In fila per il pane al nuovo Eataly


Foto di Luca Massaro.

Lo scorso sabato sono stato all’inagurazione di un nuovo kebab in Barona. Il cibo era gratis e, sia per la ressa che per il tipo di persone accorse, più che nella Milano in attesa di ospitare l’Expo 2015 sembrava di essere nella Calcutta de La città della gioia. Nell’aria aleggiava un disperato furore e, più che fame, rabbia e bramosia. Martedì sera invece sono stato all’inaugurazione della nuova sede di Eataly a Milano, nei locali dell’ex teatro Smeraldo: la ressa era la stessa, ma l’atmosfera era del tutto diversa. 

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Dalla sua nascita, nel 2004, l’obiettivo di Eataly è sempre stato quello di far indossare l’abito buono alla tradizione culinaria nostrana e portarla in giro per il mondo, puntando sull’eccellenza e sulla valorizzazione del rapporto diretto con i produttori. Il primo punto vendita è stato aperto nel 2007 a Torino, al Lingotto; in seguito ne sono arrivati altri 23—a Roma, New York, Chicago, Tokyo, Dubai.

Quello inaugurato martedì a Milano era il venticinquesimo, frutto di un accordo raggiunto due anni fa con Gianmario Longoni, ex proprietario dello Smeraldo costretto a vendere l’edificio dopo che l’eterno cantiere ha spinto alla fuga gli sponsor e portato al fallimento il teatro. Il taglio del nastro ha dato il via a cinque giorni di festa—gli stessi in cui ricorre l’anniversario delle Cinque Giornate di Milano. Nel caso ve lo steste chiedendo, non si tratta di una coincidenza. 

La nuova sede di Eataly a Milano è un leviatano su più piani con la facciata in vetro. Quando sono arrivato, verso le 19, la fila per entrare occupava quasi metà di piazza XXV Aprile. Le persone sembravano in preda a un’eccitazione latente, frutto più della curiosità che di un reale interesse per l’evento. In un certo senso, non erano loro ad andare da Eataly—era Eataly che veniva da loro. 

Sono entrato, ho superato le casse e gli scaffali di libri di cucina e mi sono guardato intorno. Ci sono tre piani circolari interamente occupati da ristoranti, chioschi e reparti specializzati nei vari tipi di cibi che danno sul mercato ortofrutticolo che occupa buona parte del piano terra. A quanto pare l’idea di sublime di Farinetti è gustarti un piatto di pasta per il quale hai speso 10 euro mentre osservi con un misto di curiosità e accondiscendenza la signora che sceglie i pomodori. In generale, il posto sembra un grosso supermercato che per carnevale ha deciso di travestirsi da centro commerciale. 

L’estetica dell’ambiente è curata nei minimi dettagli: dai cartellini del prezzo alle insegne dei negozi, dai pomposi cartelli che intimano ai clienti di non rubare alle indicazioni per i bagni. Nel reparto della pasta, i cuochi lavorano di mattarello dietro una vetrina, davanti agli occhi dei passanti: manca solo una scritta che dica di che specie sono e quale sia il loro habitat naturale. 

Nonostante la ressa, tutto appariva pulito e in ordine, come se l’intero locale ci tenesse a sottolineare, visibilmente imbarazzato, che il caos e il frastuono di migliaia di voci e di corpi ammassati nello stesso luogo nello stesso momento non fosse in alcun modo colpa sua. Intanto, sul palco che dal secondo piano domina la sala, l’orchestra suonava De André. 

A un certo punto su quello stesso palco compare Natale “Oscar” Farinetti, che visibilmente brillo improvvisa un breve discorso di circostanza. Con lui c’è Giacomo, che fa qualche tiepida battuta sull’assenza di Aldo e Giovanni. Dopodiché corrono entrambi a rifugiarsi all’interno di “Alice”, il ristorante pluristellato ancora chiuso al pubblico. Provo a entrare fingendo di essere famoso, ma non se la beve nessuno. 

Non essendo riuscito ad avvicinarmi al grande capo, decido di fare un giro per vedere che tipo di persone decidono di passare il loro martedì sera all’inaugurazione di Eataly e, soprattutto, perché lo fanno. La camicia bianca a righine azzurre, la divisa milanese dei residenti all’interno della circonvallazione interna, la fa da padrone. Ma la clientela è abbastanza variegata, sia per età che per estrazione sociale. Quasi tutti i giovani con cui ho parlato erano stati portati lì dalla segreta speranza di assaggi gratuiti; gli anziani invece, in genere, volevano semplicemente curiosare. A giudicare da come si muovono per i reparti e dalle cose che mi dicono, ho come l’impressione che né gli uni né gli altri possano permettersi di fare la spesa da Eataly. 

Un ragazzo con cui ho parlato ha descritto in questo modo l’ambiente: “sembra di stare su una nave da crociera.” Ha ragione: qui a Eataly il cibo diventa pretesto e strumento per un nuovo tipo di intrattenimento di massa, basato sulla trasformazione di un atto di tutti i giorni come quello di andare a fare la spesa in un’”esperienza” a 360 gradi.

Del resto Eataly non ti vende solo un pacco di pasta, ti vende anche il piacere di comprarla. Per questo i cuochi sono in vetrina, i prosciutti pendono dal soffitto come gli scheletri dei dinosauri nei musei e il libro di Farinetti, Storie di coraggio, è esposto un po’ ovunque. Per questo all’ingresso del locale, ad accogliere i clienti/visitatori, c’è un cartello che dice: “L’Italia è una repubblica democratica fondata sulla bellezza.”

Al reparto dei vini mi fermo a parlare con Matteo, che si occupa di comunicazione, e con la sua compagna. Per alcuni interminabili minuti lo sto ad ascoltare mentre mi parla di come, a suo avviso, lo stile in cui sono scritte le etichette sulle bottiglie di vino stoni con la cura maniacale del dettaglio che è la cifra stilistica del posto. Di fronte a uno scaffale di bottiglie di vino da 10-15 euro, lui si lamenta dell’assenza di cura per la “bellezza estetica dell’oggetto”. Gli chiedo un giudizio su Eataly. “Gli do un da nove,” dice, “ma resta comunque un posto da borghesi intellettualoidi che vogliono far vedere di essere di sinistra.” 

Loro invece sembrano estasiati dall’esperienza che stanno vivendo. “Abbiamo un chiosco di panini qui vicino,” dicono in tono sognante, “ci piace l’atmosfera di libertà che si respira da Eataly.” Gli faccio notare che questo posto gli farà concorrenza, ma non sembrano granché preoccupati. 

Provo a parlare con alcuni dipendenti, i quali mettono in chiaro fin da subito che non sanno se potranno rispondere a tutto. Anche di fronte alla domanda più innocua, scelgono le parole con grande attenzione. 

È più di un’ora che mi aggiro per gli spazi spazi espositivi e parlo con persone d’ogni tipo. Più osservo l’ambiente in cui mi trovo, più mi sembra un po’ inautentico, come se tutto quanto fosse stato tirato a lucido e preparato accuratamente prima di essere mostrato al pubblico. Il tentativo di impressionare positivamente il visitatore è, ai miei occhi, talmente palese da sortire l’effetto opposto. 

Ma a quanto pare non è così, o almeno non per tutti. Mentre altrove può agevolmente cavarsela sfruttando l’effetto ipnotico che l’idea platonica di “Made in Italy” ha sulle menti e sui protafogli dei selvaggi che abitano quei luoghi e barattare perline e liquori in cambio di oro e pietre preziose, in Italia Eataly sta fondamentalmente cercando di vendere la neve agli eschimesi. Ma finora, a giudicare dal giubilo con cui gli eschimesi hanno accolto questo tentativo, pare ci stia riuscendo piuttosto bene. 


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