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Tecnologia

Una lezione di teoria e pratica di suicidio digitale

Scomparire da internet è difficile. Anzi, praticamente impossibile.
Riccardo Coluccini
Macerata, IT
Illustrazione: Juta

Mi sono cancellato da Facebook solo una volta, all’inizio dell’estate del 2011. Ma chiaramente i motivi che mi avevano spinto a compiere quell’azione non erano né la mancanza di fiducia nella piattaforma né tantomeno lo sfruttamento economico di tutte le mie connessioni, like, e interazioni sul social network. Ho resistito meno di un anno — e nel frattempo mi ero anche aperto un account su Twitter.

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Ricordo che mi passò subito in testa la domanda: “Qualcuno noterà la mia assenza su Facebook?” Purtroppo non sapevo che proprio un anno prima era apparso online il Facebook Suicide Bomb Manifesto, pubblicato sulla mailing-list dell’Institute for Distributed Creativity, che cercava risposta alla stessa domanda con obiettivi completamente diversi dai miei. In quel caso, infatti, il gesto del cancellare il proprio account veniva assimilato a un vero e proprio suicidio digitale.

Il movimento #deletefacebook ci riporta prepotentemente a dover fare i conti con il suicidio digitale come forse unica via d’uscita per contrastare il controllo biopolitico di Facebook.

Sono trascorsi 8 anni dalla pubblicazione di quel manifesto e il movimento #deletefacebook ci riporta prepotentemente a dover fare i conti con il suicidio digitale come forse unica via d’uscita per contrastare il controllo biopolitico di Facebook.

Lo scandalo di Cambridge Analytica ha chiaramente squarciato l’ultimo velo che nascondeva i meccanismi del capitalismo della sorveglianza di cui Facebook è uno dei massimi promotori e questo ha generato un’ondata di reazioni che ha investito tutti: dal tizio che su Facebook già ci trascorreva poco tempo fino ad arrivare a giornalisti e personaggi come Elon Musk.

Il social network sembrava destinato a diventare una landa desolata, vista la potenza dell’hashtag che imperversava su Twitter e, paradossalmente, anche su Facebook. I dati di un recente sondaggio, però, mostrano il contrario: solo il 9% degli americani ha cancellato il proprio account.

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E ancora più drasticamente, a chiudere la parentesi #deletefacebook, ci ha pensato lo stesso Zuckerberg intervistato dal New York Times: “Non penso che abbiamo visto un numero significativo di persone agire [ ndr per cancellare i propri account] ma, sai, non è comunque una buona cosa.”

Sembra quindi che le persone non vogliano effettivamente uscire da Facebook. Con il mantra del costruire comunità e connettere le persone, Facebook incarna uno strumento fondamentale per ampie fasce della popolazione globale.

Ci sono persone con malattie croniche che trovano conforto parlando con altre persone su gruppi Facebook, famiglie divise su più continenti che possono tenersi in contatto, artisti e piccoli negozi che riescono a vendere i proprio prodotti anche tramite Facebook: per tutte queste persone, sottolinea l’attivista Jillian C. York, il social network è una forma di “àncora di salvezza vitale.”

Per tutti quelli che invece vorrebbero effettivamente sottrarre la propria identità al controllo di Facebook, purtroppo, questa soluzione è impraticabile. Sotto le sembianze della comunità mondiale di oltre 2 miliardi di utenti si nasconde sempre la piattaforma tecnologica che ha come obiettivo l’estrapolazione di valore economico dalle nostre azioni online.

Facebook non è solamente il social network: ci segue costantemente sul web grazie ai suoi servizi pubblicitari che ci monitorano con i cookie e i bottoni per i like, fino a creare dei veri e propri “profili ombra” degli utenti che non fanno già parte del social.

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Come ricorda la giornalista Sarah Jeong, “tutti sono su Facebook perché tutti sono su Facebook. E poiché tutti sono su Facebook, anche le persone che non ci sono si ritrovano i loro dati nei profili ombra. La mia inerzia colpisce anche le persone che sono riuscite a stare alla larga.”

Dalle parole di Zuckerberg, però, sembrerebbe che anche il solo parlare di allontanarsi da Facebook o ridurre la proprio attività sul social non siano una buona cosa. E un chiaro esempio di come Zuckerberg reagisce all’idea del suicidio digitale ci è offerta proprio da due installazioni artistiche del 2009.

La homepage di Seppukoo.

Seppukoo.com, ideata da Les Liens Invisibles, e Web 2.0 Suicidemachine, prodotta da un gruppo di artisti di Rotterdam, avevano l’obiettivo di fornire un servizio per il suicidio digitale dei propri account Facebook.

Il primo utilizzava le credenziali di accesso degli utenti per creare un memoriale sul sito Seppukoo.com, scegliendo le proprie ultime parole e inviando la testimonianza del suicidio del proprio account agli amici su Facebook, per sfruttare così i meccanismi di viralità e spingere anche altri utenti a seguire le proprie gesta. Il secondo, invece, era molto più drastico: veniva cambiata definitivamente la propria password di accesso al social network, eliminata l’immagine profilo e aggiunto l’account al gruppo “Social Network Suiciders.”

Nate come installazioni artistiche, queste due opere sono state attaccate da Facebook in quanto oggetti dannosi e illegali: entrambe hanno ricevuto delle lettere da rappresentanti di Facebook per violazione di account personali, furto di credenziali, scraping di contenuti e violazione della proprietà intellettuale. Hanno dovuto chiudere i battenti e sospendere i servizi di suicidio digitale.

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Come sottolinea il ricercatore Tero Karppi, nel suo studio Digital Suicide and the Biopolitics of Leaving Facebook, il suicidio digitale ci costringe ad affrontare in maniera più ampia le riflessioni sulla nostra vita alla luce dell’intersezione fra morte e tecnologia.

In questo caso, il suicidio digitale — l’annullamento del proprio aggregato di dati virtuale — rappresenta non una morte in quanto fine di un processo vitale bensì un tentativo di riprendere il controllo della nostra sfera sociale, tranciando del tutto i cavi che ci tengono collegati al controllo politico e economico esercitati dalla piattaforma: si tratta quindi di sfuggire al biopotere di Facebook.

Secondo le teorie di Foucault, il biopotere si riferisce all’abilità dello stato di comandare e disciplinare la popolazione ottimizzando ogni aspetto della produttività economica e controllando le condizioni di vita. Traslando queste pratiche alla piattaforma Facebook, ci troviamo di fronte a una struttura che silenziosamente ingloba, plasma, e perpetua una serie di relazioni di forza che finiscono con l’avvolgere completamente gli individui online.

E questo è ciò che preoccupa maggiormente il social network: account digitali inermi, account che si sono suicidati digitalmente.

Sentendoci da un lato coccolati in quanto convinti di apparire agli occhi di Facebook come utenti singoli ai quali viene offerta un’esperienza personalizzata, in realtà finiamo con il diventare un semplice puntino nella miriade di interazioni che il social network cerca di promuovere, in modo da poterci classificare in base ai nostri interessi e offrirci in sacrificio per i propri scopi commerciali.

A gennaio 2018 Facebook ha aggiornato l’algoritmo che regola le nostre bacheche facilitando la diffusione di quei contenuti che producono proprio “interazioni significative.” Ma per esercitare un vero controllo Facebook ha bisogno di un costante afflusso di utenti attivi, in grado di produrre interazioni. E questo è ciò che preoccupa maggiormente il social network: account digitali inermi, account che si sono suicidati digitalmente.

Cancellare il nostro profilo da Facebook non ci mette in salvo dalla sorveglianza del capitalismo ma permette di rimettere in discussione concettualmente il regime semiotico su cui si basa la piattaforma, permettendo così di appropriaci di un nuovo linguaggio radicale.

Segui Riccardo su Twitter: @ORARiccardo