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Quali sono i veri problemi dell'università italiana?

I problemi dell'università italiana sono ben noti e portano spesso a dubitare della sua utilità e del suo funzionamento. Per capire di più del suo stato di salute e del rapporto tra università e mondo del lavoro, ci siamo rivolti a un esperto.

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"È un brava ragazza, ha fatto anche l'università," è una delle frasi con cui mia nonna cerca sempre di impressionare le sue amiche quando parla di me. La sua generazione è quella che divide le persone in chi ha studiato e chi non ha studiato—assegnando alla laurea uno status sociale che va ben oltre il mero titolo di studio e i nostri genitori sono ancora figli di questa dicotomia. Per noi invece l'università è un passaggio molto meno discriminante, spesso anzi dato quasi per scontato.

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Tra continue riforme annunciate o attuate, mancanza di fondi, nepotismo e assenza di collegamento al mondo del lavoro, i cosiddetti problemi dell'Università italiana portano spesso a metterne in dubbio utilità e funzionamento. Per capire qualcosa di più sullo stato di salute del sistema universitario italiano e spiegare il rapporto tra questo e il mondo del lavoro ci siamo rivolti a Mario Ricciardi, tra i fondatori di Roars [Return On Academic ReSearch, associazione che si occupa di università, ricerca e occupazione in Italia] e professore di Filosofia del diritto all'Università degli Studi di Milano.

VICE: Secondo gli ultimi dati Eurostat solo il 53 percento dei laureati italiani lavora a tre anni dalla laurea. Quali sono le principali motivazioni con cui spiegherebbe questo dato?
Mario Ricciardi: È certamente un dato che deve far riflettere, ma io in linea di massima trovo corretto ricordare che i dati non sono la realtà. Ci servono per individuarne degli aspetti, ma vanno sottoposti a ulteriori verifiche. Un altro dato che mi viene in mente e che mi dà modo di spiegare questo dell'occupazione è quello secondo cui nel tessuto produttivo italiano abbiamo, rispetto ad altri paesi europei, la percentuale più bassa di manager con titoli di studio elevati.

Questo è un dato interessante che dice molto sulla produttività dell'Italia, e in un certo senso spiega la bassa occupazione dei laureati. Il nostro è un paese in cui c'è stata a lungo la prevalenza di piccole imprese, dove la struttura proprietaria dell'impresa è stata a lungo legata alla famiglia, e quindi dove un laureato può avere difficoltà ulteriori—soprattutto in un momento di crisi—a inserirsi nel mondo del lavoro. Questo non vuol dire che si tratti di nepotismo o corruzione, è una certa idea di fare impresa che porta a una riduzione delle opportunità per i laureati. Intervengono poi altri fattori, per esempio la crisi economica, ma questo non è indicativo del malfunzionamento dell'università italiana, anche perché i laureati italiani trovano poi lavori dinamici all'estero, e questo vuol dire che non hanno una preparazione così scarsa e non sono così inadeguati al mondo del lavoro. Quando ci sono opportunità sanno come avvalersene.

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Per certi versi però è facile arrivare alla conclusione che in Italia non convenga investire nella laurea…
No, questo non si può dire. Da questo punto di vista abbiamo a disposizione altri dati che danno indicazioni diverse. Quelli forniti da AlmaLaurea [che si riferiscono a cinque anni dopo la laurea] ci dicono che sul lungo periodo laurearsi è un investimento, perché dopo un certo periodo di tempo le persone laureate riescono a trovare lavori più qualificati rispetto a persone non laureate.

Spesso uno dei problemi che si riscontrano nell'approcciarsi al mondo universitario è quello della scelta della facoltà. Crede che questo si rifletta nel futuro lavorativo dei laureati?
È possibile. La mia impressione, da persona che ha a che fare con gli studenti, è che parte del problema risieda nel mondo della scuola. La scuola potrebbe non dare agli studenti quella capacità di valutazione critica ma anche di conoscenza di sé che consente di fare scelte mirate.

Bisogna anche tener conto del fatto che ancora oggi in molte famiglie italiane c'è una generazione di persone che hanno studiato, ma non c'è alle spalle una dimestichezza con le dinamiche di scelte che si fanno in un sistema di formazione. Anche questo può portare ad aspettative ingenue e poi deluse, a una non perfetta capacità di valutare la dimensione di una scelta.

Quanto alle università invece, il difficile inserimento dei laureati nel mondo lavorativo ha a che fare con la tradizione "non pratica" dell'università italiana?
Non lo escludo. Ma credo che sarebbe scorretto trarre delle conclusioni sull'università italiana in generale. All'università si studiano cose molto diverse. Possiamo studiare per fare cose determinate, o scegliere facoltà che non ci danno uno sbocco professionale determinato.

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Bisognerebbe cercare di capire il tipo di rapporto che i diversi percorsi formativi hanno con gli sbocchi lavorativi. Quello che è mancato in tutti questi anni e per cui si crede che il sistema universitario sia tutto marcio—e quindi si pensa di doverlo cambiare, implementando riforme che vengono messe in discussione dopo uno o due anni—è proprio questo: bisognerebbe ragionare in maniera complessiva sul sistema universitario, riconoscere che le università fanno cose molto diverse tra loro. Non esiste l'università: esistono le università.

Quali sono le principali differenze tra il sistema universitario tedesco (dove secondo gli stessi dati Eurostat la percentuale di occupati a tre anni dalla laurea è del 90 percento) e quello italiano?
La Germania ha un sistema diverso dal nostro perché mette a disposizione delle persone che studiano anche percorsi marcatamente professionalizzati, con la struttura di scuole tecniche e un migliore rapporto con il mondo del lavoro. Un sistema nel quale il mondo della formazione—scuola e università—è collegato più al mondo del lavoro è un sistema che dà opportunità migliori, e in questo senso quello tedesco è un modello che dobbiamo guardare con interesse.

Ma questo non vuol dire che dobbiamo prenderlo a dogma, e soprattutto non vuol dire che dobbiamo riconvertire l'intero sistema universitario italiano trasformandolo in una scuola professionale di massa; sarebbe molto poco lungimirante, negherebbe altre funzioni dell'università. L'università non serve solo a preparare le persone al mondo del lavoro, è anche il luogo della conoscenza, della ricerca curiosity driven. L'università influisce sul funzionamento della democrazia, e sarebbe stupido rinunciare alla sua natura, soprattutto in questo momento.

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Crede che il decreto Buona Scuola, che introduce ore di lavoro obbligatorie per gli studenti delle scuole superiori, potrebbe aiutare gli studenti nell'inserimento nel mondo del lavoro?
Non credo sia la soluzione. Per uno studente che frequenta il liceo classico, ad esempio, può essere un'esperienza formativa… ma non mi sembra cruciale. Credo risponda a un modello dalla logica ingenua, molto diffusa negli ultimi anni: l'idea dei ragazzi choosy, che tutto dipenda da una specie di infantilismo dai nostri ragazzi che andrebbero messi un po' in contatto con la vita reale. Io sono convinto che i ragazzi che frequentano le nostre scuole siano in contatto con realtà molto dure e non abbiano certo bisogno di ministri luminari.


C'è chi si dedica ad ambiti di ricerca alternativi, come il vero Walter White:


Dietro le rappresentazioni un po' caricaturali dei ragazzi italiani choosy c'è forse un fenomeno molto più complesso, la difficoltà di adattarsi a un mondo che cambia molto più velocemente da parte di tessuti famigliari che hanno alle spalle un mondo molto più statico. Una persona di 18 o 20 anni che si confronta con un contesto famigliare che ha una visione tradizionale può fare delle valutazioni in parte non adeguate. Ma le diagnosi di un problema d'istruzione come il nostro vanno fatte con attenzione.

Quali sono i principali difetti della struttura dell'università italiana?
Non ci sono regole chiare. Dalla riforma Gelmini in poi abbiamo visto una valanga di interventi normativi sull'università—riforme, riformine—che si sono susseguite in maniera caotica e sulla base magari di dati non sempre affidabili. Tutto questo ha creato profonda incertezza. Nessuna impresa privata potrebbe lavorare bene così, ed è bizzarro pensare che lo possa fare un'istituzione pubblica. Se non ho certezza delle regole e non sono in condizione di programmare nel medio termine, non posso fare degli investimenti intelligenti.

Gli altri due grandi temi sono il finanziamento e la demotivazione. Non possiamo lasciare sullo sfondo il fatto che le risorse che vengono destinate all'università e alle ricerche continuano a diminuire. E questo non può che avere un impatto sul tipo di formazione che l'università fornisce. Per quanto riguarda la demotivazione, nessun paese ha una retorica negativa sulla propria università quanto il nostro, e questo porta sconforto e malcontento.

Nonostante questo, l'università italiana ha output di ricerca abbastanza buoni, paragonabili con paesi dello stesso livello in Europa. Questo di nuovo ci dovrebbe far capire che il mondo universitario italiano non è così catastrofico come lo si disegna. È una realtà complessa in cui ci sono punti di eccellenza e realtà che funzionano meno bene, ma non stiamo certo parlando di qualcosa da buttare via in toto per sostituirlo.

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