Compilare le liste delle cose più influenti e/o belle del decennio è stato tanto fantastico quanto terribile.
È stato bello rendersi conto di come le cose si sono evolute, riascoltare dischi che dieci anni fa ci esaltavano e renderci conto che—hey, erano davvero importanti, alla fine. È stato brutto rendersi conto di come di certe cose splendide ci siamo tutti dimenticati, e anche notare alcuni problemi del sistema—per esempio, la drammatica scarsità di diversità nelle liste che sono venute fuori alla fine. È stato anche brutto rendersi conto che era impossibile rappresentare davvero tutto e tutti.
Videos by VICE
Per il prossimo decennio, quindi, speriamo che ci siano 1) meno cazzi 2) più diversità 3) più rappresentanza 4) più cose sempre più nuove. Per questa cosa di Best Of Decennio siamo limitati alla musica italiana perché di liste sulle cose del mondo ce ne sono già a caterve. Avremo tre pezzi: questo sugli artisti, uno sui dischi e uno sulle canzoni. Lungo l’articolo ci sono link ad articoli in cui avevamo parlato di quelle cose quando sono uscite. Ciao!
ACHILLE LAURO
Nel 2012, quando pubblicò Barabba, Achille Lauro era un rapper truce e cattivo, un po’ come la Roma che gli aveva dato i natali. Poi cominciò a vestirsi da donna, a rappresentare un certo modo di unire fluidità e brutalità—un po’ come Young Thug stava facendo negli Stati Uniti. L’esperienza in Roccia Music e i due mixtape pubblicati tra 2014 e 2015 sancirono il suo arrivo nelle alte sfere del rap; Ragazzi Madre dimostrò che poteva camminare sulle sue gambe, affiancato da Boss Doms, al ritmo di quella che chiamava “samba trap”. E poi l’idea di chiamare “glam” la loro musica, e infine quella di fare una mossa controcorrente: fare rock, quando fuori tutto è trap. E fare “Rolls Royce”. E fare Sanremo, senza saper cantare.
C’è Pitchfork che ha scritto nella sua lista di canzoni del 2019 che ormai, con il pezzo giusto, qualsiasi artista può ricevere tutte le attenzioni del mondo in un attimo. Il problema è poi riuscire a mantenerle nel tempo. Il valore dell’arte e del personaggio di Achille Lauro lungo il corso del decennio sta nella sua capacità di reinventarsi continuamente senza perdere in credibilità. Anzi: magari in perderla, la credibilità, ma guadagnando quella di nuove e sempre più grandi parti di pubblico. (Elia Alovisi)
CALCUTTA
La prima volta che ho visto Calcutta era giugno 2016 e rimasi subito spiazzata dalla quantità di persone presenti al concerto, ma soprattutto dall’euforia corale che univa tutti. Ecco, la forza di Calcutta sta proprio nell’essere diventato un punto di riferimento nella musica italiana che unisce tutti, nel bene e nel male. Calcutta è come la Juventus: che tu lo ami o lo odi, sicuramente ne stai parlando e ti fa sentire parte di un qualcosa di importante che sta accadendo. Come ci è riuscito forse non lo sa nemmeno lui, eppure il suo Mainstream (2015) ha segnato un punto di svolta per la musica indie.
Non solo il suo talento cantautorale che riesce a diventare pop di qualità—e qui l’ironia del titolo—ma soprattutto la sua capacità di mettersi a nudo attraverso immagini quotidiane tanto genuine quanto enigmatiche in cui chiunque si può immedesimare, creando una narrazione collettiva condivisibile ed empatica. Calcutta è come quell’opera d’arte che ti fa incazzare perché avresti potuto farla tu. Eppure non l’hai fatta, e se anche ci provassi non sarebbe la stessa cosa. Perché tutti vogliamo scomparire in un abbraccio, ma Calcutta l’ha detto sinceramente, in quel modo disarmante che riesce solo a lui. Talmente schietto, quasi banale, che quasi non capisci perché ti piace, eppure continui ad ascoltarlo. (Cecilia Esposito)
CARL BRAVE X FRANCO126
Naaa Naaa Ancora Che Stamo Pellaaaria Eeh Eeh Eeeh. Da quando questi due sono entrati nelle nostre vite con Polaroid (2017), ci siamo sentiti tutti un po’ più romani. Carl e Franco non solo hanno sancito il primo compromesso musicale tra autotune da trap e indie cantautorale, ma hanno soprattutto creato un immaginario collettivo da adottare. Non sono stati i primi e non saranno gli ultimi a cantare di sventure esistenziali e cuori infranti ma, con i loro testi e le loro personalità, sono riusciti a creare istantanee vivide di vita quotidiana in cui tutti possono immedesimarsi.
I testi di Carl Brave e di Franchino, che sembrano nati per essere scritti sulla Smemoranda, hanno catturato il pubblico grazie proprio alla loro capacità di immortalare uno stato d’animo di una generazione—un po’ malinconico e un po’ no. Ovviamente l’anima romanesca e quell’aria da eterni combinaguai che hanno stampata in faccia sono state la loro Z di Zorro con cui hanno segnato la camicia della nuova scena indie italiana. Una versione aggiornata dei vecchi stornelli romani, che buttano tutto in caciara e strappano sempre un sorriso anche quando non rimane che piangere. (Cecilia Esposito)
CATERINA BARBIERI
Pause, ripartenze, attese, stasi e picchi emotivi: le composizioni elettroacustiche di Caterina Barbieri hanno il grande merito di essere al contempo fotografia e negativo del decennio appena trascorso. Tra arpeggi modulari minimali e ambienti sonici, l’artista indaga le interconnessioni tra uomo, macchina e intelligenze artificiali, inducendo l’ascoltatore in stati di ipnosi cosciente subito perturbati da cambiamenti inattesi che, nel loro impercettibile divenire, sconvolgono. Grazie ad un immenso talento compositivo e ad una rara attenzione per la sfera umana dell’elettronica, Caterina Barbieri si è confermata tra le migliori musiciste contemporanee mondiali, regalandoci momenti musicali di rarissima e preziosa bellezza. (Simone Zagari)
COSMO
Con Cosmo è nato un ibrido unico nella nostra musica: metà popstar e metà producer, con un piede nella serate itpop e l’altro nei club della provincia e d’Europa, e se ne avesse un altro ancora sarebbe pure nelle radio. Ci ha messo un po’ a trovare l’equilibrio fra le parti—più o meno la gavetta coi Drink to Me e l’esordio solista, Disordine. Ma poi, nel 2016, con la hit “L’ultima festa” e relativo album, con dentro un pezzone a più facce come “Le voci”, è riuscito a fondere melodia italiana con cassa in 4/4, sintetizzatori e club culture. Prima che, ovviamente, Cosmotronic non rendesse liquido e tremendamente affascinante il non-confine fra i due mondi. E se, vent’anni dopo i Subsonica, tutto ciò non è una rivoluzione per l’elettronica, lo è sicuramente per il pop italiano. (Patrizio Ruviglioni)
DARK POLO GANG & SICK LUKE
Vi rivelo una cosa: sulla chat della redazione di Noisey, un tempo, c’era un messaggio che compariva ogni mattina che ci si loggava. Diceva “Buongiorno, e ricorda che se la Dark Polo Gang è famosa è solo colpa tua”. Era solo una gag sul fatto che alcuni di noi non hanno mai sentito davvero questa cosa della nuova scuola a tutti i costi come una cosa loro, e quindi ci si rideva sopra. Però penso sia un buono spunto per spiegare perché oggi siamo qua a dire che Tony, Wayne, Pyrex, Side e Sick Luke sono tra gli artisti italiani più influenti del decennio.
La Dark Polo Gang non poteva lasciare indifferenti. Usava parole nuove e buffe, che o ti sembravano stupide oppure affascinanti e spaventose come gli alieni. Ti intratteneva, quando la seguivi su Instagram, e lo faceva sia che ti sentivi un piskelletto suo seguace sia che spizzavi le sue storie per farti una risata o incazzarti. Sulle canzoni diceva cose esagerate, palesemente finte, e così facendo gasava e scandalizzava in egual misura. La Dark generava reazioni qualsiasi cosa facessero, e come nessuno aveva fatto prima di loro.
Lo dimostra il fatto che l’oggetto culturale più celebre di questa cosa che è Noisey, che quando è cominciato il decennio manco esisteva, è il The People Versus Dark Polo Gang. Non un approfondimento, un’intervista, una recensione, un’inchiesta, una segnalazione, una storia. Semplicemente cinque bori di Roma lasciati liberi di insultare gente che li odia e scherza sulla loro musica, assurdamente e involontariamente rivoluzionaria. (Elia Alovisi)
GUÈ PEQUENO
Dopo aver fatto fare il salto di qualità al rap italiano con i Club Dogo negli anni Duemila, negli anni Dieci Gué ha intrapreso una carriera solista che si è svolta interamente in questo decennio. Il bello è che ha anticipato e cavalcato tutte le tendenze che hanno fatto del rap la musica più forte in Italia, quanto non era mai stata. Il vero e proprio padrino della nuova scena nonché uno dei pochissimi artisti che, pur con quindici anni di carriera alle spalle, è ancora in grado di fare uscire cose che possono tranquillamente essere considerate tra le sue migliori in assoluto. Un esempio, che per puro caso ha un titolo perfetto per spiegare quanto è assurda la sua consistenza artistica? “Come se fosse normale”. (Federico Sardo)
HEROIN IN TAHITI
Tra le cose più belle negli anni Dieci della musica italiana c’è sicuramente il Dal Verme di Roma (purtroppo ora chiuso) e la “scena” che intorno a esso si è generata: è stata chiamata in molti modi diversi, ma forse a contare è soprattutto la musica che ha prodotto. È in quel contesto che vengono fuori gli Heroin In Tahiti. Tra Sun City Girls, Quicksilver Messenger Service, tradizione italiana e Morricone gettati insieme nell’abisso, il duo Mattioli-De Figuereido lascia a questo decennio una serie di capolavori che resteranno nel tempo. Pietre miliari per quando, tra qualche decennio, qualcuno scriverà un libro su quello che è accaduto nell’underground in questi anni. (Federico Sardo)
HOLIDAY INN
Tra tutti i progetti usciti dalle catacombe di Roma Est a inizio anni Dieci, era difficile immaginarsi che proprio gli Holiday Inn sarebbero diventati un caposaldo dell’underground nazionale. La loro musica è semplice e primitiva, basata su un organetto, una drum machine e una voce, tutto iperdistorto da un vecchio amplificatore. Muovendosi sulle strade dello Stivale su una vecchia BMW, il duo ha preso il concetto di concerto punk e l’ha incrociato con il rave, con il rito orgiastico, con la sessione di allucinogeni. Ogni volta che scendono dal palco, quando ce n’è uno, si lasciano dietro una massa confusa di corpi e menti spogliate, liberati, incapaci di riconoscere uno schema o una regola nella musica e nella vita. (Giacomo Stefanini)
I CANI
La storia de I Cani è la storia di un artista sfuggente. Niccolò Contessa, quando nel 2010 fece “Wes Anderson” e “I Pariolini di 18 Anni” e le caricò su internet senza metterci un’immagine sua o qualsiasi altra informazione sul progetto, forse non sapeva che aveva appena 1) acceso la curiosità di buona parte della scena indie italiana, che questa cosa dell’anonimato funziona sempre e 2) cominciato a creare un nuovo modo di parlare delle cose: autoreferenziale, semplicione, ma proprio per questo brutalmente vero e sentito da tutti quelli che ci si rivedevano. Cioè la scena indie italiana di cui sopra.
Ma Sorprendente esordio a parte, Contessa dimostrò presto che non era solo un descrittore di luoghi e tipi umani. Di “ironico” lui non voleva fare niente, disse. Niccolò Contessa era solo un cantautore di Cristo. E infatti Glamour fu un momento di transizione verso quell’opera rarefatta che è Aurora, composto da canzoni affascinate dal fatto che gli esseri umani esistono, e stanno in un mondo esiste che sta in un universo che esiste. Le ultime che ha fatto, praticamente. Perché poi ha scritto con altri, per altri, Contessa. Probabilmente si era rotto il cazzo di sentirci parlare così tanto delle sue cose e costruirci sopra significati a cui lui, sinceramente, manco aveva pensato. E se è qua, è perché con I Cani ha sì fatto grande musica, ma anche subito quel modo di parlar-delle-cose per polemikette che ha segnato questi ultimi dieci anni. (Elia Alovisi)
LORENZO SENNI
Prendete i buildup della trance più sfacciata in voga negli anni Novanta e provate a immaginarli decontestualizzati, privati del drop e delle percussioni, coiti interrotti potenzialmente infiniti eppure ancora visceralmente inclini alla danza. È pura follia, lo so, ma proprio per questo il sound minimale di Lorenzo Senni ha saputo stravolgere il mondo della musica elettronica, e non solo. L’iconica trance puntinistica e destrutturata di Lorenzo ha elevato la musica da ballo a concetto e performance, facendole rivivere una nuova giovinezza nella sua reinterpretazione. Quei synth e quegli arpeggiatori, oggi di casa Warp e arrivati persino a Black Mirror: Bandersnatch, sono divenuti un simbolo degli anni dieci, ormai marchio di fabbrica e punto di riferimento per l’elettronica mondiale. (Simone Zagari)
MARRACASH
Tra tutti gli artisti che hanno incarnato la trasformazione del rap italiano da cultura underground a sistema dominante, Marracash è quello rimasto zitto più a lungo. Dieci anni fa era fresco di uno dei primi esordi su cui una major aveva investito considerevolmente, tanto da permettergli di portare un paio di elefanti in quartiere. Rispose con un momento di bulimia artistica: due album, un mixtape e una trasmissione televisiva in poco più di due anni.
È in quel periodo che Marra, forse, si è reso conto che qualcosa non andava. Che aveva dentro un disco buio, contorto e barocco come Status. Che voleva anche scoprire qualcosa, oltre che farla, e così prese sotto la sua ala prima Achille Lauro e poi Sfera Ebbasta. Che se non aveva niente da dire o da mostrare su Instagram, allora poteva anche non dirlo e non mostrarlo. Lotta dietro le quinte, con la sua stessa testa e con il lavoro di artista. Si trasforma, Marra, e diventa grande. Tra alti e bassi nascono Santeria e Persona, i due dischi che sanciscono il suo ritorno e la sua vittoria. È l’unico rapper in Italia, Marra, ad aver avuto una parabola simile. Una di quelle che usano le storie più belle per catturare per sempre il cervello e il cuore delle masse. (Elia Alovisi)
MYSS KETA
Non so bene come sia nata MYSS KETA, ma credo che all’origine lei e le ragazze di Porta Venezia, così come tutto Motel Forlanini, fossero una cosa che un gruppo di amici hanno voluto fare per divertirsi e divertire parlando di tre cose che gli appartenevano: la milanesità, la cultura pop e la queerness. Solo che proprio perché gli appartenevano, pian piano, un sacco di gente si è resa conto che aveva di fronte qualcosa di genuinamente eccitante.
Nel giro di tre anni, MYSS KETA e il suo collettivo sono diventati uno dei fulcri attorno a cui ruotano i satelliti dei creativi musicali milanesi. Sui suoi dischi ci sono le nuove popstar come Mahmood, le eccellenze dell’indie come Any Other e Birthh, le leggende della musica italiana come Gabry Ponte, un personaggio pop ed esponente della cultura trans come Elenoire Ferruzzi, e praticamente tutti i rapper disponibili a Milano nel momento in cui registrava PAPRIKA.
Quando poi, quest’anno, KETA ha pubblicato una nuova versione de “Le ragazze di Porta Venezia” mettendoci dentro le sue nuove amiche—cioè un campionario di artiste che va un po’ di qua e un po’ di là a casaccio per il mercato musicale italiano—mi è pure venuta voglia di darle il ruolo di grande aggregatrice di forza femminile. Che poi dire che le cose sono “femminili” in musica è brutto, secondo me (“il rap femminile”, “le donne dell’elettronica”). Però se c’è una cosa di cui mi sono reso conto stilando queste liste del decennio è che in Italia ci sono tanti, troppi cazzi nella musica. Anzi, ci sono quasi solo cazzi. E se quindi un’artista capace di spaccare e far ridere e far emozionare come MYSS KETA viene raccontata anche come fulcro associativo ed esempio da seguire per rendere meno noiosa ed eteronormativa questa musica che ascoltiamo, ben venga. (Elia Alovisi)
NU GUINEA
La rinascita dell’estetica e dell’immaginario di Napoli lungo questo decennio passa per Gomorra e tutto il rap che ha ispirato e inglobato, per il progetto LIBERATO, ma anche e soprattutto per i Nu Guinea. Dietro questo nome ci sono Massimo Di Lena e Lucio Aquilina, partenopei trapiantati a Berlino che prima nella capitale tedesca e poi nel mondo intero hanno portato la tradizione musicale della propria città d’origine. Nel loro progetto, i due guardano alla tradizione dei Settanta—Pino Daniele, James Senese e tutto il Neapolitan sound—ma anche al funk e alla disco sepolti nei dischi del progetto Napoli Segreta, così come all’elettronica. Il risultato è un mix ballabile, agiografico, sintetico eppure suonato: dentro ha cori, fiati e altri strumenti veri. Sono il gruppo italiano più internazionale, fresco e giocoso. La ripartenza della tradizione napoletana, insomma. (Patrizio Ruviglioni)
SALMO
Quello che hanno fatto Salmo e Machete—quindi anche Hell Raton e Slait, e all’inizio pure En?gma—è sempre andato oltre la musica. Non che quella non fosse importante, anzi: senza anni di militanza nelle chitarre e nell’hardcore Salmo e tutta la sua squadra non avrebbe mai sviluppato la sua identità artistica, che ha sempre trovato un senso di ordine e comunanza nella brutalità e nei diti medi contro l’ordine costituito. Di album in album e di Machete Mixtape in Machete Mixtape, Salmo si è affermato come esempio di integrità artistica, rapper provocatore ma senza strafare, portatore di un gusto per l’estremo ma non troppo.
Come nome più visibile di Machete, poi, è anche simbolo della visione artistica del suo collettivo. Quella per cui è giusto continuare a includere nuovi nomi tra le proprie fila, diversificare la propria identità, lavorare a partire dalla musica ma anche al di fuori della musica. E poi c’è quella cosetta dell’aver messo il proprio nome sulla prima produzione di tha Supreme. E quell’altra, che ancora non è successa, di San Siro. (Elia Alovisi)
SFERA EBBASTA & CHARLIE CHARLES
Se “la trap è il nuovo pop” il merito è principalmente di Sfera Ebbasta e Charlie Charles. Cinque anni fa, in quella stanza di Cinisello Balsamo, sarebbe stato assurdo solo pensarlo ma oggi i beat di Charlie sono al servizio delle major e Sfera appare in radio e in TV. Volenti o nolenti i banger melodici di XDVR, Sfera Ebbasta e Rockstar hanno definito il sound della seconda metà del decennio nazionale, riuscendo là dove nessuno era riuscito mai: portare una ventata d’aria fresca nel mainstream e spodestare la tradizione cantautorale italiana. (Simone Zagari)
TROPICANTESIMO
Non è una band, non è un DJ set, non è una club night. Tropicantesimo è un cerchio magico dentro al quale si realizza un’utopia. Il collettivo capitanato da Hugo Sanchez e Lola Kola è costantemente nel mezzo di una performance. Lo è mentre riempie il posto in cui si trova di foglie, piante e teli di raso, montando allo stesso tempo la postazione del DJ Hugo, con movimenti lenti e un fare a metà tra il mistico e l’annebbiato dall’oppio. Lo è dopo 8 ore ininterrotte di musica lenta e densa come melassa che avviluppa tutti i presenti e li trasporta in un pianeta lontano dove il tempo procede a passo di tartaruga e la musica non ha barriere, in cui il tropicalismo brasiliano può convivere con l’industrial, il post punk e la house music. Nessuno esce da Tropicantesimo senza una nuova consapevolezza di sé, della musica e del modo in cui è possibile vivere la notte, o il giorno, o il non-tempo, tanto non importa. (Giacomo Stefanini)
WOW
Salvo qualche fortunata eccezione, l’indie nostrano ha sempre avuto la tendenza problematica a uniformarsi molto velocemente, sia a livello sonoro che soprattutto di testi, ai modelli di successo del momento, soffocando l’originalità di molti artisti. Gli WOW invece hanno iniziato con un EP lo-fi cantato in inglese per poi lanciarsi in un esperimento meraviglioso: prendere le atmosfere della canzone italiana anni Sessanta e delle colonne sonore cult anni Settanta per renderle compatibili con gli anni Dieci. Il risultato sono tre dischi uno più bello dell’altro, il commovente esordio Amore, il più psichedelico Millanta tamanta e il più cupo Come la notte. Il duo romano ha mostrato una via diversa per l’underground italiano del decennio, che avrebbe forse meritato più attenzioni. (Tommaso Tecchi)
Segui Noisey su Instagram, Twitter e Facebook.