Mentre in Italia restano da chiudere ancora due Opg—gli ospedali psichiatrici giudiziari tristemente famosi per la loro lunga storia di condizioni disumane di degenza—e si fanno tentativi di ristrutturare l’istituzione dalle fondamenta, dal passato delle cure psichiatriche del nostro paese continuano a emergere terribili testimonianze.
Durante il Ventennio fascista, per esempio—complice l’ampliarsi della categoria della “devianza” morale e sociale—i manicomi si riempirono di donne accusate di essere libertine, indocili, irose, smorfiose o, soprattutto, madri snaturate. I ricercatori Annacarla Valeriano e Costantino Di Sante hanno passato al vaglio i documenti del manicomio cittadino di Sant’Antonio Abate, uno degli storici luoghi di trattamento dei disturbi psichici e custodia di persone sgradite alla società, per raccontare le vite delle donne che vi erano recluse durante quel periodo. Ora foto, lettere e cartelle cliniche dell’archivio dell’istituto sono esposte in una mostra in corso alla Casa della Memoria e della Storia di Roma.
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Donne internate durante il fascismo: lo studio dell’Università degli Studi di Teramo
Ho contattato Annacarla Valeriano, della Fondazione Università degli Studi di Teramo, per parlare di devianza, ospedali psichiatrici e foto segnaletiche.
VICE: Per cominciare, da dove nasce l’idea di questa ricerca?
Annacarla Valeriano: L’idea nasce da un progetto molto più ampio della Fondazione Università degli Studi di Teramo, che nel 2010 ha iniziato a valorizzare le memorie del Manicomio Sant’Antonio Abate, che si trova al centro della città, è stato fondato nel 1881 ed è rimasto aperto fino al 1998.
Nel corso di svariati anni passati in archivio ho analizzato circa 7.000 delle 22.000 cartelle cliniche di uomini e donne ricoverati dal 1881 al 1945, facendo confluire una prima parte del lavoro—fino al 1931—nel libro Ammalò di testa. Storia del manicomio di Teramo. Sono poi tornata una seconda volta in archivio per concentrarmi sulle donne internate durante il Ventennio fascista.
Come mai ha scelto proprio questo particolare gruppo? C’era qualcosa di distintivo della situazione delle donne internate durante il Fascismo?
Durante il periodo passato in archivio mi ero accorta che sul frontespizio delle cartelle cliniche relative alle donne in epoca fascista cominciavano a comparire le foto delle pazienti. Prima era una pratica molto rara, ma durante il Ventennio era diventata diffusa—mentre, contemporaneamente, un concetto di “devianza” più ampio rispetto alla morale fascista faceva sì che le donne internate fossero sempre di più. Così ho deciso di approfondire il concetto di devianza femminile.
La foto veniva allegata con una funzione “lombrosiana”, come a voler riscontrare nei tratti somatici la figura della malattia mentale?
Sì, ma bisogna tenere presente che il regime non ha inventato nulla di nuovo, sia per quanto riguarda il principio della fotografia psichiatrica—già diffusa da fine Ottocento—sia per quanto riguarda i modelli positivisti in cui si incardina lo stereotipo della donna deviante. Secondo i principi positivisti di derivazione lombrosiana, si potevano riconoscere la devianza e la malattia mentale nei tratti fisici: nello sguardo, nell’asimmetria del volto, in uno zigomo diverso dall’alto. Ma c’era anche una ragione sociale, quella di descrivere la devianza per renderla riconoscibile e dunque controllabile—se una di queste donne fosse fuggita, si poteva rintracciarla attraverso la foto segnaletica.
Quali erano le “patologie”, le ragioni principali per cui le donne venivano internate?
Diciamo che nel carnaio del manicomio venivano internate varie tipologie di donne devianti. La categoria principale è quella delle cosiddette madri snaturate, ovvero coloro che non hanno saputo assolvere a quel ruolo materno su cui la propaganda martellava, perché già a partire dal discorso dell’ascensione del 1925 Mussolini aveva affermato che l’unico ruolo della brava donna fascista era quello della madre. E in manicomio finiscono tutte quelle donne che non sono riuscite ad andare fino in fondo a quel ruolo.
Da quali ceti sociali venivano queste donne, e in che modo si stabiliva che non assolvessero ai propri compiti?
Parliamo di donne della classe contadina, di un ceto basso che sfiorava spesso condizioni miserabili. Il manicomio attingeva le sue pazienti da una società rurale che in quegli anni era completamente destrutturata, nonostante i proclami di Mussolini riguardanti il ritorno idillico al mondo rurale e la figura della massaia rurale. Erano donne che avevano avuto magari dieci, 12, 14 figli, e che contemporaneamente dovevano svolgere i ruoli di madre, donna di casa e lavoratrice nei campi. Quando, oberate, davano segno di esaurimento nervoso—dovuto anche alla malnutrizione e all’assoluta indigenza in cui vivevano—o non riuscivano a prestare ai figli o al marito le attenzioni necessarie, venivano etichettate come “contro natura”. La stessa etichetta veniva affibbiata alle donne che soffrivano di depressione post partum o manifestavano la volontà di non volere più o non volere proprio figli.
E per quanto riguarda la devianza sessuale? Mi diceva che non erano tanto le prostitute a finire internate, dato che all’epoca c’erano le case chiuse, quanto piuttosto donne che si manifestavano particolarmente “libertine”.
Sì, anche se alcune internate potevano essere prostitute, questo era “ininfluente” a livello di quadro clinico, perché il regime aveva altri metodi di contenimento della prostituzione. Il problema per cui finivano in manicomio, in quei casi, era piuttosto la sifilide. Ma soprattutto c’era il problema delle donne e delle ragazze che si sottraevano ai ruoli sociali e alla potestà famigliare o fraterna, alcune delle quali manifestavano anche esuberanza sessuale—erano ragazze ribelli che dovevano essere ricondotte all’ordine.
Ha trovato delle storie che l’hanno colpita in modo particolare, o ha avuto modo di ricostruire qualche vicenda più straziante delle altre?
Sono affezionata a varie storie—contrariamente a quello che dovrebbe fare il ricercatore quando si avvicina a un oggetto di studio, non ho potuto fare a meno di sentirmi presa da questo vero e proprio archivio del dolore. Le cose più toccanti sono proprio le parole delle degenti, che abbiamo avuto modo di leggere dato che nelle cartelle cliniche sono raccolte le lettere che le donne—le poche alfabetizzate—scrivevano alle famiglie o alla direzione della clinica, e che poi venivano sottoposte a censura preventiva, mai spedite e allegate alla cartella clinica.
Sono spesso appelli accorati alla famiglia per essere riprese in casa, oppure alla direzione del manicomio per essere dimesse; o ancora scritti in cui raccontano la loro vita, le giornate interminabili, sempre uguali, i soprusi, il controllo, il cibo che non basta mai, il vestiario inadeguato.
Ma chi chiedeva il loro internamento, sapendo che non doveva essere un’esperienza piacevole?
Erano le famiglie stesse che chiedevano alle istituzioni manicomiali di curare la propria congiunta, per riportarla ai ruoli che aveva abbandonato—per farla tornare in sé. Il ricovero coatto di “persone alienate pericolose a sé e agli altri e di pubblico scandalo” era regolamentato dalla legge numero 36 del 1904. Di solito era appunto la famiglia a segnalarle, e allora il sindaco con l’indicazione del medico condotto poteva ordinare l’internamento—non tanto diverso dai moderni TSO. Poi, nel 1968, la legge Mariotti ha introdotto la possibilità di ricovero volontario.
Quindi l’ospedale psichiatrico era visto effettivamente come luogo di cura—cioè, l’opinione pubblica aveva fiducia in esso?
Sì, se per cura si intende quello che si intendeva all’epoca. Una finalità fondamentale dei manicomi, allora, era la custodia degli alienati, ovvero delle persone che manifestavano anomalie di comportamento. Un tratto che si coglie nella stragrande maggioranza delle cartelle cliniche di quegli anni è quella di assimilare le anomalie del comportamento a un problema psichico. Un uomo che non aveva voglia di lavorare era disturbato, così come una donna libertina veniva tacciata di “immoralità costituzionale”—che, si capisce dalla formulazione stessa, è una diagnosi che attinge alla sfera morale e non a quella psichica. In molti casi, prima dell’arrivo nel 1952-53 degli psicofarmaci, l’isolamento e la custodia erano considerati di per sé una cura.
Ma a parte la custodia, quali erano le cure che venivano somministrate?
Se ne sono avvicendate diverse: a fine Ottocento vi era una concezione della malattia mentale come scompenso fondamentalmente organico che si cercava di risolvere con bagni caldi e freddi e con la cosiddetta “terapia del riposo”, che consisteva nel tenere le persone legate al letto per lunghi periodi. Ma gli anni del fascismo sono anni di maggiore sperimentazione, in cui si cominciano a usare la malarioterapia, l’insulinoterapia e, a partire dal 1938, l’elettroshock.
In cosa consistono la malarioterapia e l’insulinoterapia?
Sono inoculazioni funzionali a provocare shock organici. Inoculando la malaria nei pazienti psichiatrici, per esempio, si provocavano accessi febbrili fortissimi, con picchi di 42 gradi, che potevano portare al risveglio dalla catatonia o uno shock seguito da repentino abbassamento della temperatura corporea, e quindi a una remissione dalla mania. Ovviamente, erano sperimentazioni molto rischiose che non tutti tolleravano bene—anche perché a volte avvenivano per due-quattro settimane di fila.
Ma dai manicomi si usciva?
Sì, le cartelle cliniche infrangono lo stereotipo culturale che vuole che dai manicomi non si uscisse più. In realtà erano istituzioni porose: ho riscontrato tanti casi di persone internate e rilasciate più volte, che entravano per cure di qualche mese, poi uscivano, poi rientravano. Ma questo dipendeva sempre dal fatto che all’esterno ci fosse una famiglia disposta a riprenderle, che si prendesse la responsabilità di badare a loro. I casi di persone morte in manicomio o che ci hanno passato 50-60 anni sono legati all’assenza di parenti disposti a riprendersele.
Immagino che per le famiglie fosse anche vissuto come stigma sociale l’avere una madre, una sorella o una figlia internata in manicomio, o appena uscita.
Assolutamente sì, una volta entrate in manicomio queste donne smettevano di essere persone; non solo, perdevano anche tutti i diritti civili: il regime fascista includeva chi veniva internato in manicomio nel casellario giudiziario. Per le famiglie era motivo di grande vergogna avere un parente in manicomio, tanto che con il processo di deospedalizzazione successivo alla legge Basaglia molti sono venuti a sapere di avere parenti anche di primo grado in manicomio di cui non avevano sentito parlare perché la famiglia aveva applicato una vera damnatio memoriae ai loro danni. Nell’ambito del terzo tassello del nostro progetto, legato alle memorie più recenti, medici, infermieri e personale mi stanno raccontando alcuni casi eclatanti.
Alla luce dei suoi studi, e considerati anche i cambiamenti nell’istituzione degli ultimi tempi, ci sono elementi nell’istituzione psichiatrica italiana che ancora la preoccupano?
Tanto è stato fatto. Il problema, ora, è scardinare il pregiudizio per cui le persone con disturbi mentali sono pericolose. Per esempio, la prima cosa che spesso le cronache dicono in caso di un omicidio è che il killer è “uno squilibrato”, perché questo ci serve a rassicurarci e deresponsabilizzarci. C’è anche il problema della violenza e dei soprusi nelle strutture, ma a quanto ne so sono casi isolati. E resta aperta ancora oggi la questione degli istituti psichiatrici giudiziari, che secondo me sono un po’ quello che resta di quella grande aberrazione che sono stati i manicomi in Italia.
Qui più informazioni sulla mostra I fiori del male – Donne in manicomio ai tempi dei fascismo
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