C’è questa canzone piuttosto sconosciuta che comincia così: “Sto leggendo House of Leaves di Mark Z. Danielewski / Me l’ha consigliato un amico, è abbastanza fuori di testa, mi piace“. È con lei che ho conosciuto un libro particolare. Dire in due parole che cos’è mi risulta piuttosto difficile, ma non è un problema dato che lo ha già fatto Laura Tonini su Not: “È un thriller caotico e austero, è anche un inferno di note a piè pagina chilometriche, bugie, contraddizioni, parole specifiche associate a font e colori particolari, visioni testuali di ogni genere”.
Per capire di cosa stiamo parlando, ecco una pagina del libro:
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In House of Leaves, e nell’opera di Danielewski tutta, la pagina è uno spazio, non una griglia. Sulla sua superficie le parole si posizionano libere, gli spazi tra le lettere si dilatano, le relazioni tra le parti del discorso sfarfallano. È—per continuare a usare la terminologia di Laura—un “libro strano”, quelli che mettono in crisi la narrazione classica. Quelli che sono come recinti di sabbia: le parole i granelli che fanno forme friabili, gli scrittori i bambini che le mettono assieme, i lettori i genitori che le osservano e gli danno significato.
Justin Vernon, l’uomo dietro al progetto Bon Iver, scrive quindi “testi strani”. Un po’ lo faceva già all’inizio della sua carriera, ma tra le righe. “Skinny Love” è “Skinny Love” per il dolore del suo ritornello, per i “my, my, my” che crepano il discorso ripetuti e sgolati tra un verso e l’altro. Attorno c’erano però costruzioni come “Suckle on the hope in light brassieres” o “Sullen load is full, so slow on the split”—che più che frasi-di-canzone sono richieste di interpretazione da parte dell’ascoltatore.
Ogni tanto si sfocava, ma il soggetto delle canzoni di For Emma, Forever Ago era chiaro: un uomo triste che canta la fine della propria relazione. Già su Bon Iver, Bon Iver la faccenda si faceva più complicata. Era palese fin dalle prime parole del disco, dalla prima strofa di “Perth”, un accrocchio di soggetti e riferimenti da mani nei capelli: “I’m tearing up / Across your face / Move dust through the light / To fide your name / It’s something fane / This is not a place / Not yet awake / I’m raised of make“, diceva.
“Fide” è un verbo che, in inglese, non esiste, derivato dal latino. “Fane” è una parola arcaica che significa “tempio”, ma Vernon lo usa come aggettivo (e potrebbe leggersi anche come “fain”, che significa “felicemente”). “I’m raised of make” è letteralmente “Sono cresciuto di fare”, un insieme di parole che grida risolvimi più che capiscimi. Ecco, questo succedeva in tutte le canzoni del disco.
La lingua di Vernon è poi esplosa (in senso architettonico) in 22, A Million, un disco in cui Vernon ha spaccato la lingua e il suono della sua creatura come Lucio Fontana ha bucato la tela. Per noi spettatori/ascoltatori non si tratta più di metterci davanti a una cosa e decifrarla: ci viene mostrato il di-dietro, l’oltre, la possibilità. Ci viene chiesto un impegno, un salto, un pensiero.
Ogni canzone di 22, A Million era accompagnata da un lyric video ufficiale. E di solito, detto fuori dai denti, i lyric video sono minchiate con animazioni elementari buoni per mettere qualcosa al posto di un’immagine fissa. Quelli di Vernon, invece, erano parte integrante dell’album—così come House Of Leaves era anche le poesie, i frammenti e l’epistolario in appendice. Così come Infinite Jest è anche le sue note a pié di pagina. Così come le poesie di e.e. cummings sono anche gli spazi vuoti tra le parole e le lettere.
E qua veniamo ad i,i, cioè il nuovo album dei Bon Iver, pubblicato a sorpresa sotto al sole cocente di mezzo agosto invece che nella sua data di uscita ufficiale. Non era passato mai così poco tempo tra due dischi di Vernon, e difatti la distanza tra questa nuova opera e 22, A Million non è siderale. Ma a questo giro, e mai come adesso—forse mai come in un prodotto “indie”, per usare un termine vaghissimo che indichi il nucleo del pubblico del progetto—Vernon se ne è uscito con un disco così pazzo, incostante, ermetico e incasinato. E lo dico in senso buono.
Come già successo per il precedente album, ogni pezzo di i,i ha un lyric video ufficiale. E se già tre anni fa Vernon aveva giocato con la posizione delle parole sullo schermo—vedi il video di “8 (circle)” su tutti—stavolta l’ha resa la priorità per l’analisi del suo disco, al punto che ascoltarlo senza guardare i video significa perdersi un buon pezzo del suo valore.
Questa qua sopra è “iMi”, il pezzo di apertura del disco—appena dopo l’intro, “Yi”, il cui video non contiene parole ma suggerisce subito sovrapposizioni, lampi, spazi: sembra la versione animata di un collage di Rauschenberg. Prima di venire alle parole, notiamo che in basso c’è una ballerina: il filo che non fa volare via disordinati i video di i,i è infatti la danza. In tutti compaiono corpi che si muovono al ritmo (e, più spesso, nell’assenza di ritmo) della musica. Il senso di questa scelta riverbera nelle parole di Christian Warner, uno dei ballerini di TU Dance, la compagnia di danza che ha curato le coreografie dei video:
“A questo punto della mia vita, trovo che la danza sia la forma di comunicazione più chiara ed efficace, quando le parole non riescono a esprimere quello che provo a trasmettere. Ha il potere di esplorare e rappresentare tantissime complessità dell’esperienza umana senza dire una parola.”
Proprio questo fanno, le parole di i,i: cercano di descrivere le “complessità dell’esperienza umana”, ma per farlo davvero si sfaldano. Vengono da un uomo che vive nell’epoca degli iperoggetti—quelle cose antichissime, enormi, viscose e complesse ma reali che impattano la nostra vita oggi, come il riscaldamento globale e il capitalismo. Temi che i testi di “U (Man Like)” e “Salem” provano ad affrontare, ma si scoprono impotenti e incapaci di descrivere. E quindi si sfaldano.
Il testo di “iMi”, come potete vedere dall’immagine sopra, è come impazzito. “Bright” diventa “brite”, “Stood” ha una maiuscola che non serve. Ci sono punti esclamativi, virgolette, lettere che non vengono pronunciate: è il cervello che non riesce a slegare l’intrico del contemporaneo e inizia a glitchare. La danza funziona quindi da promemoria: siamo corpi, siamo vivi, ed esprimiamo cose anche quando il linguaggio fallisce.
Il video in cui questa struttura è più evidente è “Naeem”, una performance della ballerina Amanda Sachs in uno spazio neutro in cui le parole, blumarino maiuscolo, esprimono un disagio totalizzante ma leggero—come la sua gamba che scalcia, il suo piede che batte a ritmo sul pavimento, il suo braccio alzato al cielo in segno di vittoria mentre l’altro pende, morto, attirato a terra dalla gravità. “Lungo tutto noi io mi sento”, sbotta Vernon—”All along we I can hear me”—mentre i ritornelli, su glitch che si mangiano lo schermo, affiancano l’udito al pianto e nient’altro:
Sullo schermo, che è la pagina, le parole non sono solo posizionate. Sono punti che si muovono nello spazio. “Hey Ma” è il pezzo/video più normale del disco, sia a livello strutturale che estetico: una canzone in cui Justin racconta un dolore di gioventù, impressioni d’infanzia, l’invecchiamento di sua madre. Le immagini sono filmati sgranati dal suo archivio di famiglia—e la danza rimane, in quelle che sembrano immagini di un vecchio saggio scolastico. Ma c’è un punto in cui le parole fanno una cosa particolare, cioè questo:
My eyes crawling up the window to the wall, “I miei occhi strisciavano dall’alto al basso della finestra verso il muro”. “My”, “eyes” e “crawling” compaiono per prime—poi “up” e “the”, che le coronano ai lati. Infine “Window”, “to”, “the” e “wall” invertono l’ordine di lettura e compaiono dal basso verso l’alto. Fanno cioè proprio come lo sguardo che stanno descrivendo: si muovono di qua e di là, seguono l’istinto dell’occhio e non quello che abbiamo deciso essere l’ordine in cui si leggono (o compaiono) le cose. Un po’ come in House of Leaves, quando i protagonisti entrano in un tunnel e lo spazio riservato alle parole sulla pagina si fa sempre più stretto e claustrofobico con il proseguire della numerazione.
Qualcosa di simile succede anche nel video di “Marion”:
La canzone è sorretta da una frase: Well, I thought that this was half a love, “Bé, pensavo che questo fosse mezzo amore”. E sullo schermo, quindi, compare—in modi diversi, per orizzontale o per verticale, fuori e dentro la cornice—a metà.
Un altro esempio sta in “Faith”:
Vedete quel “know” in alto a destra? Mentre Vernon lo canta, dilatato, lui si distende e ritrae come un elastico. Prima, nel video, un “god” rotea come attorno a un perno. La parola “faith” compare in un font diverso—proprio come “house” in House of Leaves. Ed ecco, i font sono un altro punto interessante: Danielewski li usa per permettere al lettore di comprendere in quale livello narrativo dell’opera ci troviamo. In Vernon, invece, sono bivi improvvisi, ulteriori spostamenti di campo e sorprese per l’occhio, Comic Sans che si rivelano a sorpresa come Pokémon brillanti.
Sembra quasi, a tratti, di vedere versioni non-ironiche degli splendidi musicali di Bill Wurtz, che sul suo canale YouTube sviluppa da anni una delle manifestazioni più divertenti, brillanti e originali del postmoderno in musica-e-video.
Che poi, paroloni a parte, è un po’ questo il succo della questione: Vernon ha fatto una cosa incasinata di quelle che è bellissimo scasinare, un brodo di segni da suddividere in sapori a ogni immersione del cucchiaio, ma in modo comunque fruibile da chi se ne frega di farsi i pipponi che sorreggono questo pezzo. Nel linguaggio testuale-visivo di Vernon puoi leggerci di tutto: o anche niente.
Tipo, guardate il sole. Qua sopra, in “Holyfields,” è un quadrato che ha dentro altro cielo.
Qualche pezzo dopo, in “Jelmore”, è solo nero che copre il punto di luce del tramonto—un buco nel tessuto dell’universo.
E infine in “Salem” è una zucca. Quella che fa paura, di Halloween, delle streghe. Che vuol dire? Magari è la luce dell’intelligenza (1) che si svuota (2) e viene riempita dalla tendenza umana a cacciare le streghe (3)? E intanto l’umanità—i ballerini nello screen qua sopra—sorridono felici e ignari? Magari. O magari non vuol dire un cacchio, ma io ascoltatore/spettatore sto diventando parte attiva dell’interpretazione dell’opera, che non mi incanala in una narrazione ma mi permette di fare un po’ quello che cazzo mi pare. Ed è la libertà che solo i capolavori ti fanno provare.
Nel video finale, “RABi”, tutto si sovrappone e confonde. I simboli, font e colori di i,i diventano un pastrocchione. La musica, invece, è limpida e carezzevole—è una canzone di speranza, ha detto Vernon stesso:
“Ci sono parecchi motivi per cui sentirsi tristi e confusi ma anche molte cose per le quali essere grati. Appoggiarsi alla riconoscenza e all’apprezzamento delle persone che ti sono intorno e che contribuiscono a renderti quello che sei ti dà un senso di sicurezza e ti offre un rifugio in cui essere ciò che vuoi. C’è ancora questo slancio nella vita. Ne abbiamo bisogno. Abbiamo tutti pensato che fosse un bel modo per chiudere il disco”.
Ed è vero, perché una concessione alla narrazione tradizionale c’è: il lieto fine. Anche se ci sono Cerbero, il cancro, Donald Trump, il fuoco dell’inquinamento, l’avidità, il capitalismo, il disagio, il dolore, qualsiasi cosaccia, noi siamo ancora qua. Eh già. Che poi, per quanto è divertente risolvere rebus, rendersi conto della propria insignificanza e inventarsi righe che collegano i puntini, pure io sono felice se alla fine di un’opera—un libro, un film, un disco—sorrido.
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