Fino a qualche anno fa Bologna era una città con un quadro musicale facilmente delineabile. C’era il fermento della scena indie, da cui è nata una delle etichette regine del nuovo pop italiano come la Garrincha Dischi; c’erano locali e centri sociali con band nazionali e internazionali; e soprattutto c’erano i gruppi, tanti gruppi, sempre nuovi. La spinta propulsiva di quella scena, che va dal 2008 al 2014, è in fase calante. Basti pensare che solo qualche giorno fa, nell’ambito de La Grande Festa di Panico, il festival organizzato a Bologna da Panico concerti e Modernista, hanno in pratica suonato gli stessi gruppi che qui già suonavano dieci anni fa, con la differenza che ora sono diventati mainstream.
In parte lo stesso discorso vale per tutto l’universo anti, punk, hardcore e di sonorità altre che ha vissuto in quel periodo lì. Tra il collettivo punk Frigotecniche che non esiste più e tra pezzi di storia chiusi in nome dell’antropocene bolognese (ne parlo qui, non mi dilungo) gli anni dell’AntiMTVday sembrano lontani un secolo intero.
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È per questo che ho deciso di scrivere un articolo sulle band che mantengono in vita lo spirito di Bologna. Ho scelto cinque nomi, più o meno emergenti – c’è chi ha già un paio di dischi e chi non ha ancora fatto uscire nulla – per ricordarvi che in questa città il rumore non smetterà mai di ronzarvi nelle orecchie. Basta saper ascoltare.
The Jackson Pollock
C’è di mezzo una fuga dal – più o meno – profondo Sud verso il Nord. Lui, lei e una Nissan Serena. Quando il chitarrista mi racconta la loro vita prima di Bologna e io gli dico che sono i “Bonnie e Clyde del casertano”, lui ride e fa di no.
Per capire i Jackson Pollock bisogna andarseli a vedere in live – scrivo sta roba che può sembrare una paraculata ma quelli che si sono imbattuti in almeno un loro concerto possono confermarlo; se esiste un modo per rimanere traumatizzati da un suono che si potrebbe paragonare a quello dei White Stripes sotto anfetamine e con ogni velleità pop sostituita da un’aggressività punk, è proprio quello di mettersi in prima fila a un loro concerto e rimanere disturbati (in positivo) e traumatizzati da come la batterista, Federica, tratta i suoi poveri tamburi. Federica picchia e urla in modo scomposto e ipnotizzante, mentre Davide si abbandona ai propri pattern chitarristici senza perdere di vista la ritmica.
I Jackson Pollock sono un duo affiatato. Si sono fatti fotografare nei dintorni del Ponte di Stalingrado, oggi uno dei pochi luoghi dove la scena musicale bolognese è ancora sveglia e frenetica, a due passi dal Freakout e dal Mikasa, locali dove la coppia ha suonato più volte. Sono freschi di ritorno da un viaggio negli USA, precisamente a Austin (Texas), dove hanno partecipato al SXSW, suonando ovunque ci fosse spazio per batteria e amplificatore, compreso un battello che navigava il fiume Colorado.
Parlando delle loro ispirazioni musicali, io cito i No Age – con il duo di Los Angeles condividono l’attitudine ma anche la struttura, con la figura del batterista/cantante – e loro mi dicono che la loro carriera come TJP nasce proprio in seguito a un loro concerto. Ma la loro formazione passa anche per ascolti più o meno noti, i Sonic Youth e la passione per gli Horrors – non la band britannica, ma la meno nota omonima statunitense, sonorità rock n’roll dei primi anni del millennio.
Oggi le loro canzoni si trovano su Soundcloud, tracce schiette e veloci, senza fronzoli. La loro etica di produzione è quello di un lo-fi forzato, che li porta indietro nel tempo o, perlomeno, lontani dai canoni del mainstream: l’ossessione per l’artificiosa perfezione dei suoni non è cosa loro.
I Jackson Pollock cominciano a farsi notare in terra emiliana e la grancassa di Federica, riconoscibile dal fatto che vi è appiccicato sul davanti il nome della band, è protagonista di molte serate dei festival locali. Penso di averli visti qualcosa come tre volte negli ultimi due mesi; l’ultima occasione a Finale Emilia, durante il Non mi piace questa musica 3 (organizzato dall’associazione CentoRadici e Manitese). Mentre scrivo la band è in Germania a suonare e bere vino in cartone.
Il 27 aprile esce il nuovo album Cherry Go, in collaborazione con il collettivo We Were Never Being Boring, mentre su YouTube si trova già un videoclip disponibile (anche) in VHS, una coproduzione con Oh! Dear Records e More Letters.
Baseball Gregg
Il rapporto a distanza può funzionare nel mondo della musica? La risposta ce la regalano i Baseball Gregg, un gruppo nato qualche anno fa mentre la provincia era investita da una delle peggiori ondate di caldo di sempre.
La storia è quella di due ragazzi, Samuel e Luca, uno di Stockton (California), l’altro di Sasso Marconi. Incontriamo Luca in un circolo Arci di fronte all’Ippodromo della città, poco fuori dal cuore della Bolognina. Lo troviamo seduto al tavolo mentre sfoglia la Gazzetta dello Sport. Siamo circondati da una quantità notevole di quello che si potrebbe definire come il tipico esemplare di umarell bolognese; qualcuno è intento a bere spritz, un tizio è già sbronzo a merda, una coppia parla del Bologna calcio e c’è chi sta allestendo i tavoli per la serata dedicata al torneo di burraco. Insomma, l’aria delle grandi occasioni.
Vacation, uscito per La Barberia Records un paio di anni fa, è un concept album sull’estate, periodo dell’anno quanto stato mentale; le cose che nascono in estate hanno l’imprinting della calura e della quiete, attraversate da un fondo di nostalgia.
“ Vacation nasce in un periodo estivo e di vacanza”, ci dice Luca, “Eravamo a Stockton, con le canzoni già fatte, lui aveva le sue e io le mie. Samuel aveva preso una sbandata per il City Pop giapponese degli anni Settanta/Ottanta, sai, musica da crociera, rivisitazioni funk; ecco perché nell’album esistono le onde, la pubblicità, volontà di creare un vero e proprio ambiente fuori dalla musica”.
Registrare, suonare, pensare a collaborare ancora nonostante le migliaia di chilometri di distanza; i BB sono una band senza scena e che, per forza di cose, ha una musicalità che rappresenta un non-luogo. Non fraintendetemi, non sto parlando del non-luogo inteso come Internet (anche se è lì che vive la loro musica), ma qualcosa legato allo spazio delle emotività e delle relazioni umane. Vacation si apre con dei synth che accompagnano il rumore delle onde di una spiaggia senza nome, ma da “Pneumatic Girl” in poi è un salire verso sensazioni urbane, in particolare con “On Bus”, inno pop. Poi l’album, verso il finale, vira su di un mood notturno e conclusivo, quello di “Saudade”, ballata voce e chitarra sugli addii estivi in California (“And I can’t believe it’s time to say goodbye”).
“La canzone finale in realtà è la prima composta, Samuel l’ha scritta di ritorno dal suo periodo italiano. Diciamo che non era preso molto bene, soffriva di malinconia, anche perché il posto nel quale vive non è il massimo. Stockton è stata in bancarotta e la città è diventata invivibile, è una delle più pericolose d’America.”
La distanza implica avere meno possibilità di vedersi, ma la cosa non mette in difficoltà la loro voglia di scrivere nuova musica e un anno dopo Vacation tocca a un EP.
“L’estate dopo Samuel è tornato in Italia e ne abbiamo approfittato per fare un tour assieme e ci è uscito Ciao For Now, un EP di cinque pezzi.”
Ciao For Now è diverso da Vacation e secondo me meno profondo, ma ci sono di mezzo sonorità diverse e qualche sperimentazione. Gli ho chiesto se nella musica ci fossero momenti di storia italiana, in particolare Battiato. “Battiato è molto conosciuto America. Forse per il lol dei balletti su YouTube, non so, ma Samuel, ad esempio, lo ascolta molto”.
È interessante farsi raccontare come lavorano assieme: di base uno dei due fa un pezzo e l’altro glielo produce. Così ci dice Luca, parlandomi della produzione del nuovo album che, almeno per ora, non ha ancora una data di uscita. Dovrebbe essere un concept riguardante la storia di un individuo, in un lasso di tempo che va dal tramonto all’alba.
“Durante l’estate Samuel va a fare il professore di matematica alla John Hopkins di Hong Kong, quando finisce invece di tornarsene subito in California passa per di qua a Bolo e ne approfittiamo. L’anno scorso si è fatto agosto qui e abbiamo registrato il disco nuovo, si chiamerà Sleep”, che uscirà anche su cassetta per la slovacca Z Tapes.
E per suonare come fanno? Si dividono con rispettive formazioni e concerti individuali. Luca mi fa sapere che ultimamente Samuel ha suonato a Hong Kong e in Giappone pezzi dei Baseball al pianoforte: qui, mentre dei bambini ci mettono dell’harsh noise a là Merzbow.
Nella formazione italiana militano Luca Jacoboni al basso e Samuele Rossi alla batteria.
La storia del nome è interessante. Samuel aveva organizzato un vero e proprio torneo di ipotetici nomi su Twitter, dove i contatti potevano votare per battezzare la band: da lì è uscito vincitore Baseball Greg, con una g sola.
Luca chiede di aggiungere la seconda consonante in onore di Gregg Popovich, leggendario allenatore di basket americano; succede che un giorno gli mandano una mail, dicendogli che esiste una band che in parte si ispira al suo nome. Doveva essere uno scherzo, ma è andata a finire così:
Guenter Råler
Irene qualche anno fa era una delle due voci e chitarra di un gruppo synth-pop chiamato Le Ceneri e i Monomi. Ai tempi Irene era poco più che diciottenne e ascoltare i suoi nuovi lavori, sotto il nome di Guenter Råler, è stupefacente. C’è una distanza abissale, soprattutto in originalità, tra il vecchio e il nuovo mondo di Irene. Decidiamo di ritrarla nel Conservatorio Giovanni Battista Martini, luogo nel quale si è da poco diplomata dopo un percorso di musica elettronica e sound design.
Ci infiliamo in una delle stanze dedicate allo studio dell’elettronica e mentre parliamo un ragazzetto a pochi metri da noi suona l’organo della navata principale, è un pezzo di musica sacra – almeno mi pareva, qualsiasi cosa suonata con quella roba mi pare sacra.
“In seconda superiore avevo degli amici che facevano elettronica. Ho installato il mio primo software crackato in quegli anni. Il rapporto con la musica è nato di nascosto rispetto ai miei genitori, che l’avrebbero vista come una perdita di tempo. Facevo robe bruttissime, avvicinandomi al mondo dell’elettronica con robe da easy listening tipo Slow Meadow o Tycho, suonavo da autodidatta. Avevo bisogno di un posto dove imparare a suonare. […] Durante il mio Erasmus a Stoccolma ho messo insieme tutti gli stimoli che avevo ricevuto per legarli in una mia estetica personale. Avevo bisogno di allontanarmi dal percorso teorico e troppo legato ai vecchi pionieri come Cage o Stockhausen; in Svezia mi sono lanciata, trovando una nuova freschezza. Ho cominciato ad interessarmi alle arti visive, alle installazioni interattive; lì nel nord c’è una scena pazzesca, tipo Kablam, Toxe; EDM disgregata, dai ritmi instabili”.
Ad oggi Irene si occupa di sonorizzazioni (anche di videogiochi), installazioni interattive e visual.
Quando si visita la pagina Soundcloud ci si rende conto che l’estetica (e la poetica) di Guenter sono evidentemente legate al mondo del cyberspazio. “Guenter Råler è il nome di un plugin per crackare software. L’ho scelto perchè è un nome di genere non identificabile. Si riconnette al cyberfemminismo, a una piattaforma dove non sei obbligato a condividere una certa rappresentazione di te”. Irene ha questo sito, raccoglitore di manifesti e estetiche sul cyberfemminismo, regno della liberazione dei corpi dal vecchio mondo patriarcale. “Sono partita dal Fluxus per arrivare al manifesto di Marina Abramovich, poi c’è lo xenofemminismo e altri manifesti. Quello che mi interessa è la rivalsa (virtuale)”.
Ascoltare le composizioni di Guenter Råler è un po’ come finire in un cimitero del digitale o, forse, nel paradiso o nel suo limbo. È il motivo per il quale ho deciso di inserirla in questa cinquina. In lei c’è un discorso che, da queste parti dello spazio, Bologna e dintorni, è piuttosto unico per una ragazza della sua età. La musica di Irene mi fa venire in mente il concetto di hauntology originario in Derrida ma riletto da Mark Fisher. Uno dei modi per poter definire la parola hauntology è quella di immaginarlo come un fantasma delle cose e dell’essere, crisi ontologica, qualcosa che non è vivo e nemmeno morto. Esistono (?) frammenti grigi che mettono in crisi l’essere ontologico e la musica di Guenter Råler mi ha fatto pensare che sia fatta di questa non-materia hauntologica, melodie disfunzionali a livello empatico, che non vengono dal mondo fuori il computer ma che hanno un’anima. Fantasmi.
“Il concetto di energia in Akira mi ha attrae, di una forza incontrollabile; così come l’estetica del film, nei suoi paesaggi epici-distopici, le luci di Neo-Tokyo… c’è un’estasi, ma è malata.”
Ascoltare le musiche di Guenter, dai suoi singoli così come nell’intero side a lei dedicato in St. Nicolai, è possibile viaggiare – miracolosamente senza dover assumere droghe – verso il baratro della storia.
Congedo
Bologna Elettrica, evento giunto al suo secondo anno, è un festival di sperimentazione elettronica, del rumore, performance e condivisione delle arti; entri la sera e ti accorgi che sta per finire soltanto quando il sole sorge su quel pezzo di storia che è XM24. Uno degli organizzatori dell’evento è Matteo Trevisan, un ragazzone alto così, dall’importante accento veneto e che fino al 2012 ha suonato la chitarra in un gruppo math-psichedelico. Si trasferisce a Bologna e si dà all’elettronica, nel 2014 produce il suo primo EP per la Spettro Record. Poi c’è Jacopo, in città dal 2013, trombettista poliedrico, ha studiato al DAMS, è amante di Artaud, Henry Miller e Miles Davis. Prima di arrivare Bologna viveva a Rimini, dove ha esordito come scrittore e performer con il progetto Gli Esperimenti.
“A Bologna ci siamo incontrati la prima volta, a Bologna siamo cresciuti personalmente e musicalmente, a Bologna continuiamo a tornare, anche se uno vive a Belgrado e l’altro a Londra, perché semplicemente non possiamo farne a meno. La Bolognina, in particolare, è stata per noi una casa, un’amica e una confidente, in cui dopo le prove si andava a discutere a suon di Campari le nostre fantasie musicali. Bologna ci ha dato talmente tanto, che da due anni a questa parte stiamo cercando di darle qualcosa indietro, grazie al Festival di musica elettronica Bologna Elettrica“, racconta Jacopo.
I Congedo nascono a Bologna “nel Novembre 2016, sulla via del ritorno dal Timeshift, alle 6 del mattino. Un fiume di parole ubriache in post serata”, mi dice Matteo, che continua: “sentivo l’esigenza di un’elettronica più diretta, più acustica, meno dipendente dai flussi di coscienza computerizzati che caratterizzano il mio progetto solista Sheeba Exp. Jacopo, dal canto suo sentiva la necessità di trovare nuovi canali espressivi per la voce e la tromba attraverso l’elettronica. Avevamo bisogno di rappresentare sinteticamente questo lavoro, che si basava su di una destrutturazione totale di tutte le fonti sonore. Da qui il nome Congedo: di suoni, vuoti, parole”.
I Congedo ufficialmente devono ancora tirare fuori il primo EP, ma ci hanno dato la possibilità di ascoltare una delle tracce, “Believe”. È il pezzo che mi ha convinto di buttarli nel mucchio, una roba che richiama le composizioni di Howard Shore per Naked Lunch di Cronenberg, slanci vocali in stile ultimo Emidio Clementi, l’abilità trombettistica di Jacopo, con sotto il tappeto elettrico di Matteo. Al di là delle mie citazioni è evidente una firma personale. Chiedo a Jacopo qualcosina sul testo di “Believe”: “è un’estrapolazione e manipolazione dell’opera radiofonica ben più ampia e complessa di Per farla finita col giudizio di Dio di Artaud, una delle figure più estreme e rivoluzionarie del teatro e della letteratura del Novecento. Nella realizzazione dell’EP ho utilizzato innanzitutto penne e quaderni per trascrivere e manipolare testi selezionati che vanno da autori come Blake, Henry Miller, Artaud. In secondo luogo ho usato la voce manipolata con filtraggi che ne permettessero un effetto radio o megafono. Infine c’è la tromba accompagnata da riverberi e delay”.
“L’EP è stato registrato nella nostra sala prove in Bolognina, per poi essere pre-mixato nello studio del nostro amico Francesco Cannone, e infine mixato e masterizzato da Riccardo Gamondi degli Uochi Toki, che ringraziamo. L’uscita è prevista per la fine di quest’anno”.
Rijgs
I Rijgs vengono un po’ da tutta Italia, tutta la band ha vissuto qui per anni, ma oggi solamente due di loro vivono in città. Hanno deciso di farsi fotografare al Pilastro, periferia storica della città, spazi larghi e palazzoni grigi, tanto verde. Circa trent’anni fa da queste parti la Uno Bianca terrorizzava e sparava, trent’anni fa il Pilastro era un posto leggermente diverso da oggi. Ma è sempre stato quello che è, un mondo distaccato, “separato dalla città dalla tangenziale e da un ricco patrimonio di pregiudizi, cliché e paure della Bologna perbene”, per dirla con le parole di Perez Gallo.
I Rijgs non sono facili da categorizzare in un genere. Cosa brutta da fare, ma è un vizio di noi appassionati di musica ed è su questo argomento che faccio partire una lunga chiacchierata con Iacopo Bianchi, Simone Felici, Gianluca Panici e Rocco Zulevi. Purtroppo, o per fortuna per il lettore, questo è un articolo e non un saggio. Ci siamo detti fin troppe cose, delle quali ho conservato qualche frammento. Se bisogna trovare un leader nella band, nel caso dei Rijgs è Iacopo, chitarrista e compositore principale.
Chiedo loro perché su Google sono segnati come “jazz d’avanguardia”: “Non lo siamo assolutamente, è una roba venuta fuori dopo aver caricato i pezzi sui network e piattaforme di streaming, uno dei responsabili di questi siti deve averci categorizzati così”.
“Siamo jazz di retroguardia, vogliamo capire dov’è sparito Ornette Coleman”, scherza Gianluca.
“A me non piace il termine avanguardistico o sperimentale, preferisco il termine estremo, perché mi sembra che nei nostri pezzi siano estremizzati dei parametri, su tutti la durata e la ripetizione. È più un atmosfera che un genere”, mi dice Iacopo.
Definiscono la loro musica come “psichedelia spirituale”, che potrebbe rivelarsi altezzoso se d’altronde non fosse davvero così.
Il primo EP, prodotto dai musicisti stessi, assieme ad Astio Collettivo e BVRecords, è uscito nel maggio del 2016 e suona che è una bellezza. Si apre, quasi ad omaggio, con un climax sonoro similissimo a quello dell’album del 1972 dei Neu!, debutto della coppia Rother e Dinger, fuoriusciti dai Kraftwerk.
Seppur ammaliati dalle generazioni musicali dei padri, in particolare kraut e psichedelia, la loro musica è roba moderna, curata, potente. Nei Rijgs vi è piena autonomia e non c’è nessuna estetica autoreferenziale tipica di una certa psichedelia contemporanea, la psichedelia dei Rijgs è una scusa per avvicinarsi a una forma di meditazione musicale. Cosa che si rivela anche (e soprattutto) nel secondo lavoro, II , dai toni più drone.
E a proposito del secondo lavoro chiedo lumi sull’assenza delle etichette precedenti e sulla presenza di Fieberwahn che scopro essere la fresca creazione di Iacopo. “Una questione pratica, se vuoi autoprodurti devi tenere conto di molte meno grane. Non bisogna accordarsi su coordinate, come tiratura, promozione, tanta roba; stai dialogando con un produttore e devi andargli incontro e lui venire incontro a te. Non ci siamo trovati male con Giacomo [BVRecords] e Valerio [Astio Collettivo]. Semplicemente con il secondo album volevo raggiungere un grado di autonomia superiore. E poi volevo fondare un’etichetta, era il momento giusto”.
Parlare con i Rijgs vuol dire discutere di musica e dintorni con dei tizi intelligenti e soprattutto consapevoli. Mi sembrava quindi il caso di allargare il discorso, e finalmente di parlare di tempi storici, cittadini e non. Chiedo loro se sono felici di fare musica nel 2018, se non c’è la voglia di andarsene indietro nel tempo.
“Ogni tempo è buono per suonare, non c’è spazio per la nostalgia”, e sulle parole di Gianluca sono un po’ tutti d’accordo. “Però si, può succedere di essere nostalgici… per quella stagione aurea della musica, il ‘67-’77”.
Quello che pare turbare i Rijgs (ma oserei direi tutta la generazione di ragazzi che suona questo tipo di musica) è una scollatura del pubblico giovane – si parla soprattutto di minorenni e al massimo i primi vent’anni.
“Non ci sono adolescenti tra il pubblico. Quando ero io ad avere 15 anni non era così. Non è più costume per un adolescente andare ai concerti che appartengono alla famiglia del rock’n’roll. Un genere che è sempre stato degli adolescenti ora viene consumato da una fascia differente, mentre gli adolescenti si buttano su forme musicali diverse, dove forse lo spettacolo conta più della forma concerto.”
Mi viene spontaneo ragionare sulla fruizione della musica e di un concerto; cambia adeguandosi al fatto che ormai tutti i prodotti artistici, dai film alle canzoni, vivono in quello spazio così casalingo e passivo delle piattaforme di Internet. Ne deriva che il modo di assimilare la musica si fa in modo diverso e chi va ai concerti dei generi musicali ai quali appartengono i Rijgs non è un ragazzino e sembra appartenere al mondo prima.
“Quello che abbiamo notato è quindi l’innalzamento dell’età media. Il pubblico è più vecchio.”
Simone mi chiede se ai concerti mi accorga della presenza dei ragazzi sotto i vent’anni, mi mette in crisi e mi vengono in mente le parole che mi disse Raudo (il fondatore dei Marnero) in un’intervista di un anno fa: nella folla di trentenni e quarantenni che ti ascoltano, basta trovare un solo ragazzino per dire: “Ok, continuiamo a tenere in piedi la baracca”.
Non esiste nessuna scena a Bologna – sia chiaro, si parla di quella che gira attorno centri sociali, dei gruppi punk, post-punk e hardcore, rock, psichedelici – questo lo sanno un po’ tutti. Anche e soprattutto perché la scena ha bisogno di adolescenti per stare in forma. Probabilmente, di scene, è difficile trovarne anche nel resto d’Italia, con poche eccezioni.
Così come Irene (Guenter Råler) anche i Rijgs hanno difficoltà nel potersi dire soddisfatti del contesto urbano nel quale vivono. L’impressione è di non trovarsi più nella città dell’AntiMTVday, ma in un paesone dove il massimo dello sforzo intellettuale è impiegato per il gossip o per l’invidia.
“Non esiste un vincolo, non collaboriamo, siamo individualisti”, fa Iacopo.
“È più o meno dal 2014 che non esiste una cosa che si possa chiamare scena a Bologna”, dice Simone. Che poi, se si vuole tentare di contestualizzare, sono più di tre anni dalla chiusura di luoghi come l’Atlantide e altrettanti anni da assessorati alla Cultura virtuosi come quello di Alberto Ronchi.
Tutte le foto sono di Giuliana Capobianco. Grazie.