Nel calcio moderno si parla spesso degli altissimi livelli di stress a cui sono sottoposti i giocatori professionisti. Eppure nel 1994, durante i mondiali negli Stati Uniti, sui 22 calciatori della nazionale colombiana protagonisti di questa storia gravava una pressione molto più grande di quanto possiamo immaginare.
La Colombia si sta risollevando solo ora da un lungo conflitto legato al traffico di cocaina. All’inizio dei mondiali del 1994, Pablo Escobar—il più famoso narcotrafficante di sempre, presunto responsabile della morte di oltre 500 militari, migliaia di malviventi oltre che di diversi giudici, politici e di almeno un arbitro di calcio—era morto già da sei mesi, ma la guerra tra il governo e i narcotrafficanti continuava senza sosta nel caos generato dalla sua scomparsa.
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Giravano talmente tanti soldi tra i narcotrafficanti che era ovvio che questi avrebbero avuto un’influenza anche sul mondiale, anche se nessuno si aspettava ripercussioni così brutali come quelle a cui il mondo dovette assistere quell’estate.
Andrés Escobar era, innanzitutto, un atleta. Sarebbe quindi scorretto parlare della sua morte senza prima analizzare il contesto nel quale si inserisce, anche solo per chiarire le opportunità straordinarie che avrebbe avuto la squadra colombiana se non fosse stata paralizzata dalla paura.
Delle 26 partite che precedettero i mondiali, la Colombia ne perse soltanto una. Durante l’intera fase di qualificazione subì solo due gol e si qualificò battendo l’Argentina di Fernando Redondo, Diego Simeone e Gabriel Batistuta per 5-0 a Buenos Aires—un risultato celebrato dal riconoscimento più alto nel mondo del calcio, ovvero una standing ovation ricevuta dai tifosi avversari. Alla Colombia non mancavano certo i campioni: basti pensare a Freddy Rincón, Carlos Valderrama e Faustino Asprilla. Fu proprio questa squadra di grandi nomi a presentarsi al mondiale del 1994 sotto la guida di Andrés Escobar.
“Mantenere la concentrazione non è facile, ma cerco di trarre la motivazione dalle belle cose che ci aspettano,” aveva dichiarato Escobar, 27 anni, prima dell’inizio delle partite, in vista del suo trasferimento in Italia dove avrebbe dovuto giocare nel Milan. “Cerco di leggere passi della Bibbia ogni giorno. I miei segnalibri sono due fotografie, una è della mia cara madre che non c’è più e l’altra è della mia fidanzata.” Amici e parenti dipingono Andrés come un uomo che credeva davvero che il calcio potesse salvare la Colombia.
Un punto di vista condiviso anche da Michael Zimbalist, che insieme a suo fratello Jeff ha diretto The Two Escobars, un documentario che racconta la storia di quei due uomini accomunati da un nome ma estremamente distanti tra loro, e le cui vite si sono incontrate per mostrare al mondo la vera anima della società colombiana.
“Ad oggi i colombiani sono visti male in tutto il mondo,” mi ha spiegato Zimbalist. “La nazionale colombiana dell’epoca, guidata da Andrés, stava cercando di cancellare questa immagine negativa, anche se credo che in realtà persista ancora oggi, non solo nel mondo del calcio ma per tutti i cittadini colombiani. Personalmente non ho mai incontrato nessuno così determinato a cambiare la percezione del paese agli occhi del mondo.”
Parte di questi pregiudizi derivano anche da quello che accadde quando nel 1994 la Colombia giocò contro gli Stati Uniti nella seconda partita fase a gironi. Avevano già perso 3 a 1 contro una Romania sorprendentemente in forma—principalmente grazie a Gheorghe Hagi, che prima che l’era di internet rendesse note le performance di ogni singolo giocatore sulla faccia della terra, riuscì a conquistare l’attenzione dei media sfrecciando sui televisori di mezzo mondo come un fulmine a ciel sereno. Proprio in quel match di apertura Hagi mise a segno una delle reti più memorabili della competizione, uno strepitoso pallonetto che colse di sorpresa il portiere colombiano Oscar Cordoba. Grazie alla prestazione straordinaria del portiere rumeno e forse a causa della tensione nella squadra colombiana fu la squadra di Hagi a conquistare il match, trasformando il successivo incontro con gli Stati Uniti nella partita che Escobar e soci non potevano davvero permettersi di perdere.
Riguardando le immagini oggi è difficile non chiedersi cosa sia passato nella testa di Escobar nel momento in cui, al 34esimo del primo tempo, deviò il cross del centrocampista americano John Harkes nella sua porta facendosi autogol. Possibile che non si fosse reso conto delle implicazioni che quel fatale errore avrebbe avuto sulla sua vita? A quanto pare il suo nipotino di nove anni che guardava la partita da casa a Medellín, aveva già tutto chiaro. “In quel momento mi disse ‘Mamma, uccideranno Andrés,’” ha raccontato la sorella del difensore colombiano in un’intervista rilasciata per The Two Escobars. “Io gli risposi: ‘No tesoro, nessuno viene ucciso per un errore. In Colombia tutti amano Andrés.’”
Inutile dire che la squadra le tentò tutte dopo quel gol, ma nulla sembrò andare per il verso giusto fino al 90esimo minuto, quando Adolfo Valencia riuscì a mettere il pallone in rete. A quel punto, però, la squadra era già in svantaggio di due gol e non c’era modo di salvare la situazione. La generazione d’oro colombiana aveva perso di nuovo e si preparava al ritorno in patria, dopo un valoroso ma vano 2-0 contro la Svizzera nell’ultima partita del girone.
In un certo senso, casa era l’ultimo posto dove i giocatori avrebbero voluto tornare. In realtà era come se non fossero mai riusciti a scappare. La sconfitta contro la Romania aveva fatto infuriare tantissime persone, non solo per motivi sportivi ma soprattutto per i soldi scommessi sulla vittoria colombiana. Quando i giocatori tornarono in hotel dopo la sconfitta, gli schermi dei televisori erano stati manomessi e al posto dei tradizionali messaggi di benvenuto trasmettevano terribili minacce e insulti. Il difensore Luis Herrera apprese in quel momento che suo fratello era morto in un incidente stradale e il coach colombiano Pacho Maturana fu messo in guardia duramente: se nella partita seguente avesse messo in campo il centrocampista Gabriel Gomez tutti gli altri giocatori sarebbero stati uccisi.
Fu in questo clima di tensione e terrore che la Colombia affrontò la seconda partita del girone contro gli Stati Uniti. “Psicologicamente eravamo sotto una pressione tremenda. All’epoca, quando si parlava di assassini non erano solo minacce a vuoto,” mi ha spiegato Zimbalist. “La gente moriva a ritmi assurdi in Colombia. Potete immaginare quanto sia difficile dare il meglio in campo quando la vita della tua famiglia è a rischio.”
La maggior parte delle persone non riuscirebbe nemmeno a cucinare un uovo se sapesse che c’è in gioco la vita della propria famiglia, figuriamoci cercare di vincere la coppa del mondo. Nonostante tutto, una volta a casa, Andrés continuò la sua battaglia per la pace nel paese, senza lasciarsi influenzare dall’eliminazione dal mondiale. Decise così di scrivere una lettera aperta sul quotidiano di Bogotà, El Tiempe, dove chiedeva al paese di unirsi contro la violenza e la rabbia. “La vita non finisce qui. Dobbiamo andare avanti… Per quanto sia difficile, dobbiamo rialzarci,” scrisse.
Dieci giorni dopo il fatale autogol nella partita con gli Stati Uniti, Andrés decide di uscire per la prima volta, per bere qualcosa con gli amici, al bar El Indio di Medellín. Nonostante Herrera gli avesse sconsigliato di uscire. E Maturana avesse fatto lo stesso.
A un certo punto della serata, quattro uomini seguono Andrés fuori dal locale e nel parcheggio lo picchiano e lo chiamano “finocchio”. Il capitano, sconvolto, cerca di spiegarsi, ribadendo che non era affatto sua intenzione, chiedendo loro di capire. Sei proiettili più tardi, Andrés sprofonderà nel sedile del passeggero della sua auto. L’intervento dell’ambulanza per cercare di rianimarlo sarà vano.
“Ovviamente eravamo consapevoli di quello che era successo,” dice Terry Phelan, nelle fila della squadra irlandese ai mondiali. “Uccidere per un autogol, è davvero necessario che qualcuno perda la vita per questo? Ricordo di averne parlato un paio di anni fa con Carlos Valderrama, che pianse quando nominai Andrés. Mi disse che era ancora un ricordo troppo doloroso per lui. E così ti chiedi, ‘Perché?’”
È una domanda lecita, e allo stesso tempo una domanda che non ha risposta e forse mai l’avrà. La tesi che prese piede al tempo, era che l’omicidio fosse stato causato dalle ingenti somme di denaro perse in scommesse. Molti, ancora oggi, pensano che sia vero. Tuttavia, alcuni testimoni oculari dichiararono alla polizia che il veicolo con cui si allontanarono i colpevoli quella notte fosse di proprietà di Pedro e Juan Gallón, due fratelli narcotrafficanti che operavano per conto di Pablo Escobar, prima di passare al cartello rivale Los Pepes. Al tempo, però, i fratelli Gallón ne uscirono puliti, perché una delle loro guardie del corpo—Humberto Castro Muñoz—confessò l’assassinio e scontò 11 anni, su una pena di 43 totali.
Tuttavia, uno dei sicari di Pablo Escobar, Jhon Jairo Velásquez Vásquez—o “Popeye”, pentito e oggi celebre youtuber in patria—ha sempre sostenuto che i fratelli Gallón avessero corrotto le persone giuste, pagando fino a tre milioni di dollari per uscirne indenni e incastrare Muñoz. Vásquez sostiene inoltre che il movente dell’omicidio non fu il denaro perso in scommesse. “L’errore di Andrés fu quello di rispondere a quei tizi,” ha dichiarato in una delle numerose interviste. “L’ego dei fratelli Gallón era talmente gonfio dopo aver fatto fuori Pablo, che non avrebbero mai permesso a nessuno di controbattere, nemmeno ad Andrés. Le scommesse non c’entravano nulla, è stata una rissa finita male, tutto qui.”
Se tra accuse e contrattacchi tra i sicari della droga e la discutibile affidabilità del sistema giudiziario colombiano è piuttosto difficile fare chiarezza su chi premette il grilletto in quella notte d’estate a metà anni Novanta, forse, in un certo senso, non ha nemmeno molta importanza. Per quanto possa sembrare strano, per il ruolo che aveva Andrés e per il suo approccio alla società del tempo, forse la condanna del suo assassino alla prigione non basterebbe per vendicare la sua morte. Il suo unico desiderio sarebbe stato vedere cessare la violenza e gli assassinii nel suo paese e vedere il popolo che amava libero dall’oppressione della guerra civile.
“Abbiamo iniziato con l’idea di fare un film su chi avesse ucciso Andrés Escobar, ma alla fine ci siamo ritrovati con uno spaccato più ampio sull’intera società colombiana—penso che il significato della vita di Andrés, così come quello della sua morte, siano legati alla storia del paese; va molto oltre la semplice domanda ‘chi ha premuto il grilletto?’” spiega Zimbalist. “Andrés è stato un esempio di speranza nei momenti più bui, ed è proprio per questo che la sua morte ha sconvolto tutto il paese nel profondo. Non credo che ci sarà mai una conclusione ’emotiva’ al suo omicidio, è stato un vero shock per la sua famiglia, i suoi compagni di squadra, i suoi amici e tutto il paese. Trovare il nome dell’assassino potrebbe risolvere solo in parte il suo caso, ma la vera risoluzione della vicenda di Andrés e della Colombia sarà vedere il paese rifiorire e crescere in una direzione positiva.”
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