“Il nostro scontrino medio è circa 15 euro a cena, 11 a pranzo. Le trattorie sono diventati i nuovi ristoranti e le pizzerie possono diventare le nuove trattorie”
Ve le ricordate le pizzerie già solo nel 2010? Si assomigliavano più o meno tutte. I menu avevano dieci pagine di pizze (comprese quelle dolci come Nutella o Crema e fragola). Si poteva bere solo birra. Di fianco al bancone c’era la fila di persone che aspettavano il proprio cartone bianco da asporto.
Videos by VICE
Non sto dicendo che questo tipo di pizzeria non esista più, o che ci sia qualcosa di intrinsecamente sbagliato in questo tipo di pizzeria. Sto dicendo che nell’ultima decade è nato un nuovo concept di pizzeria: alcuni la definiscono gourmet, altri fighetta, noi ne siamo onestamente appassionati. E questo è accaduto anche perché nel 2010 in un centro commerciale di Castel Maggiore, a pochi passi da Bologna, ha aperto una pizzeria chiamata Berberè.
Io ero una studentessa di Lettere con la passione per il cibo (foodie, mi pareva mi definissi, vergogna), e almeno una volta al mese attraversavo tutta la città per pranzare lì. Non proponevano la Coca Cola. In menu c’erano una decina scarsa di pizze. Potevi scegliere l’impasto. Bevevi birre artigianali e vini naturali. Tutte le cose che ora diamo (quasi) per scontate in una pizzeria con un certo tipo di ambizioni – ma che allora non lo erano affatto. Dieci anni dopo, Berberè ha dodici pizzerie in Italia (l’ultima è quella aperta a Milano con Mikkeller, celeberrimo birrificio artigianale danese) e 3 a Londra.
I primi tre mesi sono stati da lacrime e sangue. I clienti entravano, guardavano il menu, uscivano. La sera le nostre fidanzate e i nostri amici facevano da comparse ai tavoli per far vedere a chi passavi fuori che dentro c’era gente.
Sono stati tra i primi della nuova generazione – non tocchiamo quindi mostri sacri come Padoan e i suoi I Tigli in provincia di Verona – promotori in Italia di un’idea “diversa” di pizza – un prodotto di qualità, in cui investire in materia prima – e di pizzeria – un ristorante a tutti gli effetti, con un buon servizio e una buona carta dei vini – che ora si è diffusa e in molti casi, ahinoi, è diventata di moda. Matteo e Salvatore Aloe, i due fratelli calabresi fondatori e tuttora alla guida del marchio Berberè, sono riusciti a creare una catena autenticamente artigianale in cui l’espansione orizzontale non ha mai compromesso gli standard qualitativi. Le mie due pizze preferite – Zucca al forno con taleggio e funghi, Barbabietola in crema con porri olive e feta – sono buone in qualunque Berberè le mangi, che sia Torino, Bologna, Milano. E se ci porto qualcuno che non c’è mai stato (“Impossibile!”) so già che si innamorerà della Speck&Gorgonzola con miele e noci o della Salsiccia e Parmigiano. E la Margherita, mai una volta che mi abbia deluso.
MUNCHIES: Come avete fatto a mettere in piedi tutto questo?
Matteo: L’unica risposta possibile è “Non ne abbiamo idea”.
Salvatore: Tu hai suggerimenti?
Matteo: Ci vorranno ore per parlarne. Quanto tempo hai?
Salvatore: Se riesci a capirlo e lo scrivi è utile anche a noi.
Ok, partiamo dal 2010!
Salvatore: Io sono laureato in Economia Politica. Matteo in Economia e Marketing – ma già con il sogno di aprire un ristorante. Ci rendiamo conto che le pizzerie sono tendenzialmente livellate verso il basso. La pizza napoletana è più uno stereotipo che una cultura, il dipinto di Pulcinella che sforna la pizza sulle pareti, e il prodotto finale è… banale. I fornitori delle pizzerie vendono tutto già fatto – carta igienica compresa. L’idea di partenza è ridare dignità al prodotto usando materie prime di qualità.
Matteo: La nostra fortuna è stata partire da zero e non essere pizzaioli da generazioni. Ci ponevamo domande senza dare per scontate le risposte. Come rendere digeribile la pizza? Lievito madre. Quale impastatrice usare? Quale cella di lievitazione scegliere? Ci abbiamo messo sei mesi per decidere che tipo di pizza fare. Come riferimenti Italia c’erano solo Gabriele Bonci a Roma, Simone Padoan a Verona, Enzo Coccia a Napoli. Noi sceglievamo di far quello che ci piaceva sena preconcetti – è venuto tutto in maniera spontanea.
Salvatore: Abbiamo aperto soffiati dal vento dell’incoscienza. Fuori città e non in centro perché, beh… non avevamo una lira.
Ma non è stato un successo immediato, giusto?
Salvatore: I primi tre mesi sono stati da lacrime e sangue. I clienti entravano, guardavano il menu, uscivano. La sera le nostre fidanzate e i nostri amici facevano da comparse ai tavoli per far vedere a chi passavi fuori che dentro c’era gente.
Matteo: Hai mai fatto surf?
No.
Matteo: Nemmeno noi. Però, so che se prendi bene l’onda giusta ti diverti se no cadi subito. Ci hanno fatto una recensione ottima e da lì è partito tutto.
Salvatore: L’elemento fortuna viene sottovalutato. Altri due mesi così e avremmo chiuso. Un altro incontro fortuito? Lucio Cavazzoni di Alce Nero. È venuto spinto dalle figlie che gli parlavano di una pizzeria “strana” e nel 2013 ci ha proposto di prendere in gestione il suo locale in centro a Bologna.
Come decidete quando aprire una pizzeria nuova, e dove aprirla?
Salvatore: Non puoi mai stare fermo perché il mercato non sta mai fermo, e allo stesso tempo non puoi inseguire i clienti e il mercato per non distruggere l’identità. Le casualità vanno coltivate: è arrivata l’opportunità di aprire a Firenze, il terzo locale de nostro “zoccolo duro”, abbastanza vicino da andarci in giornata; è arrivata l’opportunità di gestire una pizzeria EXPO 2015. Alce Nero ha rilevato le quote sociali di nostra zia – sì, nostra zia aveva deciso di investire nella società dai suoi inizi – e questa presenza ha dato fiducia alle banche che prima ci ridevano in faccia quando chiedevamo un mutuo.
Matteo: Siamo in affitto dappertutto ma apriamo mutui per finanziare l’attività in partenza. Devi lavorare da subito o quel “polmone” si esaurisce in fretta.
Salvatore: La passione viene inevitabilmente messa in secondo piano rispetto alla professionalità e alla dedizione. Noi comunque ci siamo sempre mossi a passetti piccoli. Abbiamo scelto di non aprire in franchising, e questo va a scapito della velocità di sviluppo, che comunque non è il nostro obbiettivo.
“Assumiamo mystery guests tramite un’agenzia specializzata. Ogni pizzeria viene visitata due volte al mese, a pranzo e a cena. Misurano la temperatura della stanza, controllano se c’è la carta igienica in bagno, valutano l’audio”
Come fate a lavorare su tanti fronti e città?
Salvatore: L’ansia si stabilisce dentro di te.
Matteo: Vedi quanto caffè bevo? Esiste un livello intermedio, un capo-produzione che fa le nostre veci, a cui a sua volta risponde il responsabile di ogni locale. Noi siamo un 2% di Berberè. Però su Whatsapp ho una chat per ogni pizzeria in cui ogni giorno mi arrivano foto. E poi ci sono i mystery guests assunti tramite un’agenzia specializzata – nemmeno noi sappiamo che faccia hanno. Ogni pizzeria viene visitata due volte al mese, a pranzo e a cena. Misurano la temperatura della stanza, controllano se c’è la carta igienica in bagno, valutano l’audio.
Quando hai tanti locali devi fidarti delle persone. C’è un software di gestione aziendale che misura ogni cosa, quanta farina viene utilizzata, quante persone entrano, quanto pomodoro si mette sulla pizza… Noi non abbiamo il fucile puntato e ci fidiamo dei responsabili di negozio, e a loro volta i responsabili sanno che tutto è controllato. Il controllo dei numeri ti permette di controllare la qualità. Non è solo una questione di costi: è che se noi abbiamo deciso di mettere 100 grammi di gorgonzola su una pizza, metterne di meno o di più la rende più o meno buona. Ma quella è anche la parte divertente del lavoro.
Di recente ci hanno chiesto se è divertente lavorare da noi. No, non lo è-
Salvatore: Su 10 pizzaioli, 9 si lamentano del personale. Lo so che se non ci sono io è estremamente improbabile che le cose vadano come voglio, però devo impegnarmi a creare le condizioni e gli strumenti tecnico-culturali per renderlo possibile.
Matteo: Di recente ci hanno chiesto se è divertente lavorare da noi. No, non lo è. Noi lavoriamo con serietà e dedizione, ma senza voler essere forzatamente divertenti. Cerchiamo di strutturare l’azienda per formare: la nostra cultura è alzare sempre la qualità del prodotto pizza e del servizio finale pizzeria. A volte è difficile. Se andiamo a pranzo in una pizzeria e qualcosa non ci piace non possiamo dirlo ai ragazzi scavalcando il responsabile: bisogna rispettare i ruoli e i flussi di comunicazione e informazione.
Abbiamo parlato dei successi, parliamo degli insuccessi. Avrete fatto degli errori anche voi.
Salvatore: Un sacco! A un certo punto a Castel Maggiore abbiamo deciso che a pranzo non avremmo più proposto la pizza ma solo piatti “cucinati”. La gente arrivava e ci diceva “Ma siete scemi? Ho guidato un’ora per mangiare la vostra pizza!”. E poi errori di posizionamento: abbiamo proposto una pizza al culatello che costava diciotto euro. DICIOTTO. La soglia psicologica delle pizzerie è bassa. Ci limitiamo nei margini, diamo un prodotto incredibile, ma la gente non deve spendere più di 20 euro: il nostro scontrino medio è circa 15 euro a cena, 11 a pranzo. Secondo me è vero che le pizzerie possono diventare le nuove trattorie. Dopotutto le trattorie sono diventati i nuovi ristoranti.
Matteo: Dieci anni fa al cliente spiegavamo qualsiasi cosa. Ora i ragazzi sono preparati ma rilassati: sanno tutto su impasti, prodotti, lievitazioni, ma lo dicono solo se viene loro chiesto, non quando arrivano al tavolo. A Roma è capitato che un cliente dicesse “Non rompere i coglioni, voglio solo mangiare una pizza” e la povera cameriera si mettesse a piangere.
L’ultimo appunto me lo fanno sul titolo che voglio dare: “impero della pizza”.
Salvatore: Non è un impero. Papa John’s ha tipo 6000 pizzerie. Noi al confronto non siamo niente. Comunque l’importante è che non ci chiami “concept”. Non è un concept, è una pizzeria! Non ci siamo inventati niente: le pizzerie ci sono sempre state. Grazie al cielo.
Segui Giorgia su Instagram