Ho vissuto quattro mesi in totale autonomia sull’Himalaya
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Ho vissuto quattro mesi in totale autonomia sull’Himalaya

Ho girato le montagne più alte del mondo a cavallo, con una cesta di vimini al posto dello zaino e una coperta di pelle di capra al posto del sacco a pelo.

A 21 anni ho deciso di lasciare la civiltà per diventare un esploratore. Da allora ho visitato alcuni dei luoghi più sperduti del mondo e l’ho sempre fatto da solo con l’obiettivo di imparare a sopravvivere nella natura selvaggia. Dopo aver attraversato l’Islanda, la Mongolia e l’Alaska ho però compreso l’inconsistenza del mio approccio: ero sì riuscito a sopravvivere in luoghi inospitali come il deserto del Gobi, ma sempre grazie al materiale che avevo nel mio zaino.

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In Alaska ho iniziato a eliminare l’utile per mantenere solo l’essenziale, ma non ero ancora indipendente. È stato proprio lì che ho capito che se avessi voluto riconciliarmi davvero con la natura e abbandonare il mondo che la sta distruggendo avrei dovuto fare a meno di tutto ciò che la civiltà moderna ha prodotto. Per farla breve: dovevo passare all'"autonomia totale" accontentandomi di ciò che la natura ha da offrire. Dovevo liberarmi di tutto il contenuto del mio zaino.

È così che è nata l’idea della mia ultima spedizione sull’Himalaya. L'idea consisteva nell’arrivare con il mio zaino e via via sostituirne tutto il contenuto con alternative naturali—andare nella direzione opposta rispetto al progresso della tecnica e cercare di raggiungere l'essenziale. È questo che ho fatto per quattro mesi e mezzo, dal 5 agosto al 10 dicembre 2017. Ho attraversato le montagne dell’Himalaya da ovest a est per oltre 2000 chilometri, dalle vette più alte del mondo alla giungla soffocante, spostandomi a piedi, a cavallo e a nuoto. Sono riuscito a fare il fuoco per attrito liberandomi dell’accendino, ho costruito una cesta di bambù per sostituire il mio zaino, mi sono fatto una coperta di pelle di capra per usarla al posto del piumone. Ovviamente questa metamorfosi è avvenuta solo grazie al prezioso aiuto degli ultimi nomadi e cacciatori che popolano quelle montagne.

Come si può facilmente immaginare non tutto è andato come previsto. Un giorno ero a un passo dal gettare la spugna. Per la precisione era passato un mese e mezzo da quando io e Robert, il mio cavallo, avevamo cominciato a seguire i sentieri delle montagne. Quel giorno avevamo in programma di attraversare il passo di Manirang, a oltre 5500 metri di altitudine. In quel punto il rischio di frane è molto alto.

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Dopo quattro ore sul sentiero abbiamo trovato una gigantesca roccia che bloccava il passaggio e l’unica cosa che potevamo fare per proseguire era scavalcarla. Mentre stavamo tentando di arrampicarci, la corda che mi legava a Robert ha strattonato e il cavallo ha perso l'equilibrio e ha cominciato a cadere giù per il pendio. In preda al panico lottava per alzarsi, ma così facendo accelerava solo la caduta. Naturalmente ho cercato di tirare la corda ma con i miei 60 kg non c'era niente da fare se non lasciarlo andare. Così ho lasciato la corda e l’ho visto scomparire nel vuoto.

Ho abbassato lo sguardo, terrorizzato al pensiero di quello che avrei visto. Miracolosamente Robert era caduto su un cornicione dal quale non poteva muoversi. A quel punto c'era solo una cosa da fare: scendere fino all’ultimo villaggio che avevo attraversato, a 20 km di distanza e 1000 metri di altitudine di dislivello. L'ho raggiunto al tramonto, esausto e in lacrime. Gli abitanti del posto, vedendo la mia angoscia, hanno deciso di organizzare una missione di salvataggio. Siamo tornati sulla scena dell'incidente alle due di notte. Robert mi ha guardato e il suo sguardo sembrava dirmi, "Ma che cazzo hai fatto nelle ultime dieci ore?"

Nonostante le paure, questo viaggio mi ha regalato anche i momenti più intensi della mia vita—in particolare nelle settimane che ho trascorso nella giunga nepalese. Prima di partire avevo il sogno di incontrare dei raut: questa tribù nomade, il cui nome vuol dire "re della foresta," vive nelle giungle più remote del Nepal occidentale. Sono gli ultimi cacciatori-raccoglitori dell’Asia: per nutrirsi cacciano le scimmie e raccolgono frutta e tuberi.

Ho seguito le loro tracce per dieci giorni prima di incontrarli. Il loro accampamento era composto di tende fatte con i rami e il fogliame. Quando li ho notati uno di loro stava lavando dei peperoni, una donna tornava dal bosco con due tronchi sotto il braccio e un adolescente tagliava un enorme pezzo di legno.

I bambini, che stavano giocando nel fiume, mi avevano notato per primi e avevano chiamato gli adulti: persone molto piccole, alte un metro e mezzo circa, vestite di teli leggeri che li coprono appena. Sono stato condotto alla tenda reale, da cui è uscito un uomo ancora più nudo degli altri, che mi ha fissato negli occhi. L’ho salutato in modo solenne sperando di risultare rispettoso. Ero un po’ turbato: era la prima volta che vedevo i testicoli di un re.

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