitiva dei suoni sintetici e soprattutto industriali nella quotidianità della gente, con conseguente sparizione definitiva del rock come lo conosciamo, le cose non sono tutte rosa e fiori o, meglio, sono ambigue. “Electric Café”, l’ultimo brano, è in effetti la descrizione di un mondo in cui l’apparenza vince sulla sostanza—”Immagine sintetica, figura ritmica, cucina dietetica, cultura del fisico, arte politica dell’età atomica”—su melodie locomotorie da “Trans Europe Express”, in quanto il progresso va come un treno. Insomma, nel futuro tutto sarà muzak (per parafrasare gli Einstürzende Neubauten), la musica sarà usata a scopi politici, le persone si spareranno selfie col correttore d’immagine per essere perfette come automi e via continuando. E, in effetti, impossibile non pensare alle ultime derive che dalla new age ci hanno portato fino alle attuali realtà dell’elettronica che, comunque, saccheggiano le svisate di cori sintetici e i bending gommosi che i Kraftwerk disseminano per tutto il disco. In maniera si leggera e ingenua rispetto all’andazzo della musica di oggi, certo, ma sicuramente visionaria, i nostri tedesconi pigiavano su una musica che fosse lo specchio di un processo inevitabile e inarrestabile.
L’eredità di questo disco, all’epoca snobbato dalla critica (come d’altronde è capitato ai Devo con Shout, nel quale la de-evoluzione digitale è portata all’estremo) è infatti oggi palese: basti pensare ai Depeche Mode, i quali praticamente rivisiteranno “The Telephone Call” per la loro “Strangelove”, studiando l’esempio di Electric Café per la realizzazione del capolavoro Violator, oppure gli stessi esperimenti ritmico/lessicali di una Jlin che devono molto alla suite di “Boom Boing Tschak”. L’utilizzo massiccio della sintesi vocale come strumento musicale a sé stante poi, già sperimentata in Computer World, in questo disco viene perfezionata così tanto che ne vedremo un utilizzo simile in varie produzioni IDM dei Duemila, una volta giunti nei PC i giusti software.
Il sottoscritto è profondamente legato a questo disco, acquistato in un negozio di Zurigo l’11 settembre del 2001, proprio mentre sugli schermi giravano le immagini delle Twin Towers ridotte in cenere. Venivo da Berlino, dove tra l’altro impazzava l’electro di Anthony Rother che sembrava quasi clonare Electric Café, come gran parte della club music che fa ancora furore nella capitale tedesca. Electric Café sembrava la giusta colonna sonora per la decadenza del mondo.
Dopo quell’evento, nell’orbita Kraftwerk ne sono successe di cose: il famoso concept iniziale sulla bicicletta l’hanno davvero realizzato nel 2003 con Tour De France Soundtrack, e nella riedizione di tutto il loro catalogo Electric Café appare col nome originale col quale era stato concepito, ovvero Techno Pop (tiro barbino e sberleffo per ingannare i fan feticisti). Ora che, dopo la pubblicazione dei live in 3D, i nostri hanno annunciato un imminente album d’inediti, siamo tutti curiosi di sapere se il caffè elettrico è ancora aperto o ha definitivamente chiuso. Staremo a vedere: tanto, come dicono loro, “la musica ideas portará/y siempre continuará”.