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Alle origini della rivista DECODER, nella Milano underground anni ottanta

I pirati dei Navigli, pubblicato recentemente da Bompiani, è un romanzo autobiografico scritto da Marco Philopat — scrittore, attivista, editore e, come riportato giustamente nella sovraccoperta del libro, uno dei personaggi di riferimento dell’ambiente punk e underground italiano. Ambientato tra il 1984 e il 1989, racconta un periodo poco conosciuto delle controculture del nostro paese, quando Milano era un covo di yuppie e allo stesso tempo una capitale mondiale del punk, quando l’incontro con un libraio-intellettuale valeva tanto quanto una laurea e un corso di informatica all’estero ti rendeva un pioniere della sperimentazione nel campo delle nuove tecnologie.

In questo contesto fatto di spazi occupati, fuga dall’eroina e primi approcci alla rete è nata DECODER, rivista internazionale underground, un magazine che anno dopo anno si andato affermando come voce del movimento cyberpunk italiano. Uscita in 12 numeri, fino al 1999, DECODER era una rivista radicale di sinistra che voleva rovesciare e boicottare gli strumenti della comunicazione standard attraverso un uso alternativo della tecnologia. Era talmente una figata, sia per i contenuti che per le grafiche del Professor Bad Trip, che ha raggiunto una tiratura di quasi 10.000 copie in un periodo in cui quasi nessuno usava il computer.

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Ho incontrato Marco Philopat nella sede di Agenzia X, la casa editrice indipendente che ha fondato, e gli ho subito detto che non avevo letto il suo romanzo ma che della sua esperienza mi interessava solo la parte sugli aspetti tecnologici. Dopo aver borbottato un “allora di che cazzo parliamo” ha iniziato a raccontarmi sorridendo di quegli anni, della rivista, della prima volta che ha visto un modem, dell’importanza di Burroughs e della SIP che ha regalato tre connessioni a un gruppo di pericolosi ribelli perché voleva sfruttarli per capire il potenziale della rete.

Scorri con il cursore per leggere DECODER.

Motherboard: Nel tuo ultimo romanzo, I Pirati dei Navigli, racconti le controculture della Milano anni ottanta. Che aria si respirava in quegli anni?
Marco Philopat: Per quanto riguarda le controculture, gli anni ottanta erano dominati dal riflusso degli anni settanta, dalla repressione ai compagni. I movimenti erano molto chiusi in se stessi. La narrazione pop della Milano da bere è costruita, riguarda solo una piccola nicchia di fighetti e figli di papà. Per il resto, soprattutto per la seconda metà degli anni ottanta, è più corretto parlare di Milano da pere.

Tu sei tra i fondatori del Virus, il primo spazio occupato di Milano e probabilmente d’Italia. Perché è stato così importante?
È partito tutto da lì. All’inizio era uno spazio dove suonavano band locali, poi sono arrivate quelle italiane e infine punk da tutto il mondo. Bussavano alla nostra porta e suonavano, gratis. C’era una frequentazione enorme, persone di tutti i tipi. Anche perché l’ingresso era a poche lire e all’epoca i concerti a Milano costavano tanto. Il Virus era il luogo di ritrovo per i punk e per chiunque volesse fare serata e ascoltare della musica. L’esperimento comunque non è durato molto, nel 1984 siamo stati sgomberati. Ma da lì a poco abbiamo trovato rifugio in una storica libreria, la Calusca, che all’epoca era la culla delle controculture milanesi.

Come si è composto il gruppo iniziale che ha dato vita a DECODER?
Alla libreria Calusca ci incontravamo con altre sacche di resistenza della Milano da bere, per lo più ex militanti degli anni settanta e studenti di informatica, filosofia e sociologia. Nel 1984/85, con l‘aiuto del libraio Primo Moroni, abbiamo iniziato a costituire la redazione di una rivista che divulgasse la controcultura underground in tutta Italia, con una riflessione focalizzata sull’utilizzo sociale delle nuove tecnologie.

Perché fondare una rivista con una riflessione incentrata proprio sulla tecnologia, nel 1986?
Avevamo la consapevolezza che i computer avrebbero cambiato il mondo del lavoro. All’epoca la problematica marxista dei mezzi di produzione era ancora oggetto di dibattito, e noi siamo stati tra i primi a pensare ai computer in questo senso. Abbiamo approfittato delle capacità informatiche di uno dei nostri per imparare a usare bene il computer e comprenderne le potenzialità. Allora i computer erano fantascienza, piccoli con uno schermo in bianco e nero. La prima volta che ho visto scannerizzare un’immagine mi sembrava di essere dentro Blade Runner.

Se ci pensi, il legame tra controculture e tecnologie è sempre stato stretto. Prima dei punk le fanzine si stampavano nelle tipografie, era molto costoso e perciò la tiratura era limitata. I punk invece sono stati i primi a usare le fotocopie per stampare con pochissimi soldi e diffondere le loro cose il più possibile. Noi di DECODER invece siamo stati tra i primi a impaginare al computer, già il secondo numero è stato realizzato in digitale e poi stampato.

Era la fine degli anni ottanta, i computer erano ancora degli oggetti misteriosi per quasi tutti. No?
Sì, all’epoca quasi nessuno usava il computer, ma come ti dicevo uno dei nostri, UVLSI, era un esperto di informatica. Aveva fatto un corso a Londra e aveva portato con sé una serie di conoscenze informatiche che poi ha trasmesso anche a noi. In effetti all’epoca si usava al massimo il fax, il primo modem che ho visto era un parallelepipedo più grosso di un tavolo: impiegava un’ora e mezza per passare un file testo da un computer all’altro. Pensa. Eravamo connessi alle prime reti, centri di ricerca universitari e di grandi aziende. All’epoca c’era già qualche database internazionale americano a cui riuscivamo ad accedere grazie alla rete FidoNet. Ma eravamo tra i pochi in Italia.

Da dove avete preso il nome DECODER? Sta per ‘decodificatore’, giusto?
Sì, il nome indica il nostro tentativo di decodificare il presente ed è ispirato a un film del 1984, Decoder, appunto. Era di un regista berlinese con cui eravamo entrati in contatto, Klaus Maeck. Una produzione underground ma piuttosto importante: William Burroughs era parte del cast, e per noi era una figura simbolica, manco a dirlo, perché rappresentava le controculture degli anni cinquanta e sessanta. Poi, tra gli altri, alla produzione del film avevano partecipato gli Einstürzende Neubauten, il gruppo industrial berlinese, con cui avevamo fatto amicizia all’epoca del Virus. Il contesto culturale di riferimento, insomma, era quello.

E anche il contesto in un certo senso ideologico, immagino.
Maeck e Burroughs dicevano che le informazioni erano come delle banche, bisognava saccheggiarle. Burroughs aveva fatto degli studi sul cut-up, una tecnica letteraria basata sulla combinazione di testi diversi tra loro. Una tecnica che, secondo lui e il suo amico pittore Brion Gysin, veniva applicata anche ai messaggi subliminali nei frame dei film, che ti spingevano a comprare determinati prodotti. E il film Decoder rifletteva su un tema simile, lavorava sul concetto di muzak, la musica dei supermercati, che a sua volta si pensava contenesse dei messaggi nascosti. La reazione a questi contenuti imposti dal capitale, per noi attivisti, era fare un contro cut-up: sabotare, ribellarsi, costruire un anti-muzak. Quindi per noi era importante e affascinante capire come agivano questi nuovi mezzi tecnologici sulle masse.

In che anno è stato stampato il primo numero? Di cosa parlava?
Il numero zero di DECODER è praticamente la sceneggiatura del film di Maeck con le nostre prime riflessioni. Il primo numero è uscito nel 1986 e lo abbiamo stampato alla Bold Machine di Bologna, un’altra tipografia di riferimento dell’underground italiano dell’epoca. I temi erano vari, da riflessioni sulle prime telecamere per strada al sesso, passando per i fumetti e le patologie da tubo catodico. In quel periodo le riviste underground erano molto settoriali, sempre raggruppate per temi. Noi invece trattavamo più tematiche in un unico contenitore.

Come veniva distribuita la rivista? Chi erano i vostri lettori?
Viaggiavamo per l’Italia per raccontare in giro il nostro lavoro in biblioteche, librerie, festival, centri sociali. La prima presentazione però la facevamo sempre al centro sociale COX 18 di Milano. Organizzavamo quelli che chiamavamo media party, ovvero degli eventi in cui i contenuti delle pagine diventavano live, i vari redattori presentavano i loro articoli. Portavamo con noi anche i computer per fare un po’ di alfabetizzazione in giro.

Quelli erano anche gli anni del cyberpunk. Che ruolo ha avuto nella costruzione del vostro immaginario?
A partire dal terzo-quarto numero questo movimento letterario è entrato prepotentemente a far parte dei temi che trattavamo, ha allargato le nostre prospettive e allo stesso tempo ci ha dato la forza di andare avanti. Rappresentava un futuro molto prossimo, per questo si prestava all’attivismo. Neromante di Gibson, per esempio, è uscito nel 1984 ed è ambientato nel 1991/92.Il cyberpunk è diverso dalla fantascienza, i suoi protagonisti hanno la testa nel computer e i piedi sulla strada. Gli hacker dell’epoca erano degli attivisti, non dei nerd attaccati a uno schermo.

E voi con la testa nel computer e i piedi sulla strada, da buoni attivisti, cosa facevate? Nonostante fossimo considerati dei pericolosi ribelli, la SIP ci aveva sponsorizzato con ben tre linee di connessione. Ce le hanno regalate di nascosto perché volevano esplorare il potenziale del mezzo. E noi lo usavamo al massimo. Abbiamo iniziato a entrare nelle BBS, nei database da cui potevamo copiare informazioni. In quel momento abbiamo capito il potenziale profondo di questi mezzi, della rete. La rivista è diventata sempre più un punto di riferimento per certi temi, come per esempio il rifiuto totale del copyright.

Uno screen di Piazza Virtuale, il progetto di TV interattiva a cui aveva partecipato il collettivo di DECODER.

Per dirne una, con i nostri amici tedeschi di Van Gogh TV, nel 1992 abbiamo presentato un progetto al festival Documenta, Piazza Virtuale. In uno schermo diviso in 4 mandavano immagini via satellite provenienti da una trentina di città in tutto il mondo. Avevamo una telecamera e ci si riprendeva mentre parlavamo di temi sociologici, facevamo performance, eccetera. Una cosa impensabile, per quel periodo. Al COX18 avevamo realizzato anche una specie di pre-Skype: una TV interattiva collegata con un sistema di cavi coassiali, ovvero quelli dell’antenna TV. Ci si parlava da un computer all’altro. Nel 1994 abbiamo portato questo progetto in giro per l’Italia, le persone impazzivano.

Quando si parla dell’idea della rete, in quel periodo, c’è sempre un alone di ottimismo che sembra escludere i temi più distopici come per esempio la sorveglianza. Si pensava o non si pensava al fatto che la tecnologia ci avrebbe anche tolto anche un po’ di libertà?
All’inizio c’era una visione totalmente ottimistica, si vedeva per lo più il potenziale rivoluzionario del mezzo. Però sapevamo che le nuove tecnologie erano anche pericolose, non per niente il nostro era un tentativo di boicottare il sistema dall’interno. C’è da dire che i nostri seguaci erano molto più entusiasti di noi, che invece avevamo una coscienza un po’ più critica anche grazie all’apporto di Primo Moroni.

Come si è conclusa poi l’esperienza del collettivo?
Da DECODER è nata la casa editrice Shake, e alla fine avevamo così tanti argomenti che preferivamo affrontarli su dei libri piuttosto che su una rivista. Anche le BBS ci hanno tolto tanto spazio, così come le email. La tecnologia avanza.