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La vita infernale di un apolide in Italia

Secondo le stime della Comunità di Sant'Egidio, in Italia vivono più di 15.000 apolidi, “senza patria” che non sono cittadini di alcuno stato, bloccati in un limbo burocratico da cui spesso è impossibile uscire.
Foto di (Waiting for) Godot/Flickr

C'è una fetta di persone che risiedono in Italia che è sconosciuta ai più, spesso dimenticata dalle istituzioni e ignorata dai media e dal dibattito pubblico: gli apolidi, i "senza patria".

Secondo le stime della Comunità di Sant'Egidio, in Italia vivono più di 15.000 apolidi di fatto, che non sono cittadini di alcuno stato, bloccati in un limbo burocratico da cui spesso è impossibile uscire.

Di queste 15.000 persone, al 2014, solo 583 avevano ricevuto il riconoscimento legale dello status di apolidi ed erano iscritti alle anagrafi dei comuni di residenza. Quest'enorme discrepanza tra gli apolidi "ufficiali" e quelli di fatto è sintomo di una serie di problemi: molti di loro non sono nemmeno a conoscenza della possibilità di ottenere un riconoscimento giuridico e con questo di una serie di diritti; altri incontrano ostacoli e difficoltà nel complicato percorso burocratico che si deve compiere per ottenere il riconoscimento.

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Gran parte degli apolidi residenti in Italia è di etnia Rom, proveniente dai paesi dell'ex Jugoslavia. Spesso vivono in Italia da due o tre generazioni, ma in quanto figli di apolidi senza documenti non riescono a vedersi riconosciuto uno status legale. Gli altri sono originari perlopiù dei paesi dell'ex Unione Sovietica, a cui dopo più di 20 anni ancora non è stata garantita una cittadinanza, della Palestina e del Tibet.

Si può essere senza cittadinanza per diversi motivi: alcuni sono figli di apolidi, o non possono ereditare la cittadinanza dei genitori; ad altri è negata la cittadinanza per motivi discriminatori; altri ancora sono fuggiti da guerre e occupazioni, o sono nati in paesi che oggi non esistono più, come la Jugoslavia o l'Unione Sovietica.

L'Italia è uno dei quattordici paesi ad avere una disciplina che regola l'acquisizione dello status di apolide, che può avvenire per via amministrativa o per via giudiziaria. Per richiedere il riconoscimento per via amministrativa, bisogna presentare una domanda corredata dall'atto di nascita e da un documento che provi la residenza della persona in Italia—o, in alternativa, un foglio che certifichi lo stato di apolidia.

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Il procedimento sembra relativamente semplice, ma proprio la particolare situazione legale delle persone senza cittadinanza rende il tutto difficoltoso. Solo alcuni di coloro che fanno richiesta sono in possesso dell'atto di nascita o di un permesso di soggiorno.

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"È una grande limitazione," ha detto a VICE News Giulia Perin, avvocato e consigliere dell'Associazione Studi Giuridici sull'Immigrazione (ASGI). "L'apolide spesso è irregolare, quindi non ha un permesso di soggiorno, e potrebbe anche non avere l'atto di nascita."

Alcuni apolidi che lei definisce "di lusso," che hanno tutti i documenti necessari per il riconoscimento legale, riescono ad ottenerlo nel giro di un anno. Chi invece non ha i documenti non può percorrere la via amministrativa, perché vedrebbe rigettata la richiesta di riconoscimento dell'apolidia. "Il tasso di approvazione di queste domande è molto basso, e i tempi sono molto lunghi," ha spiegato Perin.

Per chi non è in possesso dei documenti necessari, rimane aperta la strada del riconoscimento per via giudiziaria. In questo caso, il soggetto privo di cittadinanza deve trovare un avvocato e chiedere il riconoscimento a un giudice del tribunale di competenza, che in questo caso è il Tribunale di Roma. Nonostante questa procedura consenta anche a chi non ha i documenti necessari di richiedere lo status di apolide, permangono comunque delle serie difficoltà.

Un primo problema sorge dalla ricerca dell'avvocato: da un lato, queste controversie sono molto impegnative, e può essere complicato trovare un legale che voglia occuparsene. Dall'altro, subentrano problemi di tipo economico. "Spesso gli apolidi non hanno denaro," ha spiegato Perin. "Potrebbero usufruire del gratuito patrocinio, perché in genere ne hanno i requisiti, ma rimane comunque una strada in salita." L'altro problema riguarda le tempistiche: il processo può durare almeno uno o due anni, e nel frattempo coloro in attesa di giudizio sono costretti a vivere in una situazione di incertezza giuridica.

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"È necessario lavorare al miglioramento della procedura per il riconoscimento dello status di apolidia," ha detto Helena Behr, Senior Protection officer dell'UNHCR. "Coloro che non si vedono riconosciuto lo status di apolidia non hanno accesso a tutta una serie di diritti che invece gli spettano in base alla Convenzione ONU sullo status degli apolidi del 1954."

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Quello che spesso sfugge nel dibattito intorno all'apolidia è che esiste un problema più ampio rispetto al semplice riconoscimento dello status giuridico. Molte delle 15.000 persone senza documenti, i cosiddetti "apolidi di fatto," sono tecnicamente cittadini di uno stato, e quindi non avrebbero bisogno di farsi riconoscere lo status di apolidi. Tuttavia, per una mancanza di mezzi sia economici che pratici, per l'abbandono delle istituzioni e per lo stato di marginalità in cui vivono, non riescono a ottenere un riconoscimento giuridico di alcun tipo, che sia di apolidia o di cittadinanza italiana o estera.

Come ha spiegato Perin: "Ci sono tantissime persone che non hanno neanche un documento e che sono ai margini della società. Di fatto queste persone riuscirebbero a ottenere una cittadinanza, ma si tratta di cose così complesse che sono al di là della loro portata, salvo che qualcuno decida di aiutarli per fargli ottenere un documento."

È questa la condizione in cui si trovano molti dei Rom che vivono in Italia. Infatti, secondo l'UNHCR, il 10 per cento dei Rom in Italia è apolide di fatto. Si tratta di persone arrivate nel paese negli anni Ottanta o Novanta, quindi poco prima della guerra che ha disgregato l'ex Jugoslavia o durante la guerra stessa.

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Ad alcuni non è stata riconosciuta la cittadinanza dai nuovi stati nati, dalla disgregazione della Jugoslavia; ad altri, i paesi di cui sono cittadini non riconoscono la cittadinanza per i figli; altri ancora non riescono a richiedere la cittadinanza del paese d'origine per i figli a causa di problemi materiali, come non riuscire a recarsi al Consolato per presentare la domanda.

Da una parte, soprattutto i giovani apolidi non sono consapevoli dell'utilità di avere un documento. "Proprio perché sono ragazzi, i cui nonni o genitori sono già apolidi, non hanno mai vissuto e compreso a fondo l'importanza di avere un documento," ha detto a VICE News Carlo Stasolla, presidente dell'Associazione 21 Luglio. Dall'altra, è la dimensione stessa del campo Rom, di per sé ghettizante, a far diminuire l'urgenza di procurarsi un documento.

L'esclusione sociale dei Rom in Italia e la mancanza di documenti costituiscono un circolo vizioso da cui, al momento, sembra difficile uscire. "Il primo elemento di ghettizzazione e di esclusione sociale è data dalla mancanza di documenti," ha spiegato Stasolla. "Non possiamo parlare di un superamento dei campi se in primis, per alcune famiglie, non avviene una regolarizzazione dei documenti," ha aggiunto.

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Il trattamento giuridico degli apolidi riconosciuti e di quelli di fatto è profondamente diverso. Gli apolidi riconosciuti giuridicamente sono considerati, per alcuni aspetti, al pari di qualsiasi altro cittadino italiano. Hanno accesso all'istruzione e alla sanità pubblica, sono soggetti agli stessi obblighi fiscali e hanno uguale accesso alla previdenza sociale. Per altri aspetti invece sono legalmente considerati come gli stranieri extracomunitari residenti nel paese: hanno bisogno del permesso di soggiorno per lavorare, e hanno diritto di richiedere il ricongiungimento familiare.

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Nonostante possano spostarsi liberamente all'interno del territorio italiano, per viaggiare all'estero hanno bisogno di uno speciale "titolo di viaggio per apolidi," che viene rilasciato a meno che non ci siano impedimenti dettati da ragioni di sicurezza nazionale e ordine pubblico.

La situazione è molto diversa per gli apolidi di fatto. Non avendo un permesso di soggiorno, gli sono garantiti solo il diritto all'assistenza sanitaria e, fino ai 18 anni, quello all'istruzione. I maggiorenni, invece, non possono iscriversi all'università, non possono affittare una casa e non possono ovviamente lavorare se non in nero.

"Nei fatti, gli vengono annullati tutti i diritti," ha spiegato Stasolla. "Viene negato il diritto madre: l'apolide di fatto è completamente invisibile ed escluso dai processi attivi all'interno della società."

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Per quanto riguarda l'acquisizione della cittadinanza italiana, gli apolidi giuridicamente riconosciuti possono richiedere la naturalizzazione dopo aver vissuto regolarmente nel paese per almeno cinque anni, più breve rispetto ai dieci anni previsti per gli stranieri residenti in Italia.

Per gli apolidi di fatto, invece, vale l'attuale legge sulla cittadinanza: possono diventare cittadini italiani gli stranieri legalmente residenti in Italia per almeno 10 anni, una condizione difficilmente soddisfatta da chi vive senza un riconoscimento giuridico di alcun genere.

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"La maggior parte dei rom, se si attuassero policy di integrazione, diventerebbero o cittadini del loro paese o cittadini italiani," ha spiegato Perin. Ma questo significa prenderli "uno a uno, investirci del denaro, pagare quello che c'è da pagare," e molto spesso questo non accade.

Le cose, tuttavia, potrebbero cambiare. Il 13 ottobre la Camera ha approvato la riforma della cittadinanza che ora è all'esame del Senato. Secondo la nuova legge i bambini nati in Italia da genitori stranieri, di cui almeno uno con un permesso di soggiorno di lunga durata, potranno ottenere la cittadinanza per nascita (secondo il principio del cosiddetto ius soli temperato) su richiesta dei genitori entro il diciottesimo anno di età. Tra i 18 e i 20 anni, potranno poi presentare loro stessi richiesta di cittadinanza.

Invece, per quanto riguarda i bambini nati all'estero da genitori stranieri ma trasferitisi in Italia prima dei 12 anni, essi potranno richiedere la naturalizzazione se avranno frequentato per almeno cinque anni la scuola in Italia. Anche in questo caso la richiesta (secondo il principio del cosiddetto ius culturae) potrà essere presentata dal genitore legalmente residente in Italia entro di 18 anni di età, o dal diretto interessato entro i suoi 20 anni.

La riforma contiene una norma transitoria che consentirà anche a chi detiene di requisiti del cosiddetto ius culturae, ma ha già superato i 20 anni di età, di richiedere la cittadinanza se ha risieduto legalmente e ininterrottamente in Italia negli ultimi cinque anni. La riforma potrebbe effettivamente consentire a molti ragazzi senza documenti di ricevere un riconoscimento giuridico.

"La nuova legge sulla cittadinanza potrebbe avere degli effetti positivi per risolvere il problema dell'apolidia in Italia," ha spiegato Perin. "Molti degli apolidi di fatto hanno studiato in Italia. Se i genitori riescono ad ottenere un permesso di soggiorno, cosa spesso probabile, [questi ragazzi] diventano italiani."

Più tiepida è stata invece la replica dell'UNHCR all'ipotesi che la nuova legge possa contribuire a risolvere il problema dell'apolidia. "Può avere un impatto indiretto. Lo ius soli temperato e lo ius culturae possono certamente avere un impatto sull'apolidia, in quanto permettono un più facile accesso alla cittadinanza per una categoria più ampia di persone, nonostante la legge non riguardi direttamente gli apolidi," ha concluso Behr.


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Foto in apertura di (Waiting for) Godot pubblicata sotto licenza Creative Commons CC BY-SA 2.0