Nell’ultima settimana c’è stata una vera e propria strage di braccianti sulle strade della Capitanata, nella provincia di Foggia. Lo scorso sabato, quattro persone sono morte in seguito a un incidente sulla strada provinciale 105. Lunedì, in una dinamica molto simile, i morti sulla statale 16 sono stati dodici.
Parliamo dunque di 16 lavoratori che hanno perso la vita mentre stavano tornando dalla raccolta di pomodori, stipati all’inverosimile in furgoncini fatiscenti. Il procuratore di Foggia Ludovico Vaccaro—che sta portando avanti due inchieste parallele: una per ricostruire la dinamica degli incidenti, e l’altra sul caporalato—ha dichiarato all’Ansa che “ne ho viste tante nella mia vita, però vedere 12 corpi più due feriti, stipati all’interno di un furgone, con mani e braccia spezzate, mi ha sconvolto.”
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Fatti tragici come questi hanno riacceso, per l’ennesima volta, i riflettori sulla situazione nei campi del Sud Italia. E come ogni volta, la politica ha promesso all’unisono “mai più.” L’altro ieri il presidente del consiglio Giuseppe Conte si è recato a Foggia e ha dichiarato che “dietro queste morti non c’è dignità, c’era un lavoro sfruttato e non c’era dignità. Dobbiamo fare in modo che questo non accada.” Matteo Salvini—che nemmeno in quest’occasione ha rinunciato a prendersela con “l’immigrazione clandestina”—ha invece promesso di “svuotare i ghetti” e detto che la legge contro il caporalato del 2016 “può e deve essere aggiornata.”
A tenere alta l’attenzione, nonché a denunciare le condizioni a cui sono sottoposti i braccianti, c’è stata inoltre la “marcia dei berretti rossi”—il copricapo usato per proteggersi dal sole mentre si raccolgono pomodori—organizzata dal sindacato Usb, capeggiata da Aboubakar Soumahoro e partecipata da centinaia di lavoratori. Nel tardo pomeriggio di ieri si è svolta un’altra manifestazione, indetta dalla Flai-Cgil di Foggia insieme a Fai-Cisl e Uila-Uil.
Al di là dell’indignazione estemporanea e strumentale della classe politica, il punto rimane sempre lo stesso: perché continuano ad accadere tragedie di questo tipo? La situazione è davvero immutabile e senza speranza? E di chi è, alla fine, la vera responsabilità? Per cercare di capirlo, ho sentito al telefono il giornalista Stefano Liberti—autore del saggio I signori del cibo e di numerose inchieste sul fenomeno—che da anni si occupa di questi temi.
VICE: Ciao Stefano. A parole tutti si scandalizzano per certe condizioni inumane di lavoro, ma in concreto sembra non cambiare mai niente. Quello che ti chiedo, dunque, è questo: si tratta di un’impressione fondata, oppure qualcosa è effettivamente cambiato in questi anni?
Stefano Liberti: La situazione nelle campagne rimane critica ma non è corretto dire che non ci sono stati cambiamenti. La prima cosa da sottolineare è che il fenomeno è sicuramente più raccontato, e molto più conosciuto dall’opinione pubblica, anche grazie al lavoro di eccellenti analisti come il caro amico Alessandro Leogrande, che ci ha lasciati troppo presto.
La seconda è che la legge sul caporalato del 2016 ha accelerato una tendenza, che già stava avvenendo: quella di passare dal lavoro in nero al lavoro “grigio”. Sia chiaro, lo sfruttamento rimane; però ormai la stragrande maggioranza delle persone impiegate nei campi ha un contratto d’assunzione. Il trucco è che poi l’imprenditore agricolo segna un numero di giornate inferiore a quelle lavorate e decurta così la paga del bracciante. Le fenomenologie sono diverse: c’è chi è pagato a cottimo, chi con un numero di giornate inferiori, chi in parte formalmente in parte al nero.
Quella che però tenderei a rifiutare è la retorica degli schiavi, che non giova a nessuno. I lavoratori nelle campagne sono sottoposti a condizioni durissime, ma non sono schiavi. Sono soggetti attivi che rivendicano diritti, come ha mostrato la marcia di ieri. Se li presentiamo solo come vittime, portiamo avanti una visione cristallizzata e falsa: l’idea che nelle campagne nulla è cambiato e nulla può cambiare.
Invece molto è cambiato: dopo lo sciopero a Nardò del 2011, i braccianti rivendicano diritti e sono molto più sindacalizzati, i contratti si sono moltiplicati. Questa lenta ma innegabile evoluzione è stata facilitata dalla legge sul caporalato, la 199 del 2016. Poiché questa prevede—nel momento in cui si ravvisano degli elementi di palese sfruttamento— sanzioni durissime come lo stesso sequestro dell’azienda, gli imprenditori agricoli sono più spinti a far emergere il lavoro nero.
Rispetto agli anni precedenti, infine, gli stessi sindacati hanno un atteggiamento decisamente più proattivo; con questo strumento in mano, infatti, hanno più capacità d’incidere nel momento in cui ci sono delle possibili vertenze.
E la situazione nei ghetti, che Salvini vorrebbe “svuotare”, è sempre la stessa?
Anche qui ci sono stati dei cambiamenti. Sebbene i ghetti—come quello di Rignano o Borgo Mezzanone—esistano ancora e siano affollatissimi, c’è una minore richiesta di lavoro; e questo perché la raccolta dei pomodori si sta avviando sempre più verso la meccanizzazione.
Non a caso, quando vai in questi ghetti ti accorgi che chi ci vive non è più legato alla prospettiva di domanda/offerta di lavoro. Si tratta invece di persone uscite dal sistema d’accoglienza o richiedenti asilo che hanno ricevuto un diniego e sono costretti a stare in “luoghi-limbo.” Quindi, questi posti non rientrano più esclusivamente nella dinamica dell’agricoltura, e sono piuttosto il risultato del sistema disfunzionale dell’accoglienza in Italia.
Tornando alla legge sul caporalato, approvata nel 2011 e rivista nel 2016, ritieni che sia sufficiente?
La legge del 2016 è molto diversa da quella del 2011, perché prevede la responsabilità in solido dell’azienda agricola che fa uso di caporalato, sottoposta in linea teorica al sequestro. Essendo una legge fortemente repressiva sia verso il caporale che verso l’azienda agricola che sfrutta i lavoratori, in questi due anni ha funzionato come deterrente, facilitando l’erosione del lavoro in nero.
Tuttavia, quello che era l’impianto propositivo della legge non ha funzionato minimamente. Parlo di quegli aspetti che porterebbero ad un effettivo superamento del caporalato. Il caporalato alla fine è un’azione di intermediazione fatta da soggetti terzi per mettere insieme una squadra a disposizione dell’imprenditore agricolo. In cambio di questo servizio e del trasporto delle persone dal luogo in cui vivono a quello in cui lavorano, questi soggetti – i caporali – prendono una provvigione.
La legge prevede il rafforzamento dei centri per l’impiego, nonché la creazione di elenchi della manodopera a cui attingere, di alloggi per i lavoratori stagionali e di meccanismi di trasporto dagli alloggi ai campi. Tutto ciò non è stato fatto per una serie di impedimenti burocratici, nonostante siano stati stanziati dei fondi dai vari ministeri verso le regioni e le provincie prioritarie (come quella di Foggia).
Al momento quindi il caporalato continua ad esistere in maniera evidente, proprio perché è il principale punto di incontro della domanda e dell’offerta. Il caporale, insomma, è figlio di questa disorganizzazione; e ha una funzione perché si sostituisce alle mancanze dello Stato.
Vorrei ora concentrarmi sul ruolo della grande distribuzione organizzata (Gdo). Che impatto ha sugli agricoltori locali, e di conseguenza anche sui lavoratori?
Negli ultimi anni la Gdo è diventato il principale canale di vendita dei prodotti alimentari. Basta pensare che il 70 percento degli acquisti alimentari sono fatti all’interno dei supermercati. Questo garantisce alle insegne della Gdo un potere notevole rispetto agli altri anelli della filiera—in particolare rispetto alla parte agricola che, a differenza di quella commerciale, è molto più frastagliata.
In sostanza è la Gdo a determinare il prezzo, e quindi ha un potere di “strozzatura” che ricade sugli imprenditori agricoli e sui produttori in generale. Ci sono tutta una serie di pratiche che impiega la Gdo, e che poi si vedono anche nei supermercati. La scontistica—cioè i prodotti “sottocosto” o in offerta, oppure i “3×2”—non se l’accolla la grande distribuzione, ma la proietta sui fornitori; e spesso lo fa a fine contratto.
Per intenderci: Io fornitore non ho il potere di gestire pienamente la mia impresa, perché magari la Gdo a un certo punto mi mette come norma capestro di un contratto che ho già firmato precedentemente una scontistica al consumatore. Tutto questo fa sì che la parte agricola—e quella di trasformazione del prodotto, che negli ultimi vent’anni ha perso parecchio terreno—debba sottostare alle condizioni imposte dall’alto, che variano da catena a catena ma che molto spesso sono vessatorie. Fino ad arrivare all’esempio estremo delle aste online al doppio ribasso.
A questo proposito, quello del “doppio ribasso” è un argomento di cui tu e Fabio Ciconte vi siete occupati in una recente inchiesta su Internazionale. In cosa consiste?
Il meccanismo è abbastanza semplice e al contempo diabolico. Abbiamo denunciato il caso di una recente asta del gruppo di discount Eurospin, che circa un mese e mezzo fa ha inviato una richiesta ai principali gruppi trasformatori del pomodoro, chiedendo di fare un’offerta per lotti di passata.
Eurospin ha così raccolto le varie offerte, e poi ha convocato una seconda asta su un portale dedicato, in cui la base d’asta era l’offerta più bassa fatta in precedenza dai vari gruppi. Per aggiudicarsi la commessa, dovevano continuare a ribassare il prezzo il più possibile. Chi se l’è aggiudicata l’ha fatto a 31,5 centesimi di euro a bottiglia, che è inferiore al costo di produzione.
Questo necessariamente porterà a risparmiare laddove si può risparmiare. Gli industriali cercheranno così di pagare di meno la materia prima, il pomodoro; e l’operatore agricolo, che avrà meno soldi per il pomodoro che produce, cercherà di rivalersi a sua volta sull’anello più basso della filiera: il bracciante.
Quindi, stringi stringi, gli unici a guadagnare sono proprio le imprese che fanno parte della Gdo.
C’è da sottolineare che nel caso del pomodoro le marginalità non sono nemmeno gigantesche, perché il pomodoro è quello che si chiama “prodotto civetta”: cioè un prodotto che ti vendo a prezzo bassissimo per farti entrare nel supermercato, ma poi magari compri altre cose.
Con un meccanismo del genere, si capisce, tutta la filiera ne risente e diventa disfunzionale. E quindi lo sfruttamento, il caporalato, l’iperlavoro e le paghe basse sono figlie di queste pratiche messe in atto dalla Gdo a monte. Dall’altro lato, nessuno innova perché non c’è la capacità di fare un tipo di lavoro diverso.
È anche per questo che il caporalato non va riferito solo alla parte agricola, ma dev’essere considerato in un approccio di filiera. Solo così si può effettivamente considerare appieno il fenomeno e agire su di esso, ridando al cibo—come il pomodoro, divenuto ormai una commodity—il suo giusto valore.
Perché, secondo te, la morte di questi braccianti riguarda anche noi consumatori?
Senza voler colpevolizzare chi va al discount, casi del genere dovrebbero invitarci a riflettere su alcune cose che ci impattano quotidianamente. Quando andiamo al supermercato e vediamo la scritta “sottocosto,” ci sembra del tutto normale. Ma su quel risparmio—che per noi è tutto sommato effimero—c’è sempre chi paga un costo.
E quel risparmio diventa un peso insostenibile per i prodottori, fa sì che la catena funzioni male e tutti si rivalgano verso il basso, finché non si arriva a chi non si può più rivalere: il lavoratore nei campi, che ha solo le proprie braccia e paga il prezzo più alto di tutti.