Un bambino mi guarda con gli occhi spalancati. Avrà non più di dieci anni. Fuma una sigaretta e mi fissa deciso, come qualcuno gli ha probabilmente insegnato a fare per sentirsi quello più forte. Il suo volto è stampato sulla copertina di un libro: quella di Certi bambini di Diego De Silva, edizione 2001. Diciassette anni fa.
Chi come me è cresciuto nella periferia Nord di Napoli, a pochi chilometri da Scampia e Chiaiano, sa bene che le cosiddette “baby gang” non sono nate l’altro ieri. De Silva non è l’unico a parlarne nel suo libro: basta aprire i giornali dello stesso periodo, all’inizio anni Duemila, quando al Comune c’era Rosa Russo Iervolino. All’epoca, non esistendo una Gomorra su cui far ricadere l’emulazione di modelli negativi, il sindaco di Napoli se la prendeva con gli spot dei coltelli in televisione. Proprio così: “Ho già scritto alla Rai, alla Sipra e all’Authority per protestare contro quegli spot trasmessi dal servizio pubblico a cuor leggero. All’ora di cena delle famiglie vengono trasmessi spot che pubblicizzano una bella collezione di coltelli che si può andare a comprare nelle edicole per pochi Euro.” E ancora: “La Rai non riflette prima di incassare quei soldi, con i ragazzi che muoiono uccisi a colpi di lama, e con la moda dei giovani che escono ormai armati di quegli arnesi.”
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Per parlare delle “baby gang” di Napoli come si sta facendo in questi giorni bisogna, quindi, prendere atto di un’evidenza: non sono un fenomeno recente, così come non è nuovo il dibattito sulle “misure speciali,” l’invio dell’esercito e le scuole aperte anche di pomeriggio.
L’elemento che potremmo definire “in crescita” è piuttosto quello delle aggressioni apparentemente immotivate. Basta ricordare la vicenda di Arturo, un 17enne accoltellato alla gola in via Foria da un gruppo di ragazzi che, come ricostruito dalle indagini, non erano intenzionati a rapinarlo. Colpito 12 volte, in 12 punti diversi del corpo, per il semplice gusto di aggredire.
Così come successo, pochi giorni dopo, ad altri ragazzi minorenni nel quartiere Chiaiano e alla vicina fermata Policlinico della metropolitana. In entrambi i casi niente coltelli, ma “solo” un pestaggio che, a Chiaiano, si è concluso con lo spappolamento della milza alla vittima. Una dinamica che il ministro dell’Interno Marco Minniti, a Napoli per il comitato provinciale su ordine e sicurezza pubblica, ha definito “terroristica: si muovono a caso e sono imprevedibili.”
E proprio l’imprevedibilità rende difficile inquadrare questi gruppi in modelli unici d’azione. Non esiste un quartiere, un rione, una zona specifica di riferimento. Ai gruppi della periferia Nord (Chiaiano, Scampia, Secondigliano, San Pietro a Patierno) si aggiungono quelli dei quartieri vicini alla zona Vesuviana (Ponticelli, Barra, San Giovanni a Teduccio), l’area occidentale di Bagnoli, le zone più centrali come Poggioreale, Forcella, Vicaria, Pendino, San Lorenzo e Rione Sanità, fino a risalire lungo i Quartieri Spagnoli e i vicoletti di Santa Lucia.
“Non esiste un disegno criminale strutturato,” mi ha detto Marco Di Caterino, giornalista del Mattino, “spesso le loro azioni si risolvono in un mordi e fuggi necessario ai bisogni del giorno dopo: una felpa o delle scarpe nuove, lo smartphone d’ultima generazione, una serata in discoteca.”
Di Caterino pone una distinzione importante: quella tra criminalità organizzata e “baby gang.” Sui giornali si tende spesso a semplificare e confondere i due fenomeni. La storia di uno di questi gruppi racconta una realtà più sfumata e meno inquadrabile: sette ragazzi, quattro diciottenni e tre minorenni, vengono arrestati a San Pietro a Patierno, accusati di 17 rapine ai danni di 32 persone. Nessuno di loro, secondo la procura di Nola, appartiene a famiglie direttamente legate alla criminalità organizzata. Parliamo di ragazzi nati e cresciuti in quartieri dormitorio, senza servizi, senza trasporto pubblico, senza alcun posto di svago che non sia un “circolo” dall’insegna montata storta e stinta dal tempo; all’interno due biliardi, un tavolo sbrecciato e delle sedie accatastate in un angolo.
Parole molto simili a quelle della procura di Nola sono state utilizzate dal capo della squadra mobile di Napoli, Luigi Rinella, sul primo ragazzino indagato per il ferimento di Arturo: “Il 15enne non appartiene a un contesto di clan e i suoi genitori sono incensurati.” La realtà è più sfuggente di qualunque sforzo di semplificazione.
Per capirci di più ho contattato Daniela Longo, una professoressa che ha sempre insegnato nelle scuole della periferia Nord di Napoli, quelle considerate più “a rischio.” Di bambini così Daniela ne ha conosciuti molti: “La causa di questi comportamenti non è mai una sola, anche se una base comune esiste: l’assenza di genitori. Chi lo dice che comportamenti simili derivino solo da famiglie d’estrazione malavitosa? Basta un continuo utilizzo della violenza in famiglia, come un padre che si sfoga su moglie e figli mettendo loro le mani addosso quasi tutti i giorni, o un intero sistema familiare che si regge sul prestare soldi con l’interesse, vale a dire con tassi usurai, oppure ancora, gente il cui unico introito sono le rapine o la prostituzione. Di situazioni simili ne ho conosciute molte e quasi sempre corrispondevano a un ‘riflesso condizionato’ da parte del bambino, che cercava la sua identità fuori dalla famiglia facendo ricorso alla violenza.”
Aggredire un coetaneo fin quasi a ucciderlo diventa simbolo di supremazia, mentre la rapina è quasi un effetto collaterale. Il gesto che conta è quello eclatante che viene prima: un pugno tirato in piena faccia, una coltellata, un calcio all’addome mentre sei a terra. La volontà di emergere e di essere rispettati passa non solo per le scarpe di marca, ma anche per la capacità di mostrare la spavalderia che ho ritrovato in quello sguardo sulla copertina del libro di De Silva.
Il discorso sulle scuole aperte anche di pomeriggio, secondo Longo, non basta “se prima non si provvede a un percorso didattico anche per i genitori. Indottrinare un bambino non serve a nulla se non agisci anche sul suo senso critico, sul metro di valutazione che possiede per giudicare cosa per lui sia bene o male. Ai ragazzini che oggi sono capaci di ammazzarti per divertimento o per uno sguardo non gradito manca proprio questo: la capacità di giudizio. E qui vorrei specificare anche un’altra cosa: Gomorra c’entra davvero poco. Il senso critico serve anche a distinguere la finzione dalla realtà. Una famiglia e una scuola che siano in grado di stimolarlo fanno la differenza nella vita di una persona. Non i personaggi di Gomorra.”
Sempre in riferimento alle scuole, il dato generale è abbastanza chiaro: il piano di contrasto all’evasione scolastica presentato dal Ministero dell’Istruzione indica il 13,8 percento di bambini che abbandonano gli studi già al livello di scuola primaria su scala nazionale. In Campania il dato è al 18,1 percento—il secondo più alto in Italia dopo la Sardegna. Entrando ancora più nello specifico, nel corso dell’ultimo anno sono arrivate 335 segnalazioni di dispersione scolastica in tutta la regione, 127 delle quali nei soli quartieri dell’area Nord di Piscinola, Chiaiano e Scampia.
Per quanto concerne la scuola secondaria di primo grado, la maggior quota di segnalazioni (134) è arrivata dai quartieri di Secondigliano e San Pietro a Patierno. Qualunque correlazione causa-effetto sarebbe del tutto arbitraria, ma è evidente quella tra la dispersione scolastica e gli ultimi episodi di cronaca riguardo le “baby gang” e i quartieri in cui avvengono le aggressioni.
Un’altra possibile soluzione discussa anche di recente è quella di chi propone di togliere i bambini alle famiglie camorriste, già da neonati. Il Consiglio Superiore della Magistratura, nell’ottobre scorso, ha approvato una delibera inviata a Camera e Senato dove si dichiarava la necessità di “far decadere la potestà genitoriale alle famiglie che coinvolgono i propri figli nelle attività del clan.” Erano i giorni in cui a Napoli si parlava del quartiere Santa Lucia e di come alcuni bambini, tra i 9 e i 13 anni, venissero utilizzati come corrieri dalle loro stesse mamme per consegnare stupefacenti ai clienti in zona.
“Come educatrice non sono mai stata molto tenera su questo punto. Sono convinta che togliere i bambini da questi contesti, già da piccolissimi, possa essere una soluzione,” spiega Longo. “È questo ciò che intendo quando parlo di ‘percorsi di genitorialità’. Ci tieni a tuo figlio? Gli vuoi davvero bene? Allora dimostra che sei pronto a fare il genitore, a non abbandonarlo per strada a qualsiasi ora del giorno e della notte. Il famoso ‘esercito di maestri’ non serve proprio a niente se il bambino, la sera, torna a casa e vive immerso ancora una volta in quel mondo lì. E ti ripeto: questo non vale solo per le famiglie camorriste. Vale per tutti quelli che crescono una persona nella più totale indifferenza.”
Una testimonianza simile viene anche dall’interno. Luigi Giuliano oggi ha 45 anni e fa il facchino al Nord Italia. È figlio di Nunzio Giuliano, storico capoclan di Forcella poi pentitosi, ai tempi in cui nei quartieri del centro storico il business più grande era il contrabbando di sigarette. “Fino a quando si continuerà a spacciare droga tra i vicoli, nessuno mai si salverà,” ha dichiarato Luigi al Corriere del Mezzogiorno nel maggio 2017. “A Forcella spacciano padri e madri. Trasmettono questi valori ai loro figli, che non possono far altro che crescere delinquenti, nell’odio e nella paura. Quando ci sono questi presupposti bisogna togliere i figli alle famiglie. Solo così possono salvarsi. I figli dei camorristi quasi sempre diventano camorristi.”
“Quando entri nel mondo della violenza fin da piccolo, anche la faccia ti cambia. Non riesci a sorridere, stai sempre arrabbiato,” conclude Luigi Giuliano nella stessa intervista. È quella stessa rabbia che vedo nelle foto di bambini con una pistola o un coltello in mano; nei profili Facebook che parlano di “fratellanza” e “rispetto”; quella rabbia che a tutti noi della periferia Nord di Napoli, bene o male, è capitato di intercettare anche solo per un momento per strada come a scuola.
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