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La verità sul video 'La verità sui migranti'

Il video del 23enne Luca Donadel è finito ovunque, ma sono molte le cose che non quadrano nella sua 'scoperta'.
Leonardo Bianchi
Rome, IT

Da qualche giorno, è praticamente impossibile non imbattersi in un video che promette di dire "la verità sui MIGRANTI." Lo si ritrova nelle proprie bacheche Facebook o su quella di Matteo Salvini, riassunto in diversi siti e ripreso da Striscia la notizia, che lo ha arricchito con i pareri di luminari dell'immigrazione quali Maurizio Gasparri e Laura Ravetto (oltre a due politici del PD che non si occupano di immigrazione).

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L'autore è un ragazzo di 23 anni, Luca Donadel. Quest'ultimo—in un'intervista a Radio Padania riportata su Il Populista—dice di essere uno studente di scienze della comunicazione all'università di Torino e di aver aperto la sua pagina Facebook (che ora ha quasi 80mila fan) "nemmeno un anno fa." Da qui e dal suo account YouTube, nell'arco degli ultimi mesi Donadel ha pubblicato diversi video in cui parlava di Islam, di Brexit, della questione dei tornelli all'università di Bologna e delle "BUFALE dette dai giornalisti CONTRO DONALD TRUMP."

Tutte queste clip hanno in comune un paio di cose: l'ambientazione (una semplice camera); un montaggio di buon livello che sovrappone immagini, grafici e parole; la padronanza del linguaggio e delle dinamiche dei social; e soprattutto la pretesa imparzialità dell'autore, che si presenta come una via di mezzo tra il semplice studente curioso—che buca la coltre di mistificazione dei media mainstream—e un nuovo tipo di giornalista indipendente che fa contro-informazione.

Le stesse caratteristiche sono presenti anche nel suo ultimo video, che ormai viaggia sulle 60mila condivisioni e quasi due milioni di visualizzazioni su Facebook. Sin dai primi istanti, Donadel dice di voler andare oltre gli "slogan di destra e sinistra" e presentare solo "la realtà, i dati, i fatti concreti" sul fenomeno dei flussi migratori che interessano l'Italia.

Chi lo vede per la prima volta, insomma, è portato a pensare di trovarsi davanti a un racconto davvero solido e convincente—grazie anche a un confezionamento (chiamiamolo pure storytelling) studiato ad arte e all'aura di "scoperta su cui tutti avevamo il sospetto." Ma se lo si guarda con un minimo di occhio critico, sono diverse le cose che non tornano e che fanno capire come—partendo da dati più o meno oggettivi (anche se quasi sempre decontestualizzati e sapientemente inanellati)—Donadel arrivi a fornire una visione estremamente parziale di un fenomeno su cui promette "verità."

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Siccome l'autore ha messo parecchia carne al fuoco, vado con ordine. Il video parte con le notizie dei salvataggi dei migranti al largo delle coste libiche, e si concentra sull'impiego dell'espressione "canale di Sicilia." Per lo studente—che qui riecheggia un articolo di VoxNews dell'ottobre del 2016—ogni volta che si usa "canale di Sicilia" in riferimento a queste operazioni si assiste ad una "colossale fake news." Pur esagerando nei toni, non ha tutti i torti: nella prassi giornalistica indica tutto quello che sta sotto la Sicilia, ma è formalmente scorretto.

Per Donadel la disputa non è solo terminologica, ma riguarda "l'opportunità" stessa di compiere quei salvataggi. Il focus si sposta così sulle operazioni di alcune ONG come Sos Mediterranée, Proactiva Open Arms, Medici Senza Frontiere, MOAS, Sea Watch e altre, che dal 2014 affiancano Marina e Guardia costiera italiane e—secondo i dati di quest'ultima—hanno salvato più di 46mila migranti.

A questo punto, Donadel si affida al sito Marinetraffic.com, che permette di tracciare tutte le imbarcazioni dotate di AIS. Il video prosegue mostrando il tracciato di alcune barche (Aquarius, Golfo Azzurro e la Nave Peluso della Guardia costiera), che fanno la spola tra Libia e Italia.

Grab dal video.

Alternando sapientemente le mappe con le parole, Donadel sostiene che "secondo la convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare—trattato ratificato anche dalla Tunisia—le persone salvate in acque internazionali vanno portate nel porto sicuro più vicino, che in questo caso è quello di Zarzis in Tunisia, che dista 90 miglia nautiche dalla zona in cui avviene la quasi totalità dei salvataggi."

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Insomma, si chiede lo studente, "perché andarli a prendere a 10 miglia dalla costa e portarli in Italia" quando, questo è il sottinteso, non dovrebbero assolutamente farlo? Dietro questi spostamenti si nasconde forse un business segreto dei migranti (rinominato poi da Striscia "profughi take away")?

Ciò che mi chiedo io, invece, è: da dove viene l'intuizione di usare quel sito? Da dove vengono le altre informazioni? Sono affidabili?

Anche se Donadel non la cita, la fonte da cui sembra aver preso spunto è un post del 4 dicembre 2016 del think-tank olandese Gefira ripreso, in Italia, anche da Libero e Il Giornale. Intitolato "NGOs are smuggling immigrants into Europe on an industrial scale," l'articolo parte proprio con il monitoraggio di 15 imbarcazioni fatto su Marinetraffic.com e accusa le ONG di "aver trasportato migliaia di migranti illegali in Europa con il pretesto di salvare vite umane. […] Le reali intenzioni di chi sta dietro alle ONG non sono chiare. Non ci sorprenderebbe se la loro motivazione fosse il denaro." Nello stesso pezzo, inoltre, si menziona il "porto sicuro" di Zarsis.

Le stesse accuse alle ONG sono state fatte da Frontex (l'agenzia europea di frontiera) prima in un rapporto interno rivelato dal Financial Times nel dicembre del 2016, e poi nel documento ufficiale Risk Analysis for 2017 pubblicato nel febbraio del 2017. Da questi documenti è inoltre partita un'inchiesta conoscitiva della procura di Catania.

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Medici senza Frontiere aveva rilasciato un duro comunicato, parlando di "accuse estremamente serie e dannose" e spiegando i motivi dell'impegno delle ONG nel Mediterraneo: "Il fallimento dell'Unione Europea e la sua agenzia di frontiera nel ridurre il numero di morti in mare ha portato MSF e altre organizzazioni umanitarie ad intraprendere un passo epocale, intervenendo nella ricerca e soccorso in mare per evitare la perdita di altre vite. L'azione umanitaria non è una causa della crisi ma una risposta ad essa."

Questo significa che le ONG non si sono messe all'improvviso a fare un "servizio taxi" per i migranti, ma stanno andando a colmare un vuoto creato dalle istituzioni europee. Come ricostruisce un lungo e dettagliato articolo di Daniela Padoan sul sito di ADIF (Associazione Diritti e Frontiere), "in un mare sempre più militarizzato, pattugliato dalla Nato e da Eunavfor Med, a fare search and rescue sono rimaste quasi soltanto le navi umanitarie, insieme alla Guardia costiera italiana ed alla Marina militare italiana con l'operazione Mare sicuro."

L'impressione, piuttosto, è che dietro questi attacchi ci sia il desiderio di sbarazzarsi di testimoni scomodi. "Non ci vogliono in mare," ha dichiarato il portavoce della Sea Watch Ruben Neugebauer, "perché sanno che non solo salviamo vite umane, ma siamo anche un occhio libero e indipendente che monitora quanto sta accadendo in Libia. Mentre alla commissione UE vogliono eliminare il problema immigrazione facendo in modo che i migranti restino in Libia"—nei cui centri di detenzione (e non solo) si violano sistematicamente i diritti umani, come abbiamo documentato anche su VICE News.

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Per quanto riguarda la questione degli approdi nei "porti sicuri," poi, la questione è infinitamente più complicata di come la presenta Donadel. Il soccorso in mare è regolato dalla convenzione di Amburgo del 1979—emendata più volte nel corso degli anni—che oltre all'obbligo della prima assistenza prescrive il dovere di sbarcare i naufraghi in un "luogo sicuro."

La giurisprudenza internazionale, precisa il professore Fulvio Vassallo Paleologo, ha inoltre stabilito che lo sbarco "deve avvenire in un 'porto sicuro' anche dal punto di vista del trattamento giuridico che ricevono le persone, e quindi anche in base alla possibilità di richiedere asilo e di ottenere un'accoglienza dignitosa e non nel porto più vicino"—cosa che la Tunisia non è al momento in grado di garantire.

Il caos in cui versa la Libia dal 2011 ha di fatto ridefinito le zone SAR ( Search and Rescue) prescritte dalla convenzione, complice anche il mancato rispetto del diritto convenzionale da parte di Malta. Come spiega un articolo di Limes uscito lo scorso agosto, nella zona SAR libica "il porto sicuro verso cui vengono portati i rifugiati non è un porto del paese SAR né il porto più vicino, ma immancabilmente un porto italiano."

Questo perché, continua il pezzo, "con il venir meno di ogni autorità effettiva sul territorio libico abbiamo esteso la nostra competenza anche all'area SAR libica decidendo (ma la decisione è stata una necessaria reazione operativa più che una strategia consapevole) di giocare il ruolo di 'gigante buono' nell'area. Finché ne avremo i mezzi."

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Perché quindi li "andiamo a prendere," per rispondere alla domanda di Donadel? Perché in questo periodo storico—per una sommatoria di ragioni geopolitiche, giuridiche e morali—siamo rimasti gli unici in grado di farlo, seppur con una certa riluttanza.

Un altro elemento segnalato da Donadel è che le operazioni di SAR nel Mediterraneo non salverebbero abbastanza vite—e dunque, ancora una volta, sarebbero inutili. Mostrando i grafici che attestano l'aumento delle morti nel Mediterraneo negli ultimi anni, Donadel sostiene che la responsabilità sia da ascrivere a Mare Nostrum, a Triton e ai trafficanti che "utilizzano le peggio bagnarole gonfiabili, sicuri che ci sarà qualcuno a recuperarli dopo poche decine di miglia."

Per una persona che vuole "andare a fondo nella questione," è abbastanza curioso confondere in maniera così plateale due operazioni così diverse tra loro. La missione SAR Mare Nostrum, portata avanti dalla marina militare italiana, è durata un anno (dal 18 ottobre 2013 al 31 ottobre 2014) e secondo le stime dell'UNHCR ha salvato oltre 140mila migranti; Triton è coordinata da Frontex e si occupa del controllo e pattugliamento delle frontiere, con un mandato molto più limitato: i mezzi non devono spingersi oltre le 30 miglia nautiche dalle coste europee.

Come ha documentato lo studio Death by rescue delle università di Londra e York, i funzionari di Frontex erano consapevoli che "il ritiro dei mezzi navali dall'aerea, se non propriamente pianificato e annunciato, produrrà probabilmente un aumento delle morti." Cosa avvenuta sia con i naufragi del 12 e del 18 aprile 2015, in cui hanno rispettivamente perso la vita circa 1200 migranti.

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"A causa del ritiro delle operazioni condotte agli stati," hanno scritto gli autori del rapporto, "l'onere del salvataggio è stato trasferito sulle navi cargo, che non sono adatte a questo compito. In questo modo, le agenzie e i politici europei hanno deliberatamente creato le condizioni che hanno portato a una perdita enorme di vite umane."

È vero, invece, che i trafficanti hanno peggiorato sensibilmente le condizioni dei viaggi dalla Libia. A scriverlo è la Guardia costiera italiana nel rapporto 2016 sulle attività SAR, in cui si individuano almeno tre motivi principali: l'assenza di telefoni satellitari a bordo delle imbarcazioni; l'incremento delle partenze notturne e/o con mare mosso; e il maggior numero di migranti stipati sui gommoni (da 100 a 200, in alcuni casi). Tutto ciò, sostiene la Guardia costiera, ha comportato che "dal 2012 a oggi la distanza dalle coste libiche dei punti di intercetto delle unità di migranti […] sia diminuita arrivando fino al limite delle acque territoriali."

Grab dal rapporto della Guardia costiera italiana.

Dopo aver sancito l'inutilità—se non la dannosità—delle operazioni SAR nel Mediterraneo centrale, Donadel introduce due tematiche che dominano il resto del video: il fatto che la quasi totalità dei migranti siano in realtà dei "CLAN-DE-STI-NI" (una parola bandita dal politicamente corretto, a suo dire); e i soldi.

Per dimostrare il primo assunto, il videblogger cita una dichiarazione dello scorso dicembre fatta dal commissario UE Dimistris Avramopoulos secondo cui circa "l'80 percento" dei migranti che arrivano in Italia sono da considerare "irregolari" e dunque da rimpatriare. "A dire queste cose non sono io, ma l'Unione Europea stessa!", ribadisce con enfasi Donadel. "E mentre tutti i paesi confinanti con noi sbarrano le frontiere (Francia, Svizzera, Austria) lo Stato italiano non è semplicemente in grado di espellere queste persone."

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Ora, a parte che elogiare muri e sbarramenti delle frontiere non è esattamente un atteggiamento che va "oltre gli slogan di destra e sinistra," Donadel si limita a citare quel dato e non si preoccupa minimamente di accennare—ad esempio—a come funzioni concretamente la procedura in Italia per richiedere asilo. Dal video, insomma, deriva un assunto netto ed inequivocabile: non fuggono da guerre, quindi non possono stare qui.

Se si guardano i dati ufficiali del Viminale, nel 2016 sono stata presentate 123mila richieste d'asilo. Di quelle esaminate, lo status di rifugiato è stato concesso al 5 percento delle domande esaminate; al 14 è stata assegnata la protezione sussidiaria; e al 21 quella umanitaria. Nel 60 per cento dei casi la domanda è stata respinta.

Naturalmente, pure questi numeri vanno contestualizzati. Negli ultimi anni la percentuale dei dinieghi è aumentata per la combinazione di fattori contingenti—colloqui sempre più sbrigativi, un'interpretazione rigidissima delle norme e le pressioni politiche dall'UE—che tuttavia non necessariamente hanno a che fare con l'infondatezza della singola domanda (qui, qui e qui ci sono diversi approfondimenti).

Ad esempio, come ha detto l'avvocato Alessandra Ballerini, "spesso i commissari [delle Commissioni territoriali] non ascoltano le storie individuali, ma valutano solo il Paese di provenienza del migrante. Chi racconta una storia troppo dettagliata viene sospettato di essersela studiata su Google e, allo stesso modo, spesso viene rifiutato l'asilo a chi è troppo vago." Inoltre, i ricorsi alla giustizia ordinaria—che non tutti fanno—spesso ribaltano la situazione. Secondo i dati del 2014, il 77 percento dei 558 procedimenti definiti si sono conclusi con esito positivo, cioè con l'accoglimento del ricorso contro il diniego.

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In seguito, Donadel si chiede quanto ci costi questo "giochino." Nel rispondere, si avvale di una tabella presa dal documento programmatico di bilancio 2017 del Ministero dell'Economia, ed evidenzia che nel 2016 la stima per la "spesa per la crisi dei migranti" (che ricomprende sia i soccorsi in mare che il sistema d'accoglienza) è arrivata a 3.3 miliardi di euro.

Buttato lì, quel dato sembra oggettivamente enorme. Ma la parte finale della tabella mostra chiaramente l'incidenza di quella spesa sul Pil nazionale: lo 0,25 percento (nel 2015 era dello 0,16). Chiaramente fa molto più impressione dire "TREMILA MILIONI DI EURO" che "lo zero virgola venticinque percento del Pil," no?

La tabella (intera) del MEF.

Dopo questo passaggio, l'argomentazione del "coi soldi nostri" raggiunge il climax. "Abbiamo visto che non salviamo più vite, i rifugiati sono una minima percentuale e tutto questo ha dei costi sociali altissimi, quindi: perché?," dice lo studente. Facile: "non c'è nessun complotto, nessun potere forte; semplicemente c'è un business."

E per sapere chi ci sta fregando, Donadel consiglia—con tanto di link ad Amazon nella descrizione—il libro di un giornalista noto per essere equilibrato e super partes: Mario Giordano. "Fidatevi," rassicura lo studente, "questo è il genere di libro che vale la pena leggere, anche solo per avere argomentazioni concrete e non i soliti slogan."

In pratica i precedenti sette minuti di video sfociano in una spiegazione che, stringi stringi, è la seguente: qualcuno ha tirato su un business sull'accoglienza e sta mangiando alle nostre spalle. Non che non sia un'accusa fondata, in certi casi; ma anche qui si oblitera completamente il contesto—ossia il funzionamento del sistema d'accoglienza in Italia, con tutte le sue criticità e disfunzionalità dovute a una gestione emergenziale e confusionaria.

La questione fondamentale, come ha dichiarato a Internazionale la direttrice del progetto Sprar, "non è quanti soldi si spendono, ma come sono investiti. Non si tratta di un lusso che possiamo permetterci o meno: è un obbligo sancito dalla Costituzione e dalle normative internazionali." Aspetto ribadito con forza, sempre nella stessa inchiesta, anche dal prefetto Mario Morcone: "A meno che non vogliamo uscire dalla comunità internazionale, non possiamo derogare ai nostri obblighi in merito all'accoglienza."

Tuttavia, schiacciare il fenomeno migratorio su una mera questione di business non è "dire la verità"; è fornire una lettura della realtà che ha un unico scopo: quello di fomentare l'indignazione di chi ascolta. Alla fine, infatti, il messaggio che passa dal video è che andiamo a prendere i clandestini dove non ci compete, e lo facciamo solo ed esclusivamente per far arricchire le cooperative e i soliti noti.

Se queste parole non suonano nuove è perché da molti anni un certo tipo di propaganda batte su questo tasto—propaganda che è presente anche nel video, seppur mascherata al punto giusto. In sostanza, Donadel ha impacchettato il tutto in un formato che a prima vista è accattivante e rivelatorio, ma che in profondità è zeppo di contenuti fuorvianti, dati decontestualizzati e interpretazioni a senso unico.

È da notare che nel video non ci sono bufale di sorta, ed è proprio questo il suo punto di forza. Penso piuttosto che si possa parlare di "re-informazione," nel senso di ri-circolo di idee e visioni del mondo che partono dai media di destra, sono fagocitati e adattati dai "giornalisti indipendenti", e rispuntano sugli stessi media in forma diversa. Rispetto ai rozzi video di qualche anno fa o ai coatti che tirano accendini e urlano in cucina, si tratta di un salto qualitativo non indifferente—un salto che, ne sono convinto, non finirà certo qui.

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