A nessuno piace pensare alla propria morte. Al massimo gli artisti lo fanno in modo poetico e astratto, non nel senso di compilare i moduli per l’amministrazione dei propri lasciti e della proprietà intellettuale delle loro opere. Il che è forse il motivo per cui, quando Prince è morto improvvisamente l’anno scorso a 57 anni, non aveva nemmeno uno straccio di testamento.
Con la sua morte sono iniziati mesi di complicazioni legali e udienze per stabilire chi si dovrà occupare del suo patrimonio. E, trattandosi di un personaggio di così alto profilo, il mondo ha seguito la vicenda con inusuale curiosità. La domanda che tutti si facevano era: la morte prematura di Prince avrebbe dato la possibilità di pubblicare i contenuti del suo famigerato caveau privato? La risposta, abbiamo scoperto la settimana scorsa, è sì.
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Dopo che il suo patrimonio è stato posto nelle mani della banca Bremer Trust e una intensa ricerca del testamento è risultata infruttuosa, è arrivato l’annuncio che tutti stavano aspettando—con trepidazione o con paura: il caveau di Prince sarebbe stato aperto, e almeno alcuni dei suoi contenuti, tra cui si trovano outtake, demo e registrazioni live, sarebbero stati pubblicati.
In caso non aveste ben presente la complessità degli archivi di Prince, ecco un elenco di alcune delle cose che si dice contengano: un side project chiamato The Rebels, finito nel dimenticatoio perché The Purple One pensava fosse troppo generico e insipido; un album con le voci velocizzate da pubblicare con lo pseudonimo Camille, annullato poche settimane prima dell’uscita e infine incluso in Sign O’ The Times del 1987; un documentario diretto da Kevin Smith; un album di musica per bambini ispirato dalla gravidanza della allora moglie di Prince Mayte Garcia, abbandonato dopo la morte del loro bambino a soltanto una settimana di età. I migliori frammenti di questi progetti abbandonati, quelli che gli sembravano degni di essere diffusi, furono inseriti in altri progetti. Quelli che sono rimasti nascosti, sono rimasti nascosti per un motivo.
Quindi perché siamo così ansiosi di forzare, in questo caso letteralmente, l’opera privata degli artisti e divorare i loro scarti? Perché non si tratta solo di Prince; Michael Jackson, Kurt Cobain, Tupac ed Amy Winehouse sono tutti stati sottoposti allo stesso trattamento morboso. Chiunque sia in carico delle loro eredità, per soldi o per sincera volontà di far felici i fan, li ha strizzati fino all’ultima goccia di musica, spesso ottenendo l’unico risultato di annacquare la qualità del loro catalogo. Ma la nostra insaziabile curiosità nasce da un genuino desiderio di godere di più arte possibile, o soltanto da un fascino morboso e una compulsione a mettere le mani su ciò che possiamo avere? Importa che la volontà dell’artista fosse che queste canzoni rimanessero a suo esclusivo appannaggio?
A quanto pare, la legge è costruita in modo da rendere possibili cose del genere. “Il diritto alla privacy delle celebrità è estremamente limitato”, dice James Sammataro, un avvocato dello spettacolo e tra i dirigenti di Stroock & Stroock & Lavan. “Questo è il ‘prezzo’ da pagare per la fama. Con l’eccezione di un diario—o di oggetti di questo tipo universalmente riconosciuti come privati—i diritti alle creazioni degli artisti sono alienabili, e la natura umana porta a cercare di monetizzare queste creazioni”. Lo scopo primario della legge sul copyright, spiega Sammataro, non è di proteggere il musicista, bensì di “stimolare il progresso delle arti per l’arricchimento intellettuale del pubblico”.
“Per quanto sembri severo”, continua Sammataro, “se Prince o altri artisti davvero non vogliono che le proprie opere vengano diffuse, devono registrare questa intenzione in un documento vincolante, oppure non registrare i lavori su alcun formato, o distruggerli”. In altre parole, se sei un musicista e hai un nastro con sopra la canzone che hai scritto quando sei stato lasciato dalla tua prima fidanzatina o fidanzatino a 15 anni, dovresti correre a dargli fuoco. È l’unico modo per stare sicuri.
Sono casi come quello di Kurt Cobain dei Nirvana (nel periodo precedente all’uscita di Montage Of Heck, ogni mezza scoreggia che Cobain avesse mai inciso su cassetta è stata resa disponibile, e dieci anni prima sono stati pubblicati i suoi diari privati) che rendono ansiosa una musicista come Mitski. “Sinceramente, il pensiero di morire prima di finire un disco e sapere che verrà distribuito senza di me è quello che mi spinge a guardare due volte prima di attraversare la strada”, mi confessa. “Se non pubblico qualcosa per scelta mentre sono in vita, significa che non voglio pubblicarla, e mi sento umiliata al pensiero che qualcuno possa esaminare i miei quaderni e i miei promemoria audio e li possa rendere pubblici contro il mio parere. Sono terrificata da quello che la gente si sente giustificata a fare quando si trova in gregge o in gruppo e vuole saziare la propria curiosità”.
Laura Marling concorda: “Mi fa pensare all’album che ho scartato, a quanto schifo mi fa, e al periodo di merda della mia vita che lo ha prodotto. Non vorrei infliggerlo a nessuno. Quindi spero che nessuno lo pubblichi. Una mia amica sta facendo un dottorato in archivistica digitale e mi ha detto: ‘Dovresti farmi vedere che cos’hai sul computer e farmi organizzare un archivio’ e io le ho risposto ‘col cazzo!’”
Eppure, tra tutte le registrazioni inedite che non avrebbero mai dovuto vedere la luce, c’è la musica di Arthur Russell. Arthur Russell, talmente insicuro riguardo alla propria musica che nel corso della propria vita ha a malapena rilasciato qualche brano, dopo la sua morte nel 1992 ha lasciato dietro di sé migliaia di bobine che lo hanno consacrato come uno degli artisti più importanti di tutti i tempi. È improbabile che sarebbe stato citato come influenza da gente come Dev Hynes e James Murphy degli LCD Soundsystem, campionato da Kanye West o coverizzato da Roby e Sufjan Stevens se la sua produzione musicale si fosse interrotta con la sua morte. Another Thought, il bellissimo e innovativo album uscito due anni dopo la morte di Russell, conteneva semplicemente la sua voce, un violoncello e alcuni beat sintetici ariosi. È possibile che nella sua mente, queste registrazioni fossero soltanto bozze, contorni da riempire in futuro. Quindi è stato giusto pubblicarli?
Lyndsey Gunnulfsen dei Pvris non ha alcun problema con questa idea. “Ci ho pensato poco tempo fa”, dice. “Se morissi in un incidente automobilistico durante la lavorazione di un disco, vorrei senza dubbio che uscisse, altrimenti si tratterebbe solo di una perdita di tempo e nessuno potrebbe mai ascoltarlo”. Quando i quattro membri della band indie rock Viola Beach morirono in un incidente d’auto all’inizio dell’anno scorso, non avevano nemmeno ancora pubblicato un album. Nei mesi seguenti, con l’aiuto delle famiglie dei quattro, il poco materiale che avevano già registrato fu messo insieme ad alcune registrazioni live e pubblicato come album postumo. Raggiunse il numero uno nelle classifiche UK. È difficile dire se avrebbe ottenuto lo stesso risultato se la sua pubblicazione non fosse stata avvolta da un velo di tragedia, ma è difficile immaginare che i quattro giovani non sarebbero stati orgogliosi.
Shura si è sentita nello stesso modo prima della pubblicazione del suo album di debutto Nothing’s Real. “Se mi succede qualcosa”, ha detto al suo fratello gemello Nick, “ti prego, fa’ in modo che facciano comunque uscire il mio album. Voglio aver dato il mio contributo al mondo”. Ma lei sa anche che c’è una differenza tra un musicista emergente che vuole lasciare il segno e musica che un musicista dalla carriera già ben definita ha scelto di non rendere pubblica.
Grazie alla tecnologia e ai social media, viviamo in un mondo in cui è più che mai facile entrare in contatto con i nostri artisti preferiti, più di quanto avremmo potuto sognare dieci anni fa. Di conseguenza, è facile sentirsi autorizzati ad accedere al prodotto della loro creatività, che lo vogliano o meno—e la legge ci viene in aiuto. A volte, però, invece di affannarci a raschiare il fondo del barile, forse dovremmo cercare di accontentarci di ciò che abbiamo. “Quando si tratta degli archivi di Prince, di Kurt Cobain o di Amy Winehouse, parliamo di cose che non sono state concepite per entrare nella discografia ufficiale, e dovremmo rispettare questa scelta. Chiediamo troppo alle persone creative. Per quanto sarei estasiata di ascoltare tutto ciò che Prince ha registrato, non è giusto. E non lo pretenderei mai.”
(Foto per concessione dell’ufficio stampa)