Da più di dieci anni si è separata dal marito, un piccolo boss di Cosa Nostra. Figlia di un’importante famiglia mafiosa, lo aveva lasciato dopo avere sospettato che fosse stato complice nell’uccisione di suo padre.
Oggi si è innamorata di un altro uomo, lontano dal mondo della mafia. Un 40enne di bell’aspetto, benestante e proprietario di una barca con cui i due ogni weekend si spingono al largo di Palermo.
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La donna – il cui nome non può essere pubblicato per motivi di privacy – è molto attratta dal nuovo compagno, ma nella vita sessuale non riesce a lasciarsi andare. Nemmeno a decine di miglia dalla costa, al riparo da occhi ‘familiari’. È come se ci fosse una forza interiore che la controllasse e la bloccasse.
“È il tabù mafioso, la legge che si porta dentro,” spiega a VICE News Girolamo Lo Verso, lo psicoterapeuta con cui la donna si è confidata. “In quel mondo una donna sposata non può avere un altro uomo, anche se ha buttato fuori il marito [dalla sua vita].”
La storia di questa donna è solo una delle tante di persone che sviluppano disturbi psicologici dopo aver vissuto a contatto con ambienti mafiosi: come il figlio di un boss, che vorrebbe voltare le spalle al retaggio criminale della famiglia ma è bloccato dalla paura di ritorsioni. O il collaboratore di giustizia, che, dopo aver abbandonato il clan, perde la propria identità ed entra in crisi psicotiche.
Ansia, depressione acuta, disturbo post traumatico da stress e paranoia sono alcune delle patologie di cui soffrono familiari, pentiti e vittime di Cosa Nostra, ‘ndrangheta e Camorra.
I mafiosi doc invece difficilmente provano disagi interiori, come spiegano a VICE News alcuni esperti che lavorano a stretto contatto con la criminalità organizzata. La loro vita è però segnata dalla psicopatologia pura, formata da deliri di onnipotenza, paranoia, sfiducia verso l’altro e assenza di piacere.
È, questa, un’analisi clinica effettuata dall’esterno, dagli psicologi che analizzano i loro comportamenti. I mafiosi stessi in realtà, come ci spiegano gli analisti interpellati, stanno bene all’interno di quella ‘bolla’.
Secondo il professore Lo Verso, che all’Università di Palermo studia la fenomenologia psichica della mafia, i veri boss potrebbero essere paragonati a degli automi, dei robot: personalità prive di emozioni e di piaceri, in cui ogni cosa diventa funzionale all’accrescimento del potere.
“Finché sono integrati nel loro mondo, i mafiosi non mostrano alcun tipo di sofferenza psichica,” dice Lo Verso. “In quel mondo è assente la categoria dell’Io, che, in quel caso, coincide esattamente con il Noi della mafia.”
Ovvero, la psiche di un mafioso, e il suo sistema di valori, sono concepiti dall’organizzazione criminale stessa. Il pensiero dell’individuo si omologa con quello della struttura centenaria di cui fa parte.
Lo Verso aggiunge, però, che “i problemi sorgono quando si crea un crack nella struttura del noi mafioso.” A partire da eventi tragici – come stragi, omicidi o arresti – le angoscie di chi abita quell’universo criminale, fino ad allora represse, vengono a galla.
Per un mafioso è impensabile l’idea di chiedere aiuto e affidarsi nelle mani di qualcuno al di fuori dell’organizzazione. I suoi principi, insieme al senso di vergogna, glielo impediscono.
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Un paradigma evidenziato da un collaboratore di giustizia nel corso di un’intervista con uno psicologo: “Per loro una cosa di queste è, una gravità, è lo stesso, che ti cunviene che pigli ‘a pistola e ti spari! Che ci vai ‘nu psicologo? Ci isti a contari (raccontare) i cazzi nostri allo psicologo? Aspetta, pigghia ‘a pistola e ti spari.”
Se per loro la possibilità di entrare in terapia non esiste, diverso è per le persone che li circondano.
Il professor Lo Verso fa parte di una cerchia ristretta di psicoterapeuti che hanno visto con i propri occhi i danni della mafia sulla mente. Dagli anni Novanta in poi decine di persone tra pentiti, familiari, collusi e vittime si sono seduti sui loro lettini per provare ad alleviare i propri disturbi psichici.
“L’angoscia e l’ansia sono molto forti. Non parlano più al plurale, pensare al futuro diventa impossibile per loro,” dice Antonino Giorgi, professore dell’Università Cattolica di Brescia. “Troviamo persone in preda a un senso di fine di vita dirompente. Alcuni tendono al suicidio, altri sviluppano comportamenti maniacali.”
Negli ultimi anni Giorgi si è trovato a lavorare spesso con quei ‘colletti bianchi’ che, dopo essersi assoggettati ai voleri della mafia, crollano emotivamente. “Dire di sì alla mafia significa scavarsi il fosso,” continua Giorgi, “vuol dire coltivare un rapporto con un mondo distruttivo e antirelazionale.”
Tra i suoi pazienti c’è un imprenditore che, quando andava a pagare il pizzo, si dissociava, fingeva di essere un’altra persona. Quando poi però si guardava allo specchio viveva il trauma delle sue azioni.
Un altro uomo d’affari conosciuto da Giorgi veniva costretto a portare con sé il figlio nei suoi incontri con esponenti mafiosi per non destare sospetti. Una sottomissione che, a lungo andare, ha scatenato forti crisi emotive.
Assistere con la terapia persone che provengono dal mondo mafioso, o che si sono scontrate con esso, è un compito particolarmente delicato: ci vogliono tempo e conoscenze adeguate per conquistare la fiducia di un paziente che ha perso ogni punto di riferimento e non crede nell’altro.
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Nonostante gli sforzi, per molti di loro – dicono gli psicoterapeuti – ci sono poche possibilità di successo. Soprattutto per chi è cresciuto con la mentalità del clan. “Più c’è mafia dentro, meno si può fare psicoterapia analitica approfondita,” sostiene Lo Verso. “Queste persone sono vittima di un pensiero totalitario. L’idea di poter lavorare per superare il dolore e l’angoscia è per loro impensabile.”
Anche nel caso della donna di Palermo non è stato possibile sradicare la radice del suo disagio: il retaggio mafioso. “Seppur l’angoscia per la sua mancata femminilità fosse forte, andare a guardare il mondo che si portava dentro era per lei impossibile,” dice Lo Verso.
A provare i drammi esistenziali più acuti sono spesso i collaboratori di giustizia. Con l’abbandono del mondo criminale perdono la propria identità, sentono le certezze crollare.
Per loro c’è innanzitutto da affrontare il trauma di aver violato il valore numero uno della mafia: la fedeltà. Rivelando i segreti dei clan di provenienza si espongono poi al rischio di ritorsioni, instaurando così meccanismi paranoici. Infine, devono fare i conti con una nuova vita, spesso in una località protetta, dove le libertà possono essere private e il supporto limitato.
Sono diversi i casi di pentiti di mafia che hanno tentato il suicidio.
Come ha evidenziato una relazione della Commissione Parlamentare Antimafia, il sostegno psicologico che gli viene garantito è minimo. Pochi addetti e spesso lontani dal luogo di residenza del collaboratore di giustizia.
Secondo Giorgi, in questi casi, “la psicoterapia è utile ma non siamo certi che queste persone possano, nel tempo, recuperare totalmente le loro funzioni. La loro identità è stata per troppo sovrapposta a quella mafiosa,” conclude lo psicologo.
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