A me fa schifo la morte. Non ho mai veramente capito perché, un giorno, dovrei semplicemente smettere di esistere quando sulla Terra è tutto così bello. Mi è capitato, da piccolo, di andare in paranoia pensando al fatto che un giorno tutto sarebbe finito e decidere che avrei trovato un modo per diventare immortale. Oggi mi rendo benissimo conto che, per quanto il piccolo me avrebbe voluto trasformarsi in un Terminator, arriverà un giorno in cui chiuderò gli occhi e non li riaprirò. Ed è ok, è parte della vita, e prima lo accetti prima la smetterai di dare a pugni al muro alle due di notte.
Tendenzialmente, mi piace ascoltare canzoni che parlano di morte. Forse è un modo per esorcizzare l’unica cosa che odio veramente, più probabilmente è un’iniezione di empatia che mi rassicura. Il pezzo che più mi piace di Benji di Sun Kil Moon, che è un album intriso di cadaveri, è “Micheline”: in cui Kozelek parla di una ragazzina autistica ormai morta che si era innamorata di lui da piccolo, di un suo amico a cui è venuto un ictus mentre faceva un barrè sulla chitarra e delle volte che andava a trovare sua nonna che stava morendo e si cagava sotto a uscire dalla macchina dei suoi. Ma lo fa in un modo dolce, e nostalgico, e bello. E mi fa venire i brividi.
Ecco: non mi sarei mai aspettato di sentire più o meno la stessa cosa ascoltando un pezzo dei Run the Jewels. Il pezzo in questione è “Thursday in the Danger Room”, assieme a Kamasi Washington. Lo potete ascoltare qua sotto:
Nella prima strofa, El-P parla di un suo amico scomparso con un’amarezza e una consapevolezza sconcertanti: “Ti rendi conto alla svelta che non avrai risposte / Quando chiederai qualcosa all’universo”, dice. Sa di essere fortunato, a essere al mondo, ma aggiunge: “Come fai a guardare un amico negli occhi e non piangere quando sai che sta morendo? / Come ti senti a posto con te stesso quando sai che certe volte hai sperato che se ne andassero e basta?”
È poi il turno di Killer Mike, che parla di un amico ucciso mentre stava subendo un furto. “La vita è un viaggio, vivere è soffrire / E io nella mia ho sofferto eccome / Ma la vita è una benedizione, e non mi butto giù / Se alcuni dei miei negri non ci sono più”, esordisce, per poi parlare di come non ha saputo consolare la vedova del suo amico, di come lei ha perso la casa e delle difficoltà che ha avuto a crescere il loro figlio, ma a fine strofa c’è spazio per il perdono:
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Le strade erano una giungla, prego perché tu ce l’abbia fatta,
Prego perché tu abbia fatto qualcosa per rimediare i ai tuoi errori.
Spero che tu sia cambiato, così che tua madre possa non conoscere mai questo dolore,
Così che il nome del mio amico possa essere qualcosa di più di quello di un negro ammazzato per una catena.
Insomma, un pezzo intimo e difficile. È un album brutale, RTJ3, ancor di più dei due che lo hanno preceduto. Un po’ me lo aspettavo, dato che El e Mike lo hanno scritto mentre i loro Stati Uniti gli si disgregavano davanti agli occhi. Le strumentali di El-P sono storte, piene di rumori meccanici e riverberi apocalittici: i momenti di pace sono quasi inesistenti, forse solo il sassofono di Kamasi del pezzo di cui sopra. Le luci dei riflettori sono sulle percussioni meccaniche e l’arpeggio arrugginito di “Panther Like a Panther”, sull’enorme contrasto tra bassi e melodia di “Legend Has It”, nelle voci campionate che prendono il posto del cantante R&B di turno sulla maggior parte dei ritornelli.
Resta che, invece di spingere sull’aggressività, sulla creazione di un campionario di canti di protesta e di scenari apocalittici, Mike ed El hanno fatto qualcosa di più complesso: hanno buttato fuori in forma di rap tutte le loro━le nostre, le mie━insicurezze.
La musica degli RTJ ha sempre avuto un elemento sociale. Mike non ha mai nascosto il suo impegno politico e il suo supporto a Bernie Sanders, insieme sono diventati contro ogni previsione un simbolo di unità musicale contro la merda del mondo negli anni di Black Lives Matter e dell’ascesa dell alt-right. I loro erano canti guerrieri per battaglie immaginate, ancora da venire. Adesso che le battaglie potrebbero diventare realtà, in Mike ed El scorre ancora l’orgoglio combattivo che li ha sempre contraddistinti; ma gli è anche venuto un genuino groppo in gola.
Come noi cerchiamo empatia in quello che ascoltiamo, lo stesso fanno i Run the Jewels quando mettono su disco tutto quello che li preoccupa. In “2100”, pubblicata in anticipo il giorno dopo l’elezione di Trump, El canta: “Voglio solo vivere, non voglio mai dover caricare una pistola / Voglio cacciare solo la felicità, ho ancora il cuore di un ragazzo / Ma ‘sti figli di puttana sono malati, non gliene frega nulla, davvero un cazzo.” È deluso ma non disperato: così come Mike, che se ne esce con un finale di strofa perfetto per calare nella crudezza della realtà il messaggio di speranza che il rap-misto-a-gospel ha portato avanti nel 2016:
Sconfiggi il diavolo quando ti aggrappi alla speranza / Perché gente, la vita è bella / E non dobbiamo morire per qualcun altro / Mi rifiuto di uccidere un altro essere umano / In nome di un governo / Perché non studio più guerra, non odio i poveri / Il punto non è avere sempre di più / L’unica cosa che resta è l’amore / E allora quando mi vedrete, per favore / Salutatemi con un cuore pieno / E un ventello e un abbraccio.”
Allo stesso tempo, in “Hey Kids (Bumaye)”━che trovate qua sopra━Mike esordisce così:
Un saluto ai padroni da parte delle masse fuori classe!
Eccoci qua, maschere da sci, picconi e asce per farvi il culo.
Alziamo i bicchieri al cielo mentre guardiamo i vostri palazzi bruciare,
Fascisti del cazzo, chi cazzo siete per dare cinquanta frustate?
E “Bumaye” vuol dire “Ammazzalo” in ghanese. La strofa continua con minacce alla famiglia Rothschild, a Bill Gates e “al fantasma di Steve Jobs” in nome di una ridistribuzione del reddito, prosegue con El che immagina universi paralleli dicendo di essere capace di spogliarsi alla svelta come “un papa pederasta” e si conclude con la voce più adatta a cantare le storture del 2016: il malatissimo lamento di Danny Brown, impegnato a disegnare immagini di unione (“Ammazzo il microfono con Killer Mike, giro blunt con El-P”) e sbruffonerie liriche ai limiti del senza senso (“Le mie parole infettano tipo insetti incestuosi”).
“Kill Your Masters”, ultimo dei quattordici pezzi dell’album, non è la canzone migliore dell’album. Ma si chiude in un modo degno di nota: con una strofa di Zack de la Rocha dei Rage Against the Machine, già apparso nella loro “Close Your Eyes (And Count to Fuck)”. I RATM non mi hanno mai toccato particolarmente, crescendo, principalmente in quanto sono un essere umano bianco, maschio e senza particolari difficoltà━e quindi non adatto a concepire automaticamente un “KILLING IN THE NAME OF” o un “BULLS ON PARADE” come qualcosa di più di “una frase che spacca”. E invece sentire qua Zack tutto gracchiante che butta fuori linee tipo “Ma il flow è un vento bruciante che soffia verso la vostra costa / E ora siamo in gabbia perché abbiamo cavalcato le onde delle vostre esplosioni” mi sembra una grande prova di forza, un punto di collegamento con una tradizione che ha saputo dare forza a orde di persone confuse━soprattutto se contiamo quanto fallimentare sia stato l’esperimento Prophets of Rage.
Insomma, in un mondo che sembra pericoloso e insensato come non mai nasce un bisogno parlare di cose pericolose, dirle chiaramente per renderle meno terrificanti, e concedersi al contempo sfoghi espressivi━siano questi una punchline giocosamente esagerata (tipo il nerdissimo quarto verso di “Oh Mama”, in cui El-P riesce a fare bruttissimo dichiarando il suo amore per Star Trek) o con virtuosismi tecnici che sussurrano parole come “Andrè 3000” (vedi l’ultima strofa di Mike in “Call Ticketron”).
Ci fa paura vivere, oggi, perché siamo leggermente più consci del fatto che la nostra esistenza potrebbe finire da un momento all’altro. Ci dovremmo cagare in mano a prendere un aereo, a fare una vacanza in Turchia, a trovarci in una piazza piena di gente, ad andare a un concerto; e dovremmo sentirci al sicuro grazie a qualche camionetta camo parcheggiata per le strade e due soldati con gli AK-47 a tracolla. La realtà, almeno per me, è che non puoi mai sapere un cazzo di quello che ti capita. E allora tanto vale abbracciare il bello e il brutto come parti complementari del tutto, elementi fondamentali di questo bellissimo viaggio pieno di buche che è la vita. Ed è fondamentale che quello che mi piace e mi fa stare meglio, quindi la musica, rispecchi la realtà in cui vivo: e sia fragile quando c’è da sentirsi fragili, consapevole del contesto che l’ha generata, spavalda ma coi piedi per terra. Proprio come RTJ3.
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