Nonostante quasi ogni giorno scienzati ed esperti ci avvertano sugli effetti devastanti del cambiamento climatico, la risposta della maggior parte dei governi è quello di scrollare le spalle. Davanti a questo atteggiamento, un gruppo di donne ha deciso di far partire uno sciopero riproduttivo impegnandosi a non avere figli fino a quando l’attuale crisi ambientale non verrà affrontata per ciò che è realmente: la minaccia globale numero uno dei nostri tempi.
Tra loro ci sono quante si riconoscono nel movimento dei Birthstrikers, nato nel Regno Unito da Blythe Pepino, ex cantante del gruppo Vaults e attivista del movimento Extinction Rebellion.
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Dopo aver assistito a una conferenza che spiegava l’attuale emergenza climatica, Pepino inizia a chiedersi quanto sia ragionevole avere un figlio in queste circostanze. Da lì, alla fine del 2018, nasce l’idea di creare un gruppo Facebook—BirthStrike, appunto—e rendere la sua decisione un gesto politico. Nel manifesto di BirthStrike si legge: “Manifestiamo la nostra decisione di non avere figli davanti alla gravità della crisi ecologica e all’attuale inerzia dei governi di fronte a questa minaccia esistenziale.”
Pepino sente che le è stata tolta la libertà di procreare senza preoccuparsi per il futuro dei suoi figli; un futuro che, mi dice, “attualmente immagino cupo e violento, fatto di difficoltà nel procurarsi acqua e cibo, apartheid tra ricchi e poveri, mentre familiari e amici muoiono prematuramente.” Allo stesso tempo, secondo l’attivista britannica BirthStrike è mosso da un approccio ottimista: “Invece di prendere questa decisione in sordina e tenerla per noi, vogliamo politicizzarla e sbatterla in faccia, far prendere coscienza della disfunzionalità di un sistema che ha reso l’idea di riprodursi una decisione così angosciante.”
Clara, ventitreenne dalla provincia di Cuneo è una delle prime italiane ad essersi unite a Birthstrike. Racconta di una conferenza di Luca Mercalli all’Università di Torino nel 2015 dalla quale uscì piangendo. Era la prima volta che le veniva spiegato con chiarezza il cambiamento climatico, e da lì è maturata in lei l’idea di non avere figli. “Ho scoperto Birthstrike qualche mese fa leggendo un articolo sul Guardian, mi ha dato forza scoprire che tante altre donne e uomini hanno preso la stessa, dolorosa, decisione,” mi spiega.
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Clara sente di non poter mettere al mondo un bambino su un pianeta trasformato in un posto ostile alla vita umana, ma vede anche le potenzialità dello sciopero come motore di cambiamento: “Immagina se ogni donna si rifiutasse di procreare, come spingerebbe i governi ad agire.”
A chi le fa notare che l’umanità ha continuato a riprodursi anche sull’orlo costante di un conflitto nucleare, lei risponde così: “Il 99 percento della comunità scientifica mondiale è concorde che ci aspetta un disastro, a meno che non vengano prese azioni immediate da parte dei governi. Non mettere al mondo un figlio fino a quando non vedremo quella volontà politica mi sembra semplice buonsenso.”
Clara lascia infatti aperta la porta sulla possibilità di cambiare idea. “Mi sono detta che il mio impegno nel BirthStrike per ora è di dieci anni,” spiega. “Se quando avrò 32 anni le emissioni saranno state drasticamente ridotte, se avremo un sistema economico non più follemente estrattivo, se gli scienziati dicessero che la situazione è molto migliorata e non rischiamo più di estinguerci, allora considererei di avere un bambino.”
Anche Sara Nicomedi, fotografa romana ma da tempo residente a Londra, era già arrivata alle conclusioni di BirthStrike prima ancora che nascesse il movimento. “Dal 2017 lavoro a un progetto fotografico intitolato I can’t swim forever, in cui rifletto sul fatto che potrei interrompere la catena familiare e non mettere al mondo una nuova generazione,” mi dice.
Sara si definisce in “standby” fino a quando non vedrà politiche concrete da parte dei governi e un cambiamento della società e delle sue priorità. “Vorrei un figlio per condividere ciò che ho trovato di bello su questa terra e negli esseri umani,” prosegue. “Ma se queste cose scompaiono o sono a rischio, proprio non saprei come spiegarglielo.”
Sara, che ha 35 anni, si dice consapevole di non avere ancora molto tempo per decidere. La spaventa la sensazione che la maggior parte delle persone non sia al corrente della gravità dell’attuale crisi ambientale. “In Italia, quando accenno al mio progetto fotografico, molti credono che abbia qualche problema di depressione o ansia,” mi spiega. “Difficilmente vengo presa sul serio. Ma a darmi speranza c’è l’attivismo climatico giovanile di Fridays for Future ed Extinction Rebellion, due realtà che fino a un anno fa non esistevano.”
Barbara, trentaquattrenne di Padova, lavora nel terzo settore—dunque a stretto contatto con problemi ambientali e diritti umani—e ammette di soffrire di eco-ansia: “Ho scoperto il movimento BirthStrike attraverso un articolo del Guardian e ho trovato in quella community una sorta di terapia di gruppo virtuale. Grazie a loro ho riflettuto per la prima volta sulla mia decisione di non avere figli come una scelta politica.”
BirthStrike ha aiutato Barbara a prendere coraggio e a parlare apertamente della sua scelta. Ha scoperto così che alcune sue amiche la condividono, anche se nota che dietro la scelta di non avere figli per molti entrano in ballo anche “altri fattori, come la mancanza di sicurezza economica.”
Barbara si sente dire spesso che è proprio lei, più sensibile ai problemi ambientali, che dovrebbe mettere al mondo dei bambini, visto che i suoi figli sarebbero parte della soluzione. Un ragionamento che però non la convince, “come se fosse facile controllare ciò che penseranno o faranno i nostri figli nel futuro.” Ma per Barbara resta ancora un tabù: “Le uniche persone con cui non ho parlato seriamente di BirthStrike sono i miei genitori. Fanno fatica ad accettare l’idea che la loro figlia non gli darà dei nipotini.”
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