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A Brescia non si è mai combattuta una guerra con armi chimiche.
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Eppure, in città ci sono falde acquifere e terreni contaminati da una serie impressionante di agenti nocivi per la salute, in concentrazioni paragonabili – e a volte superiori – a quelle riscontrate in alcune aree del Vietnam — come ad esempio nel noto “sentiero di Ho Chi Minh,” che tra il 1960 e il 1975 l’esercito statunitense bombardò con 80 milioni di litri del cosiddetto “Agent Orange.”
Nel corso degli anni, diversi rapporti sulla città lombarda hanno rilevato una falda di 21 chilometri quadrati con acque inquinate da cromo esavalente e solventi clorurati, cinquanta chilometri di rogge e corsi d’acqua pieni di diossine e mercurio, e tonnellate di terra contaminate da arsenico, DDT e PCB (policlorobifenili) — molecole a base di cloro che, nel 2013, sono state inserite dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel “gruppo 1” dei cancerogeni certi per l’uomo.
Studi scientifici, inoltre, hanno messo in correlazione la presenza di queste sostanze con l’incidenza anomala e sopra la media di alcuni tumori, come cancro alla tiroide, alla mammella e melanoma. Sono anche state trovate diossine nel latte materno e nel sangue umano.
Tutto questo sarebbe il risultato degli scarti industriali e dei veleni rilasciati per 50 anni dalla “ex Caffaro,” uno stabilimento dello storico gruppo industriale omonimo che ha prodotto PBC per più di 50 anni, e che nell’ultima fase della sua esistenza ha fatto capo alla società chimica Snia, oggi in amministrazione straordinaria.
Si trattava dell’unico polo chimico in Italia ad avere prodotto le molecole di PCB. Lo ha fatto dal 1936 al 1984, dopo aver acquistato l’esclusiva sul brevetto della Monsanto. La sostanza è stata usata per decenni in svariati settori: fra gli usi commerciali più diffusi spiccavano quelli come isolanti termici ed elettrici, fluidificanti nell’idraulica e additivi nelle vernici e nei pesticidi.
La produzione di PCB è stata vietata in Italia nel 1983, dopo oltre 15 anni da un disastro ambientale in Giappone che provocò la morte di 1000 persone intossicate da riso contaminato da suoi derivati. La messa al bando della molecola a base di cloro da un lato portò al declino dello stabilimento Caffaro, dall’altro fu l’inizio di un’agonia che dura da decenni.
La storia di questo disastro ambientale a Brescia è nota da tempo, e la stampa italiana se ne è occupata a più riprese — nel 2013, ad esempio, la trasmissione Presa Diretta ha dedicato una puntata alla vicenda. Nel 2003, la Caffaro è addirittura diventata oggetto di una tesi di laurea dell’Università di Tampere, in Finlandia.
Il primo grande allarme mediatico sulla Caffaro risale al 2001. È in quell’anno che viene pubblicato il libro-inchiesta Un secolo di cloro e… PCB. Storia delle industrie Caffaro di Brescia, a firma dell’ex sindacalista e storico dell’industria Marino Ruzzenenti. Dopo anni di studi, lo storico racconta nei dettagli anni di silenzio da parte dei vertici dell’azienda, oltre l’atteggiamento di sindacati e politici lombardi.
Delle ricerche di Ruzzenenti si accorgono anche i giornalisti di Repubblica Carlo Bonini e Giovanni Maria Bellu. Il 13 agosto 2001, i due pubblicano un articolo significativamente intitolato A Brescia c’è una Seveso bis. Il riferimento è alla “Chernobyl d’Italia”: l’esplosione al reattore chimico dell’ICMESA, che il 10 luglio 1976 solleva una nube tossica di diossine sui cieli lombardi, provocando danni inestimabili a popolazione, flora e fauna.
Inevitabilmente, il racconto sui giornali della bomba ecologica innescata nel cuore di Brescia scatena una lunga scia di polemiche. In quello spicchio a sud della città a forma di “pera,” infatti, ancora oggi vivono 25.000 persone. Sempre in zona, inoltre, nel 1998 è stato completato un inceneritore che brucia in media 750mila tonnellate l’anno di rifiuti e biomasse. Dai primi anni duemila, alle famiglie è addirittura vietato camminare su qualsiasi area non cementificata.
L’inchiesta di Repubblica, comunque, spinge molti cittadini a riunirsi in comitati di protesta, attivi ancora oggi. Tuttavia, quello stesso articolo provoca anche delle resistenze; un atteggiamento che Marino Ruzzenenti – il quale da quindici anni prosegue nell’attività di denuncia attraverso il sito ambientebrescia.it e i report della Fondazione Micheletti – ha bollato come negazionismo.
“Negazionismo che non è ancora terminato,” spiega Ruzzenenti a VICE News, “perché il Direttore Generale della Asl di Brescia è Carmelo Scarcella, che all’epoca dei fatti era il Direttore sanitario. Io sono uno storico e mi sono accorto prima di loro dei danni ambientali. Ogni tre anni cercano di affossare questa vicenda che era scoppiata di nuovo dopo la puntata di Presa Diretta. La Asl è testarda e continua ad ignorare la contaminazione da diossine oltre a quella da PCB.”
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Nelle settimane successive all’agosto 2001 non si contano le interviste a politici locali, direttori generali e sanitari della Asl e professori universitari che minimizzano la portata di quanto scoperto a Brescia. Su molti di loro grava il sospetto del conflitto d’interessi: alcuni sono stati consulenti della Caffaro o di A.S.M., l’Azienda dei Servizi Municipalizzati che gestisce l’inceneritore per conto di A2A.
Molti negano l’equazione Seveso-Brescia sostenendo che i PCB non siano dannosi come le diossine. Altri sostengono che l’incidenza tumorale nell’area è da attribuirsi a comportamenti individuali, come l’abuso di alcol e sigarette — una spiegazione che, anni dopo, verrà avanzata anche dai vertici dell’acciaieria Ilva per giustificare i picchi di malattie intorno all’area di Taranto.
Ad ogni modo, le dichiarazioni più clamorose provengono dall’allora vicesindaco, l’avvocato Giuseppe Onofri, che parla di “terrorismo d’agosto e allarmismi ingiustificati” — come riportato dal Giornale di Brescia nel 2001.
Nel 2005 il Comune di Brescia sembra provare a sottrarsi ai doveri e ai costi di una bonifica, commissionando – secondo alcuni – un’analisi di rischio che alza i livelli accettabili di PCB nei terreni di 290 volte rispetto a quanto previsto dal Decreto Ronchi del 1999, l’ultima legge in materia.
Lo stesso Comune, inoltre, per anni non chiede ai vertici della Snia-Caffaro di partecipare alle operazioni di bonifica. Dal 1999, l’azienda è controllata dalla società finanziaria Hopa Spa di Emilio Gnutti e di altri personaggi passati alle cronache con il nome di “furbetti del quartierino.”
Si tratta di un gruppo di finanzieri e immobiliaristi che ha spadroneggiato nel capitalismo italiano di fine anni Novanta. A Brescia dovevano costruire un complesso residenziale proprio nelle aree limitrofe alla ex Caffaro. Gnutti e la Hopa Spa hanno versato contribuiti economici alla campagna elettorale dell’allora sindaco, Paolo Corsini, che oggi siede al Senato.
Nell’inattività della politica, i “furbetti del quartierino” scindono la Snia in due diverse società: la prima, sana e con i bilanci in attivo, prende il nome di Sorin; la seconda è una bad company che contiene lo stabilimento Caffaro e quello friulano di Torviscosa, entrambi pesantemente indebitati e da bonificare.
Da quel momento in poi chiunque avesse chiesto risarcimenti per i danni ambientali, o voluto utilizzare le risorse della Caffaro per bonificare i terreni, avrebbe trovato una scatola vuota.
La società “malata” è stata poi ceduta a prezzo di saldo dal commissario liquidatore alla Todisco di Pisa, nel 2011. Per l’intera operazione finanziaria è ancora in corso a Milano un processo a carico di Gnutti e soci, accusati di concorso in bancarotta.
Il 19 gennaio 2016 – per la prima volta – il Comune di Brescia si costituisce parte civile nel processo. Quest’ultima, sottolinea Ruzzenenti, è arrivata solo “dopo anni di pressioni da parte di un gruppo di avvocati e attivisti.”
Di inchieste della magistratura ne sono state avviate diverse, ma sono tutte finite con la prescrizione dei reati.
Secondo Ruzzenenti si tratta di “una follia giuridica: è come per la sentenza di prescrizione per il caso Eternit a Casale Monferrato. Qui c’è un problema insormontabile perché gli effetti di questi disastri si scoprono a decenni di distanza.”
Con l’aggravante che gli accusati possono sempre difendersi sostenendo che all’epoca era tutto legale. “In Italia i PCB non erano considerati fino al 1976. Addirittura la legge Merli non li contemplava nelle proprie tabelle nemmeno dopo il 1980, quando si scoprì che dalla Caffaro ne uscivano 10 chilogrammi al giorno,” spiega lo storico.
Nonostante il ‘negazionismo’, gli strani intrecci fra politica e finanza e le carenze legislative, i dati ormai parlano chiaro. Nel 2003 Il Ministero dell’Ambiente ha inserito la ex Caffaro nella lista dei Siti d’interesse nazionale (SIN) da bonificare. Oggi in tutta Italia i SIN sono 39, cinque di questi solo in Lombardia.
Ma quanti soldi stati spesi finora per mettere in sicurezza quell’area?
“Circa 13,5 milioni di euro. In parte utilizzati e in parte da utilizzare,” risponde l’ex sindacalista bresciano. “Sono serviti per spostare le terre in discarica e per iniziare i lavori di bonifica della scuola elementare Deledda e della scuola media Calvino, nel vecchio quartiere Chiesa Nuova. E poi per finanziare degli studi preparatori per la messa in sicurezza delle rogge.”
Questi però sono fazzoletti di terreno rispetto alle dimensioni reali, se si pensa che il Ministero dell’Ambiente ha stimato il danno complessivo subito dalla città in 1,5 miliardi di euro, circa 100 volte tanto.
Il punto, afferma Ruzzenenti, è che “nessuno sa cosa accadrà quando a breve il sito industriale verrà completamente abbandonato, anche dall’azienda che lo preso in mano nel 2011.”
L’azienda che adesso opera all’interno della Caffaro pompa milioni di litri d’acqua all’anno, per impedire alla falda acquifera di salire di livello ed entrare in contatto con i terreni avvelenati. Nonostante questo la falda, che alimenta corsi d’acqua e sistemi d’irrigazione per l’agricoltura, è comunque salita di 8 metri negli ultimi dieci anni, secondo l’Arpa.
La “guerra chimica” di Brescia, insomma, è stata rimossa dall’immaginario collettivo ma non si è mai conclusa veramente.
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