Cibo

Ho parlato con lo chef che ha fatto innamorare Milano del sushi

Nobu sushi

Il “California Roll” – con salmone, avocado e maionese, tutti ingredienti ben poco giapponesi – è giapponese quanto gli Spaghetti with Meatballs sono italiani.

Alcuni anni fa aveva fatto scalpore la scoperta – tramite i dati aggregati delle posizioni su Instagram – di come a Milano si pubblicassero più foto di sushi che a Tokyo. Non così sorprendente, forse, se pensiamo che in Giappone il sushi si mangia nelle occasioni speciali, mentre a Milano è diventata una specialità locale – il milanese medio lo mangia più spesso dell’ossobuco, di sicuro.

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Si potrebbe dire che è stata proprio l’apertura di Armani Nobu a Milano nel 2000 a segnare l’inizio dell’esplosione della moda del cibo giapponese in città. Non che sia stato il primo: dietro alla Scala già a metà degli anni ‘80 aveva aperto il Suntory, cucina nipponica di stretta osservanza del gruppo del celebre whisky (sì, proprio quello dello spot interpretato dal personaggio di Bill Murray in Lost in Translation).

Ma non sarebbe stata la tradizione giapponese a fare breccia in città – ci voleva la cucina di Nobu a fare da droga di passaggio. La si potrebbe definire “fusion”, in omaggio alla tradizione californiana di contaminare le cucine: dall’Italia alla Francia, dal Messico all’Asia: il “California Roll” (con salmone, avocado e maionese, tutti ingredienti ben poco giapponesi) è giapponese quanto gli Spaghetti with Meatballs sono italiani. Quando uso questo termine durante la nostra intervista, però, lo chef mi riprende: spiega che non lo ama, e che preferisce definirla “Nobu-style”, perché è rigorosamente giapponese per tecniche e impronta complessiva.

Sono così vecchia che mi ricordo di quando questo stile era la novità più eccitante di Milano: era la seconda metà degli anni ‘00 quando andai a cena da Zero, in Corso Magenta (in cucina allora c’era Wicky Priyan) e al bancone restammo ammutoliti a guardare lo chef disporre artisticamente fette di sashimi su un piatto per poi passare su ciascuna una cucchiaiata di olio fumante, a cuocerle in superficie. Per inciso, fu una serata memorabile anche per un’altra ragione: all’uscita, dopo avere speso 80 Euro a testa, andammo a mangiare il famoso kebab a cui spesso ricorre, nella vulgata popolare, l’avventore che ha mangiato troppo poco nel ristorante gastronomico (prima o poi scriverò un think piece dal titolo “Non sono le porzioni a essere piccole, sei tu che sei povero”).

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Sashimi New Style. Tutte le foto per gentile concessione dell’ufficio stampa di Nobu

Avrei scoperto solo anni dopo che il “sashimi new-style” è uno dei piatti più copiati di Nobu Matsuhisa. Ma “copiato” non è nemmeno il termine esatto, perché i suoi piatti sono stati a tal punto fortunati, e così riprodotti all’infinito, da diventare una cucina a sé. Non sono in molti a poter dire di aver creato una cucina dal nulla: un altro esempio è Yotam Ottolenghi con la sua cucina pan-mediterranea; e forse anche la cucina italiana ibrida di Mario Batali (ormai caduto in disgrazia) è simile.

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L’autrice mentre osserva con aria stupita, e forse impaurita, gli insegnamenti di Nobu

Ho incontrato il cuoco giapponese mentre si trovava a Milano in – potremmo dire -tournée: anche oggi che ha settant’anni viaggi per dieci mesi l’anno per visitare i suoi 47 ristoranti nel mondo, e in questo caso era impegnato in una serie di cene collaborative in alcuni dei Nobu europei – la sera prima a Monte-Carlo, la successiva a Londra.

MUNCHIES: Come nasce una cucina sovranazionale?

Nobu: Molti tra i miei piatti più famosi sono frutto di una coincidenza, o di un incontro con un ospite: la mia cucina è sempre pensata in relazione a qualcuno. Certo, ha un ruolo anche la mia esperienza, ormai molto lunga: conosco molte culture e molte cucine, e da tutte sono stato influenzato. Per il resto, a guidarmi è sempre stato il cuore: metto sempre passione in ogni piatto, e da sempre scelgo gli ingredienti di migliore qualità, cucinati in modo molto semplice. E nulla deve andare sprecato, voglio usare tutto: di un pesce, anche le ossa e la testa – fino alle squame, che friggo e mangio”.

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Torniamo alle influenze nei paesi in cui hai lavorato. Prima di aprire a Los Angeles il Matsuhisa, il primo ristorante di grande successo, è stato in Alaska.

E prima di allora in Perù, e poi in Argentina e infine in Alaska. Lì ho aperto un ristorante, che è andato completamente a fuoco solo 50 giorni dopo l’apertura: rimane il peggior ricordo della mia vita [ nell’autobiografia “Nobu Matsuhisa” (pubblicata in Italia da HarperCollins quest’anno) racconta di come, in seguito a questo evento, abbia considerato il suicidio, e a fermarlo sia stata solo la preoccupazione per la moglie e i loro bambini, N.d.R]. Da lì sono andato a Los Angeles: un giorno ho visto il merluzzo nero al mercato, che era così diffuso ad Anchorage, in Alaska. Costava così poco all’epoca! 25 centesimi per libbra. L’ho trattato con una tecnica giapponese, il saikyo-yahi, una ricetta che prevede di marinare il pesce per tutta la notte nel miso bianco, per poi grigliarlo. È diventato un simbolo perché in un’intervista Robert De Niro – ormai un affezionato cliente – lo ha menzionato come suo piatto preferito; e così tutti hanno iniziato a mangiarlo; e alla fine è diventato famoso in tutto il mondo. A Londra un giornale titolò “Se De Niro è il Godfather – il padrino – Nobu è il Codfather, il padre del merluzzo”.

“L’ho pregata di assaggiare il pesce: ne ha mangiato un pezzetto, poi un secondo, fino a terminare il piatto ripetendo ‘È fantastico!’. Il pesce fresco non sa ‘di pesce’: ha un gusto molto pulito e nessun odore”

Qual è invece la storia del sashimi new-style?

Una volta al Matsuhisa una signora mi ha detto “Nobu, fai tu”: quel giorno avevo del bellissimo pesce fresco, quindi ho preparato del sashimi, l’ho impiattato e mandato al tavolo; ma lei: “Mi dispiace, non mangio pesce crudo”. Era impiattato così bene che non volevo rovinarlo, quindi l’ho riportato in cucina dove in una padella c’era dell’olio caldo, quasi al punto di fumo, per una frittura. Ho spruzzato sul pesce un po’ di salsa ponzu e ci ho versato l’olio, che l’ha cotto in superficie. L’ho riportato a tavola e l’ho pregata di assaggiarlo: ne ha mangiato un pezzetto, poi un secondo, fino a terminare il piatto ripetendo “È fantastico!”. Il pesce fresco non sa “di pesce”: ha un gusto molto pulito e nessun odore. Questo per lei è stato un punto di svolta, dopo di che ha anche iniziato a mangiare pesce crudo.

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Tu sei stato uno dei primi celebrity chef al mondo. Hai fatto cameo in film come Casinò di Martin Scorsese, sei diventato famoso per il ruolo di Mr. Roboto nel terzo film di Austin Powers
Non penso di essere famoso.

Beh, non te lo sto chiedendo – te lo sto dicendo.
Sono molto orgoglioso che le persone conoscano il mio nome e che alcuni mi riconoscano, anche se questo comporta una grande responsabilità. Non ho mai voluto diventare famoso, di per sé. Ho aperto il mio primo ristorante ormai più di trent’anni fa: mi sento fortunato perché ho una buona squadra, sono ancora in salute, posso ancora viaggiare e creare i nuovi piatti. Il resto sono cose che altri dicono di me, non che io userei per descrivere me stesso. Non direi mai “sono famoso”, non mi piace dirlo.

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Che progetti ci sono dietro l’angolo

Come gruppo stiamo portando avanti un ambizioso progetto alberghiero, abbiamo già una decina di hotel e altri stanno per aprire. Il nostro è iniziato come un progetto di ristorazione ma si sta ampliando, un po’ come ha fatto Armani, del resto.

E per Nobu personalmente?

Non penso molto al futuro, rimango nel momento e non mi guardo mai più lontano di pochi minuti. Ma ovviamente un giorno andrò al cimitero.

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