Sta succedendo di nuovo, Black Mirror è l’hot topic dei social, e come l’anno scorso si leggono di adoratori estasiati da una parte e di violente prese a male dall’altra. La produzione di Netflix non è più quella di Channel 4 e, nel bene o nel male, qualcosa è cambiato. La mia opinione sulla terza stagione era un “Emh, no”. Mentre la quarta ha momenti interessanti. Anzi, è proprio uscita col buco: BM ha mutato forma e c’è una nuova chiave di lettura che si fa spazio nella struttura narrativa e filosofica dell’opera.
Se nel Blade Runner di Villeneuve o nell’ Her di Spike Jonze erano i programmi dotati di intelligenze artificiali ad assumere il ruolo di (co)protagonisti di storie, in questa nuova stagione di Black Mirror, dimostrando il proprio diritto ad essere vivi, lo sono i pezzi di codice fusi a rimasugli di DNA o informazioni ereditate dal cervello. Artefatti che chiedono il loro diritto alla vita quanto i personaggi interpretati dagli attori in carne e ossa. La posizione di Brooker pare abbastanza chiara: sono le vittime/schiavi di un futuro molto fantascientifico.
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Per l’uomo contemporaneo le criticità della tecnologia sono la fine della net neutrality, lo spam coatto sui siti di streaming, i ridicoli bot che si spacciano per esseri umani sui social e l’appropriazione indebita dei nostri dati personali per fini sconosciuti. Brooker ci parla di un dopodomani, quando cose come il mind uploading dovranno essere affrontate davvero, anche da un punto di vista etico e morale.
La parola tabù, che non viene mai citata, è “anima”. Se non scrive delle ossessioni dell’occhio e dell’io morboso, Brooker scrive di anima intesa in accezione platonica a tutti gli effetti: entità in grado di essere trasmigrata da un corpo a un altro, immortale e soprattutto trasferibile. A questa elucubrazione metafisica si accompagna un altro leitmotiv: lo sguardo maniacale dell’individuo (o di qualcosa), è un pericolo che la tecnologia amplifica. “Fatevi i cazzi vostri” è un mantra che attraversa la stagione, perché se ci pensate l’assenza di un maturo senso di riservatezza è la causa scatenante delle tragedie delle varie puntate. Cosa piuttosto chiara nella figura della mamma in Archangel.
[Attenzione Spoiler!]
USS Callister è un concentrato di questa filosofia imbracciata con la nuova scrittura della serie. La storia di un geniale architetto del software che crea un complesso videogioco spaziale basato sulla generazione procedurale, una specie di versione potenziata e futuristica di No Man’s Sky. Da buon sociopatico, il programmatore (un disagiato, un violento => l’ALT-RIGHT) decide di popolare un server privato del suo videogioco con dei personaggi virtuali generati dal DNA delle persone che lo hanno maltrattato nella vita reale. Questi pezzi di software, dotati di una coscienza indipendente, si ritrovano schiavi di un dio programmatore, con l’unica colpa di essere dei surrogati degli originali in carne e ossa. Davvero si può gioire per la sorte di un mucchio di codice informatico, se non partendo dal fatto che sia dotato di un qualche tipo di anima?
Archangel, l’episodio diretto da Jodie Foster, mette in scena l’asfissiante sorveglianza di una madre che nemmeno un figlio del Sud Italia potrebbe immaginare nei peggiori incubi freudiani. Tema d’altronde, quello della morbosa sorveglianza parentale, che stiamo già affrontando. Avete sentito parlare del ban che ha emesso la Germania nei confronti degli smart-watch che i genitori utilizzano per ascoltare i figli mentre sono a scuola?
Il doppio gioco narrativo, quello di un perturbante happy ending à la USS Callister, è presente anche con la quarta puntata, Hang the DJ, che è un po’ la San Junipero di questa stagione. La storia d’amore, la personale guerra contro la dittatura dei sentimenti che i due protagonisti affrontano per stare assieme, si risolve quando scoprono di aver vissuto in una simulazione. A fine puntata mi sono chiesto quanto potesse considerarsi spontaneo il loro senso d’amore, piuttosto che guidato dagli algoritmi.
Nella chiusura di stagione c’è addirittura un diretto parallelismo tra diritti di cloni digitali e l’eterna questione razziale. Black Museum, scritta sullo stile di un “Treehouse of horrors” dei Simpson, fa da mapping con le tematiche delle puntate precedenti e qualcosa della terza stagione. Se si accusa Brooker di essersi imbonito e di scrivere storie positive sul nostro futuro allora si sta fraintendendo qualcosa.
La nuova stagione di BM gioca con lo spettatore da un punto di vista emotivo, almeno quando le puntate funzionano. In USS Callister la vittoria dei “codici senzienti” porta, di conseguenza, alla morte del loro segregatore che, a tutti gli effetti, è l’unico vero essere umano della storia. Che se uno ci pensa è un povero cristo con dei seri problemi sociali. In Hang the DJ, come in San Junipero, un mucchio di canzoni retromaniache e i più bei tramonti renderizzati dai sofisticati algoritmi di realtà virtuale non cancellano di fondo l’ineluttabile senso di perdizione scatenato dalla vita e dalla morte.
Brooker ha messo su un teatrino di paure e speranze. Da una parte la paura di portarsi appresso gli stessi macigni dei soprusi del passato in un futuro emotivamente e filosoficamente incerto (rappresentato in primis dalle coscienze digitali), dall’altra l’eterna possibilità di ribellarsi. Come fanno Nanette (USS Callister), Sara (Archangel) e soprattutto Nish (Black Museum). Personaggi femminili in un universo dove i maschietti non fanno una gran bella figura, e manco farlo apposta siamo in tempi post- Weinsteniani.