Cultura

La Venezia nascosta fatta di barchini modificati e drammi adolescenziali

atlantide film ancarani

I ragazzi come Daniele non fanno parte della cartolina mentale che la maggior parte ha di Venezia. Girano su barchini dai motori rielaborati e pieni di lucine su cui gareggiano sparando musica a tutto volume, lontani dagli occhi dei turisti e possibilmente da quelli degli adulti in generale. 

Daniele, a differenza di tutti gli altri, è però anche emarginato, schivo, e quando decide di rubare un’elica per battere il record di velocità nella Laguna non sa che quella ricerca di rispetto—la sua ossessione—gli si rivolterà contro.

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È questa la storia raccontata in Atlantide, un viaggio generazionale intimo e psichedelico sviluppato da Yuri Ancarani durante un’osservazione di circa quattro anni.

Presentato dal regista e da Sick Luke, co-curatore della colonna sonora, lunedì 22 e martedì 23 novembre il film è negli UCI e nelle sale d’essai. I due estremi di un mondo come luoghi di fruizione di un film che unisce estremi della narrativa cinematografica, in cui palazzi veneziani illuminati da luci neon raccontano la quotidianità di giovani che non credono nei sogni. 

Ho sentito Yuri per parlare delle origini del film, dei suoi protagonisti-non-attori e della colonna sonora.

VICE: Ciao Yuri. Atlantide è stato presentato in concorso a Venezia, la città a cui è dedicato, poi ha girato un po’ di festival e ora è in sala. Se non sbaglio ha vinto un premio della giuria in Francia. Come ti senti? 
Yuri Ancarani: Sorpreso. Fino a un mese fa non si sapeva che ci sarebbe stata questa apertura improvvisa, invece tutto ha ripreso a girare nel mondo del festival. I miei film hanno sempre fatto parte di questo circuito, ma per Atlantide è una novità perché è il primo dei miei che verrà distribuito in sala. Uscirà in Italia, Germania, Russia, Messico e Austria. 

Come mai da ravennate hai scelto di fare un film così intimo su Venezia?
Ogni volta che faccio un film cerco di metterci dentro una dimensione di intimità, per quanto possa essere difficile farlo per una lontananza di contesti. Per farti un esempio: in The Challenge, mio ultimo film prima di questo, raccontavo la vita scellerata degli sceicchi nel Golfo persico. 

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Venezia l’ho sempre vissuta come tutti quelli che si occupano di cultura: come luogo d’incontro. Ho sempre sentito però una sorta di energia sottesa e misteriosa, come se non si mostrasse mai veramente nella sua realtà quotidiana. È come se tutti volessero mostrarti di Venezia quello che vorrebbero che fosse la città. Quando ho visto per la prima volta un barchino con luci e musica, più di dieci anni fa, ho chiesto chi fossero e mi diedero una risposta del tipo che non dovrebbero esistere. Poi un giorno ho fermato uno di questi ragazzi, gli ho fatto il pieno e mi sono fatto portare in giro. 

Da lì ho capito l’universo dietro a questi micro spazi personali, il correre il più veloce possibile per andare lontano dal quotidiano, la possibilità di uno spazio personale in cui nascondersi lontano da tutto e per fare tutto, anche l’amore. Così ho iniziato una ricerca e mi sono trasferito a Sant’ Erasmo, un’isola molto grande amata dai veneziani e poco abitata e conosciuta. Continuando a salire su questi barchini sono arrivato nei loro luoghi d’incontro, deserti, tendenzialmente abbandonati, dove succedono feste e grigliate. Da lì è esploso tutto. 

Come è stato relazionarsi in maniera così personale alla quotidianità dei protagonisti, mantenendo uno sguardo interno e non invadente?
Il gancio lo devo a un’amica veneziana che conosceva la situazione dall’interno. All’inizio c’era tantissima diffidenza, erano addirittura convinti che fossi della Digos. Quando facevo domande sulle isole ogni volta mi rispondevano in maniera vaga, dicevano che non c’è niente: si sa che dove ti dicono che non c’è niente c’è l’oro, e così è stato.

Quello che li ha fatti sciogliere è stato il fatto che conoscevo la musica che ascoltavano e potevo parlarne. Sapevano che volevo fare un film ma non sapevano quando avrei iniziato—pensavano che fossero tutte delle prove e poi il film è finito.

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Quindi nessuno ‘recita’, in Atlantide.
Tutti i ragazzi non sono attori e non recitano durante il film, tranne la ragazza bionda misteriosa, protagonista della scena topica dell’amore sotto al ponte. Con lei ho agito diversamente: sapeva che avrebbe girato su una barca ma non ci era mai salita. Quando è salita ho acceso la macchina e sono riuscito a catturare quell’emozione di provare una sensazione per la prima volta. 

Sui barchini creavo il mood chiedendo la musica e creando situazioni confidenziali di scambio: loro mi facevano conoscere pezzi, io gli facevo sentire la trap americana… La presenza della Dark Polo Gang e soprattutto una certa scena del film è nata perché quando li ho conosciuti ho chiesto il loro pezzo preferito ed è partita “Magazine”. 

Ecco, parliamo della musica. Come nei tuoi precedenti lavori e nonostante l’eclettismo della tua produzione, ormai da anni affidi le soundtrack al connubio Lorenzo Senni + Francesco Fantini. 
La musica in Atlantide copre 60 minuti di film. C’è una parte curata da Sick Luke e una curata da Senni e Fantini. Loro si sono occupati dell’orchestra, mentre la parte di musica elettronica è curata da Sick Luke—è la cosiddetta musica di plastica dell’universo trap, in questo caso senza la voce per costruire una sorta di drammaturgia sonora. È un esperimento interessante perché la trap sta cambiando e vuole entrare in mondi diversi, e il tentativo è di espandere queste basi per dargli un contesto che fa parte della vita di questi adolescenti. 

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All’inizio, la musica è quasi scollegata dalle immagini. A mano a mano che il film prende forma—insieme alla sofferenza del protagonista—i due elementi si uniscono, fino al momento in cui si sente l’orchestra dei Senni e Fantini, musica colta che ricorda le colonne sonore hollywoodiane ma con un retrogusto d’Italia: lì si sente lo stato d’animo di Daniele che ci porta fino alla fine.

Se guardo le tue produzioni passate, dai corti a The Challenge, vedo un diverso approccio stilistico alla narrazione rispetto a quello di Atlantide. È vero? O forse non ho capito niente?
Quello di Atlantide è un cinema che parla prevalentemente attraverso le immagini e il suono, quindi ha un forte impatto immaginifico, concepito per oscillare fra quella sorta di eleganza misteriosa del cinema noir e la potenza del videoclip. Il filo sottile fra le due cose qui è il caso di cronaca [parte del film], che per come viene rappresentato insieme ai ragazzi identifica tutto il problema di generazione che c’è dietro e il mondo visto dai loro occhi.

Ora, dicevamo, il film è nelle sale—ma prima ha girato un po’ di festival. Cosa ti aspetti da questi spazi di ricerca al di fuori del macrocircuito, in questo momento storico? 
Per la maggior parte delle produzioni ormai l’obiettivo è Netflix, che chiaramente ha delle regole che rischiano di togliere il bello del cinema come laboratorio di ricerca e sperimentazione. Comunque, il cinema deve cambiare e non può rimanere quello che era. 

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Ora noto sale piene e un desiderio di riappropriarsi di ciò che è stato tolto. Da tempo i festival sono diventati luoghi di culto di tutto ciò che è autoriale e ricerca. Sono full immersion che magari durano qualche giorno e che il pubblico ama come spazio esterno a una società sempre più avviata verso la creazione di un intrattenimento che rischia una fruizione più passiva. Vedere le persone col desiderio di tornare alle cose culturali è bello.