Ricordi dalla scena romana dei graffiti di fine anni Novanta

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Roma rappresenta uno degli emblemi indiscussi in Italia per quanto riguarda i graffiti, e se si fa riferimento al train writing, è anche una delle città più attive al mondo.

La metro cittadina è ancora oggi fatta di strati su strati di vernice, depositati sul metallo nella speranza che un pannello giri il più a lungo possibile. Quello della stratificazione, del resto, è uno dei temi più importanti in assoluto se si parla di questa città e di graffiti—anche e soprattutto perché ognuno di quegli strati si è depositato per mano di qualcuno in una situazione ben specifica.

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In questa dimensione—fatta più di ogni altra città, per me che scrivo, di racconti incredibili e gesta incoscienti—prendono quasi vita le fotografie di Andrea Rodolico. Le sue immagini documentano la scena romana tra il 1998 e il 2008, e fermano per un attimo il tempo portandoci al suo fianco.

Come racconta Livia Fabiani, curatrice del progetto From Wall 2 Hall e della mostra che inaugura il 28 giugno a Roma proprio con le foto di Rodolico, “abbiamo scelto insieme di selezionare più immagini che rappresentassero i momenti in yard [i depositi ferroviari] in modo da avvicinare maggiormente il pubblico all’attitudine dei writer.”

Ad Andrea, che ha documentato quel particolare periodo storico, abbiamo fatto alcune domande per cercare di capire meglio cosa sia successo in quei dieci anni a Roma.

La mostra Floating on Empty 1998 – 2008 si apre il 28 giugno, presso la libreria e laboratorio culturale Zalib di Roma.

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Tutte le foto di Andrea Rodolico.

VICE: Parlando del tuo lavoro mi dicevi che hai ritratto “giornate di noia riempite tra i vagoni,” ma viste oggi sono qualcosa di più: una documentazione della scena romana anni Novanta. Cosa ricordi di quel periodo, tra le cose più belle e assurde?
Andrea Rodolico: Sicuramente la cosa più interessante era vivere il deposito come fosse casa propria, quasi noncuranti dell’illegalità. Si cercava di vivere spontaneamente senza pensare troppo alle regole, attraverso un gesto altrettanto spontaneo: la scrittura. Di assurdo c’è che siamo presi dei proiettili, rischiando la vita per questo. Ma questa è Roma.

Cosa ha spinto secondo te la generazione di writer tuoi coetanei a fare ciò che ha fatto? E soprattutto in che modo la città ha contribuito ad alimentare la scena in quegli anni?
Ci sono stati differenti approcci al writing, quindi posso esclusivamente esprimere il mio pensiero. A mio avviso i writer di quell’epoca sono stati prevalentemente spinti dal senso di vuoto. Ci si rendeva conto in quel periodo che il “nuovo mondo”, quello di cui tanto si parlava, prendeva forma cambiando modi di comunicazione, priorità, stili di vita e orari/abitudini lavorative e del quotidiano. E lo stile di vita a cui si era stati preparati non era più attuabile a livello pratico. Questo crea un senso di insicurezza nei giovani, nonché una incomprensione estrema dei nuovi generi di essi da parte della società più standard.

Questi secondo me sono i motivi principali che spingevano i writer a dipingere; neanche loro sapevano il perché delle loro azioni—e la città stessa contribuiva ad alimentare la scena con il proprio malfunzionamento quotidiano. Roma tuttora è una città che conta solo sui turisti, senza offrire servizi al cittadino.

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In che maniera sono cambiati i graffiti a Roma nel periodo in cui ne hai ritratto i protagonisti?
Secondo me, il cambiamento che ha influito maggiormente è stato quello di mentalità e di modalità d’approccio. In passato ci approcciava più spontaneamente, non si conoscevano minimamente i codici universali del writing.

Tra fine anni Novanta e primi duemila è scoppiato la moda dei graffiti e si cominciava a poter approcciare al movimento tramite terzi (riviste, libri, documentari ecc.) anziché tramite i graffiti stessi. Questo ha fatto sì che qualche gruppo di writers abbia avuto involontariamente un approccio meno puro.

Sei stato a stretto contatto con tre delle crew più importanti per la storia dei graffiti a Roma: ZTK, TRV e NSA, a cui la mostra è dedicata. Che impronta stilistica hanno portato a Roma e in che modo hanno ispirato le generazioni più giovani?
Stilisticamente hanno dato un’identità riconoscibile a livello globale allo stile romano vero e proprio, rendendo la capitale unica al mondo—il tutto mentre altre crew più grandi, in quel periodo, avviavano la globalizzazione dei graffiti copiando e prendendo spunto dagli stili europei di moda. Questo secondo me ci stava dando l’allarme del sovraffollamento che avremmo poi iniziato a vivere sempre più a dismisura, proprio come gli strati di vernice ormai incalcolabili sulla metro.

A proposito di strati: l’ambiente dei graffiti ha sempre vissuto di contrapposizioni forti e vere e proprie faide tra writer o intere crew. Questo si traduce in un continuo coprirsi o “steccarsi” pannelli, tag e pezzi in giro per la città. Qual è la tua idea su questo aspetto della scena dei graffiti? Ti torna in mente qualche aneddoto particolare?
Io credo che le faide siano state inevitabili e in parte giuste. Se si fa la stessa cosa non si deve assolutamente per forza essere amici. Ognuno ha i propri motivi, e non necessariamente questi hanno le stesse radici.

Il movimento del writing ha in sé ragazzi di ogni etnia, religione e stato sociale, quindi credo sia normale che, ad esempio, qualcuno si sia “ribellato” alle regole imposte da molti writer stessi, che non consideravano possibile il differente pensiero altrui.

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I graffiti dividono da sempre le masse tra due sentimenti contrastanti, amore e odio. C’è, secondo te, un reale margine affinché un pubblico più ampio possa non considerarli semplicemente come simbolo di degrado e vandalismo?
Secondo me sono assolutamente simbolo di degrado e vandalismo. Se non si cresce nel degrado non credo si abbia l’esigenza di fare graffiti.

Sul vandalismo ho invece la mia teoria. Credo sia esso stesso l’evoluzione di ciò che etichettiamo come arte. Dietro un atto vandalico c’è un atto puro, spontaneo, che racchiude tutte le emozioni provate da chi lo compie in quel momento. Tutto rimane lì ed arriva da un gesto a colpire, fluttuando la sensibilità di qualcuno, proprio come l’arte stessa. Per quanto sia considerato vandalismo, e quindi sbagliato, racchiude la stessa potenza espressiva ed energia di una qualsiasi opera d’arte.

Per concludere: mi hai detto di possedere diverse migliaia di scatti di quegli anni. Sono sicuro che in quel periodo archiviare le fotografie fosse una cosa sacra e oltre alle fanzine le foto non uscivano da casa di nessuno per evidenti questioni di sicurezza. Oggi è sempre più evidente come sui social gli stessi writer dialogano in maniera più diretta con il pubblico. Come valuti questo cambiamento di mentalità?
Che la mentalità cambi penso sia buono a prescindere, al di fuori di come io possa reputare certi passaggi evolutivi. Credo anche che i writer non debbano avere un pubblico, e che il sapere riguardo il writing stesso non sia per tutti, in quanto sottocultura.

Chi vuole un pubblico, chi cerca fama ed affermazione, secondo me avrebbe dovuto far altro nella vita—ma è la mia personale opinione.

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Per vedere altre foto, scorri verso il basso.

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