Foto di Ester Tognelli.
Sono le due di notte, è sabato sera e mi trovo di fronte all'entrata di un vecchio locale––ormai chiuso da anni––in cui un tempo tampinavo inutilmente compagne di scuola che ballavano pezzi dance da compilation dell'autogrill.
La strada in cui mi trovo è deserta, e sto in piedi a fissare l'insegna scrostata su cui è a malapena leggibile la scritta "Panda". Ho appena tentato di contrattare del fumo con tizi che mi sembrava avessero la faccia da spaccini, e con una mano mi accarezzo la testa valutando i danni di un taglio di capelli che mi sono fatto fare da sbronzo mentre nell'altra mano stringo un cellulare a conchiglia.
Il motivo per cui mi trovo in questa strana situazione a 27 anni—quando in realtà come chiunque sopra i 25 anni sa dovrei cercare di godermi il fine settimana perché il lunedì si lavora—è la nostalgia. La nostalgia per la propria adolescenza è un sentimento comune a molti: la libertà di poter gestire il proprio tempo a piacimento; l'assenza di responsabilità; la velata supponenza di chi sa che in potenza la propria vita può ancora prendere la piega che ci si aspetta debba prendere. Insomma, tralasciando scompensi emotivi e nevrosi, l'adolescenza è decisamente uno stadio comodo della vita. E in un certo senso, per la nostra generazione, venirne fuori è ancora più complicato.
Per cercare di capire quanto la mia nostalgia fosse fondata, quindi, ho deciso di tornare indietro nel tempo di dieci anni, fino al 2005, per un fine settimana. In modo da testare quanto mi calzassero ancora i panni del 17enne.
Questo, oltre a implicare la possibilità di stronzeggiare come ai tempi in cui mi era socialmente consentito farlo, comportava la necessità di fare a meno di tutto quello che gli ultimi dieci anni hanno aggiunto alla mia vita: smartphone, Facebook, patente e locali appositamente pensati per chi ha smesso di frequentare il liceo molti anni prima. Sarei potuto uscire esclusivamente con persone che avevo conosciuto prima del 2005, con gli oggetti che avrei potuto possedere nel 2005, negli stessi posti che frequentavo allora.
La prima cosa che ho fatto, quindi, è stata contattare tutti gli amici con cui sono cresciuto—quasi trentenni che stanno portando a termine praticantati in studi legali, gestiscono attività familiari o sono responsabili di progetto per uffici tecnici—tentando di convincerli che rivivere la nostra adolescenza sarebbe stato un modo interessante di passare il sabato pomeriggio.
Quindi sabato mi sono alzato, e ho fatto finta che fosse il 2005.
In questo stesso periodo del 2005 sarei stato particolarmente in ansia per il fatto che la scuola stava per ricominciare, che avevo un paio di debiti formativi da recuperare, e che non avevo combinato nulla per tutta l'estate, facendomi vedere ogni tanto dai miei genitori mentre annotavo cazzi a margine di una copia didattica de La Ragazza di Bube.
Nonostante l'ansia, però, avrei passato ugualmente l'ultimo sabato mattina prima dell'inizio della scuola a cazzeggiare per casa. Così mi sono lanciato alla ricerca di vecchi cellulari in disuso che rimpiazzassero il mio smartphone. Dopo aver rovistato per un'ora ho messo insieme quattro residuati di un'epoca in cui "fare uno squillo" a qualcuno era ancora considerata una forma di comunicazione.
Ho deciso di optare per un modello a conchiglia, anche perché era l'unico di cui avevo ancora il caricatore. Non prendendo in mano un telefono così arretrato da anni, non mi ero mai soffermato a pensare a quanto un tempo ci portassimo dietro oggetti che non erano in grado di fare un cazzo. Le uniche forme di diletto che il mio cellulare poteva offrire erano orribili foto spixellate e una striminzita lista di giochi ridicoli, fra cui purtroppo non c'era Snake. In compenso, nella vecchia scheda sim che utilizzavo erano ancora salvati molti messaggi ridicoli e imbarazzanti: e quindi ho potuto assaporare il primo, vero, impatto diretto con il me stesso 17enne—la vergogna.
Senso del ridicolo a parte, c'era un altra sfumatura della mia adolescenza con cui volevo rientrare in contatto il prima possibile: la FoMO. Ormai ho già oltrepassato da tempo quel sipario esistenziale in cui ogni esperienza va attentamente valutata fra attrattiva e fatica, ma all'epoca ogni singolo evento a cui non prendevo parte, anche il più insignificante, mi sembrava un'amara occasione persa.
Quindi ho cercato di farmi prendere dall'entusiasmo, e alle tre mi sono presentato al vecchio circolino in cui ho passato praticamente tutte le superiori.
Per cominciare, ho costretto tutti i miei amici a sorbirsi un'ora e mezzo di asta del fantacalcio, resa sopportabile esclusivamente da birre e bianchini. All'epoca passavo settimane ad analizzare le statistiche di tutti i giocatori della serie A per prepararmi all'asta, investendo poi milioni fittizi nel talento calcistico di qualche pseudopromessa della Reggina che avrebbe passato i nove mesi successivi baloccandosi fra pubalgia e serate nelle discoteche dell'hinterland.
Fortunatamente i cabinati del baretto in cui sono cresciuto sono ancora quelli del '15 -'18, e finito il fantacalcio abbiamo ammazzato un'altra ora giocando a biliardino e a videogiochi in cui i personaggi avevano la testa composta da un unico pixel.
Nonostante dopo due ore cominciassimo a essere tutti discretamente sbronzi, la noia è presto sopraggiunta, e i miei amici hanno cominciato a chiacchierare svogliatamente di argomenti che riguardavano il presente.
Credo sia stato uno dei momenti in cui sono stato più in contatto con il mio io 17enne. L'ansia che gli altri si divertissero, e il senso di inadeguatezza che provavo, non avevano niente a che fare con il me stesso del 2015. Per aggrapparmi disperatamente al passato ho immolato me stesso e ho proposto di andare dal parrucchiere del mio paese perché avevo bisogno di un taglio.
Potrà sembrare un'attività abbastanza banale, ma in realtà era una specie di rito del seppuku: Palumbo, il parrucchiere da cui mi facevo tagliare i capelli a 17 anni, è noto per mangiare panini e intraprendere partite di dama mentre lavora. Il che non giova esattamente al risultato finale. La maggior parte dei clienti che si servono da Palumbo non ha capelli.
Ne sono uscito mezz'ora dopo con un taglio da cadetto della Wehrmacht in congedo. E ho potuto testare un'altra esperienza emotiva che avevo perso ormai da tempo: la preoccupazione per il mio aspetto.
A questo punto erano quasi le sette di sera, e ho proposto di cominciare a pensare a cosa avremmo potuto fare. In realtà la faretra di opzioni per i nostri sabato sera dell'epoca non era esattamente colma: solitamente continuavamo a decomporci nei vari pub e parchi aggregativi. Raramente, le nostre ragazze ci trascinavano in terrificanti e minuscoli locali in cui i dj erano sempre tabbozzi con i capelli piastrati e nomi improbabili. E se all'epoca la trovavo un'esperienza appetibile, oggi la prospettiva di passare più di cinque minuti seduto a gambe incrociate su un'aiuola accanto a un tizio che suona un bongo mi fa venire voglia di iniettarmi dell'acido muriatico nella carotide.
I miei amici devono aver pensato lo stesso, perché mi hanno guardato con un misto di stupore e imbarazzo: andava bene sprecare un pomeriggio facendo le stesse stronzate che facevamo dieci anni fa, ma di buttare via anche un sabato sera non se ne parlava. Soprattutto perché tutti avevano delle fidanzate reali, nel mondo reale, con cui sarebbe stato sicuramente più piacevole passare la serata. Quindi mi hanno salutato, e se ne sono andati.
Sono rimasto tristemente bloccato nel 2005 da solo, con la prospettiva di potermi muovere esclusivamente fra i luoghi dell'anima della mia adolescenza. Ma questo non era il mio unico problema: nel 2005 non avevo ancora la patente, così sono tornato a casa e ho tirato fuori dal garage il mio vecchio scooter, cercando inutilmente di metterlo in moto.
Fallito questo tentativo mi sono visto obbligato a prendere l'autobus, e dopo cena sono andato tristemente alla fermata ad aspettare il primo mezzo che mi avrebbe portato nel centro della mia provincia. In cui non passavo un sabato sera da anni. Per tutto il tragitto, sono stato l'unico passeggero.
Mi sono aggirato per le strade del centro senza meta, perlopiù cercando di individuare persone di mia conoscenza con cui potermi fermare a parlare, ma in giro c'erano solo famiglie e gruppi di ragazzi che 17 anni li avevano compiuti nel 2012.
Ho passato in rassegna i pub in cui andavo sempre, tutti ancora aperti ma gestiti da proprietari diversi. Tutti praticamente vuoti. Mi sono seduto a un tavolo in cui passavo ore, ho ordinato un Torello—una specie di B52 più ignorante, che era praticamente l'unica cosa che bevevo nel 2005 a parte la birra— e mi sono fatto salire un po' di tristezza pensando a quando imbastivo dei duelli di ego (composti da conversazioni pretenziose su musica e letteratura) con il barista per sventare il suo irrefrenabile bisogno di provarci con la mia ragazza. Barista che adesso lavora alle Poste, e ha una prole.
Un paio di volte mi sono imbattuto in qualche vecchia conoscenza del liceo: il genere di tizi di cui ti ricordi solo vagamente come facce che hai registrato con la vista periferica nei corridoi durante la ricreazione, e che normalmente non saluteresti per strada. Non avendo alternative, però, ho tentato di avere qualche interazione con loro. Mi hanno liquidato dopo pochi minuti, imbarazzati e a disagio per il fatto che un tizio di cui non sapevano niente nemmeno ai tempi della scuola li avesse abbordati senza motivo nel tentativo disperato di accollarsi.
Ho addirittura cercato di mischiarmi agli sconosciuti assiepati fuori dai pub e dai locali, ma senza successo. In particolare, cominciavo a sentire il peso di non poter sfruttare la tecnologia per alienarmi dalla mia alienazione.
A questo punto ho sperimentato di nuovo un senso di nostalgia profondo, e così ho deciso di andare verso il parterre, dove un tempo svernavo nottate intere. Era una specie di Atene delle zecche, in cui solo per osmosi si potevano apprendere tutti i fondamenti della vita da punkabbestia.
Quando sono arrivato, però, l'ho trovato completamente vuoto.
Per cercare di commemorarlo ho iniziato a girovagare senza meta lungo il perimetro del parco nel tentativo di individuare qualche potenziale spaccino. Essendo ormai passati diversi anni dai tempi in cui compravo abitualmente del fumo, ho solamente importunato estranei sprovvisti di sostanze psicotrope che mi hanno allontanato malamente.
Nello sconforto mi sono spinto fuori, camminando per le strade vuote, fino a che non sono arrivato di fronte all'unica discoteca in cui era possibile andare nel 2005. Il Panda.
Sono rimasto a fissare l'entrata per un po', fino a che non ho capito che era il momento di andarmene. Era circa l'una di notte, e ho telefonato a mia madre per convincerla a venirmi a prendere. È stato il picco della mia serata.
Capita a molti, durante l'adolescenza, di lamentarsi per la noia e per il fatto di non aver mai niente di interessante da fare: ma solo rivivendo uno dei miei sabato sera abituali mi sono reso conto di quanto non avessi mai un cazzo da fare. All'epoca, in realtà, avevo molta più sopportazione per la noia. Sopportazione che mi sarebbe servita per superare la domenica.
Solitamente passavo la domenica a riprendermi dalla stonfa della sera precedente, a non fare i compiti che avrei dovuto fare, e a vegetare fra divano e letto. Così ho dormito fino alle due di pomeriggio, e poi ho tentato di emulare il mio pattern di intrattenimento domestico degli anni Zero. Se dovessi trascorrere un'intera giornata in casa, probabilmente oggi spenderei l'80 percento del tempo su internet. Ma quando ero un adolescente preferivo di gran lunga fare altre cose, principalmente perché i primi Duemila erano anni in cui i blog egoriferiti di Splinder e i forum monomaniacali oltranzisti spadroneggiavano ancora. Una delle poche che mi dava soddisfazione era trollare gli sconosciuti sulla chat di Lycos, che a quanto pare esiste, intonsa, ancora oggi. Ci ho passato una mezz'ora scarsa, tentando di farmi bannare come un tempo dai moderatori, ma i pochi utenti erano quasi tutti sopra gli anta, e dopo poco mi sono annoiato.
In compenso ho rispolverato tutta quella parte di libreria che per anni ha nutrito i miei vagiti egotici. Praticamente l'intera bibliografia di Bukowski, che all'epoca reputavo un genio.
Mi sono bastati dieci minuti per rendermi conto di quanto tutto quello in cui credevo a 17 anni mi sembri oggi una gigantesca stronzata.
A un tratto, però, ho avuto un'illuminazione: nel 2005, più del baretto, più degli amici con cui devastarsi, più delle pessime letture per stronzi che vogliono sentirsi migliori degli altri, la cosa che mi interessava di più era la mia ragazza. Così ho passato il resto del pomeriggio cercando le vestigia di quell'amore passato, e in fondo a uno scatolone ho anche rinvenuto un discreto cuscino che immortalava su stoffa un nostro limone duro. Segno indelebile di un'epoca umana in cui il minimalismo e la delicatezza dei sentimenti erano qualità decisamente importanti.
Ho quindi pensato che, nonostante non ci sentissimo da diverso tempo, avrebbe potuto essere una buona idea chiederle di uscire a bere qualcosa insieme. Avrei potuto realmente entrare in contatto con la mia sfera emotiva 17enne: quella specie di bolo di smania sentimentale e residui biologici sul mobilio che fa parte di ogni relazione postpuberale.
Ho passato diverso tempo cercando di scrivere sul mio cellulare mesozoico un messaggio che fosse abbastanza sensato e persuasivo da convincere una persona con cui non avevo rapporti da ormai un decennio a uscire con me. La risposta mi è arrivata poco dopo, e ha probabilmente tagliato le connessioni al midollo osseo della mia nostalgia per l'adolescenza per sempre.
"Ciao Niccolò. Come stai? Mi farebbe davvero piacere fare due chiacchiere dopo tutto questo tempo, ma ultimamente sono un po' impegnata. Mi sono sposata sai… Comunque spero tu stia bene. Un abbraccio."
Dopo averlo letto sono rimasto a fissare il soffitto sdraiato sul letto per diverso tempo, aspettando che il sole sorgesse sul 2015.
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