La scuola, se ci pensi, è un luogo ideale per coltivare il proprio spirito imprenditoriale. Per anni la tua vita si svolge in buona parte lì, ed è tra i suoi corridoi che cerchi risposta a bisogni di ogni tipo: un aiuto coi compiti, una merenda più attraente dei cracker, l’ultima edizione del tuo fumetto o videogioco preferito. In questo senso, la popolazione studentesca si divide grossolanamente in due: chi usa i pochi soldi a disposizione per acquistare un bene ambito, e chi si inventa modi per ottenerlo e venderlo—ovviamente, molto spesso, aggirando le norme.
Abbiamo deciso, con intenzioni puramente compilative, di parlare con persone che avevano imbastito floridi commerci sottobanco a scuola. C’è chi ha venduto o barattato sigarette, assorbenti, tavole di educazione tecnica, appunti e così via. Qui di seguito, le testimonianze più interessanti.
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Quando tua mamma è la prof di francese: la bozza delle verifiche
Nel glorioso spazio di tre mesi, quando avevo 16 anni, ho venduto a 150 euro l’una le bozze delle verifiche di francese che mia madre, professoressa al liceo linguistico, preparava per le sue classi. Avevo sempre saputo che le custodiva nei cassetti del suo studiolo di casa, ma l’idea di ficcarci il naso non mi aveva mai attraversato la mente: la scuola era forse la cosa che mi interessava di meno della vita, all’epoca. Mi interessava però una ragazza, casualmente alunna di mia madre, e la storia della possibilità di accedere alle verifiche era il perno su cui avevo impostato tutto il mio corteggiamento.
La prima brutta della verifica l’avevo recuperata a gratis, proprio per impressionarla. Quando la nostra relazione non è decollata, però, ho pensato che avrei potuto alzare qualche soldo. Funzionava così: qualche giorno prima della verifica iniziavo a tenere d’occhio i cassetti dello studiolo, e non appena compariva la brutta, opportunamente catalogata da mia madre, la scannerizzavo (gli smartphone non esistevano ancora), la stampavo e la consegnavo alla persona della classe che si era incaricata di raccogliere i soldi delle adesioni per arrivare ai 150 euro.
Sono sempre riuscito a consegnarla un paio di giorni prima, e anche se c’era un discreto margine di errore—capitava che mia madre decidesse di cambiare un esercizio, per esempio—per un po’ di volte la cosa ha funzionato. Ho smesso quando è arrivata l’estate, ma con quei soldi ci ho pagato la mia prima vacanza con gli amici (ok: a Milano Marittima, non a Ibiza, ma era pur sempre l’epoca in cui gli smartphone non esistevano e valevano solo i racconti mezzi inventati una volta tornati a casa). – Riccardo Bianchi, 33 anni.
Classicone 2000: i videogiochi masterizzati
Tutto è iniziato nell’estate del 1999, quando i miei hanno acquistato un fiammante Windows 98 e io, smanettando, imparato a masterizzare e copiare i giochi della PlayStation. Avevo iniziato a farlo per me, ma quando i miei compagni di classe ne sono venuti a conoscenza, è iniziato il vero e proprio commercio. Avevo appena iniziato la quinta elementare e quasi tutte le PS1 d’Italia erano craccate.
Alla modica cifra di 5.000 lire se non avevi il cd, e 2.000 se mi procuravi quello vuoto, ti avrei consegnato il gioco la settimana successiva. Per velocizzare il sistema, che prevedeva ordini e scambi all’uscita da scuola, dopo un paio di mesi ho stampato una lista di giochi (una cinquantina) da far circolare all’intervallo nelle varie classi.
Ovviamente la segretezza non è durata molto: una settimana dopo aver creato la lista, questa è stata intercettata dalle maestre che hanno indetto un’assemblea straordinaria. Ero sconvolta: pensavo mi sarebbe toccato cambiare scuola. Invece i genitori si sono messi a discutere, e alla fine la maggioranza era d’accordo nel non voler spendere un’eresia in videogiochi. Quindi è diventata una cosa un po’ più “ti procuro il gioco ma devo avere il permesso dei tuoi.” Final Fantasy, Tekken 3 e i vari FIFA sono i giochi che ho masterizzato più di tutti. – Giulia @ohmisslili89, 32 anni.
Gli scoubidou per gli alternativi
Un amico di mio fratello più grande, quando ero in seconda media, mi ha spiegato cosa fossero e come si intrecciassero gli scoubidou. Erano gli inizi del Duemila, e quegli accessori sarebbero di lì a poco tornati di moda, come era già successo negli anni Ottanta e poi negli anni Novanta.
Avevo imparato a intrecciarli in maniera quadrata, piatta, a spirale e quando li ho introdotti tra i miei coetanei nessuno praticamente sapeva cosa fossero e come realizzarli. Compravo i materiali in merceria e ferramenta, vendevo a ricreazione e grazie al passaparola anche al sabato pomeriggio quando si usciva con gli amichetti. Mi ero fatta un conto tra costo dei materiali/manodopera, e avevo un tariffario preciso: scoubidou un euro, uno e cinquanta se con portachiavi annesso, palla scoubidou con portachiavi tre euro, e così via.
È qualcosa che mi sono portata dietro anche nei primi anni di liceo, periodo in cui ho aggiornato la vetrina per la clientela più alternativa (che comprendeva una fauna ampia, dai tizi con la maglia degli Iron Maiden a quelli coi ciuffi piastriatissimi). Dato il nuovo mercato, mi sono messa a ideare accessori (collane, anelli, braccialetti, spille) con plettri bucati e linguette delle lattine, con filo semplice o scoubidou. Che ovviamente erano più costosi, tra i 5 e 10 euro. Poi la moda è scemata o mi sono scocciata io e ho smesso. – Gaia Librizzi, 29 anni.
Il commercio delle penne colorate
Era l’anno scolastico 2003/2004, io ero in seconda media, e tutti invidiavano le mie penne, soprattutto quelle colorate. All’epoca i miei lavoravano per noti marchi di cartoleria, di quelli piuttosto costosi, e in casa avevo scatole su scatole di “campionario,” migliaia di penne a disposizione. Gratis.
Avevo iniziato su richiesta a regalarne a dozzine, finché una mia compagna di classe mi disse che sarebbe stata disposta a pagarmi. Nel giro di poco tempo, mi ero creato una clientela che andava ben oltre la mia classe. Vendevo penne a prezzi molto più bassi di quelli di listino, e se ne compravi molte ci scappava pure quella in regalo.
A un certo punto la richiesta era così alta che ho dovuto assumere altre due persone. All’inizio le pagavo in penne, ma dopo un po’ hanno chiesto le provvigioni—è stato dopo poco che le loro madri hanno chiamata la mia, ovviamente ignara di tutto. Avevo guadagnato, provvigioni a parte, circa 500 euro in tre mesi e mezzo (somma che avrei volentieri restituito per affrancarmi dal regime di sorveglianza vigilata delle settimane successive). Però che orgoglio che erano tutti quei diari così colorati. – Vincenzo Ligresti, 30 anni.
Cambi di business: dai panini all’erba
Quando avevo 15 anni ho iniziato a vendere al liceo tramezzini alla Nutella, tripla fetta, a due euro l’uno. È durata davvero poco: una professoressa ha bloccato tutto perché a ricreazione la fila di acquirenti occupava un corridoi intero. Un po’ più tardi ho iniziato a vendere marijuana.
Un amico me ne aveva portata di più e l’ho rivenduta a un altro paio di amici. Facendo due calcoli, mi ero ritrovato con un grammo gratis. E questa cosa mi ha spinto a prenderne altra, e a strutturare il business.
Mettevo l’erba nelle bustine e fodere delle carte di Yu-Gi-Oh! e Pokémon che collezionavo da piccolo. Ogni colore corrispondeva a un prezzo e a un peso diverso. Idea geniale, servizio incredibile. Il luogo dello scambio poi era solitamente il bagno, uno poco frequentato, in cui in certi giorni potevi permetterti pure di accendere un bong o un cilum.
Quanto ci ho guadagnato? Alla fine la cosa importante era fumare gratis, ma ho comunque rimediato i soldi per alcuni pezzi della moto, una bici nuova, innumerevoli birre. Ho smesso a 18 anni, ma ho imparato a trattare con la gente e capire il valore dei soldi. Ancora oggi, quando mi preparo un tramezzino alla Nutella, ci penso. – Andrea Valenti*, 26 anni.
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