Música

Breve storia della musica che non ha bisogno di essere ascoltata

Proviamo a porci due domande. La prima: “Cosa succederebbe se associassimo la musica alla psicanalisi?” La seconda: “Qual è la prima cosa che ci viene in mente, se pensiamo a uno stile di composizione in grado di evocare sensazioni di impasse cognitiva che ci trasmettono totale introspezione?” Messe assieme, queste due questioni sembrano un binomio bizzarro e pretenzioso di un non specificato sperimentalismo, dai metodi a metà tra musicologia e trasversali studi sulla psiche umana di dubbia entità. Allora perché mai provare interesse in una trovata del genere, se intimorisce solamente a trattarla come veritiera?

Se lo saranno chiesti anche Erik Satie e John Cage, quale potesse essere la risposta, quando hanno portato al mondo un’ulteriore prova che non esserci è ancora più rilevante dell’ esserci troppo, anche sul versante sonoro.

Oggi, in realtà, sembrerebbe facile tirare le fila di un discorso del genere. Ci sarebbe la strada della rete, che ci fa ricostruire i come ed i perché, le gerarchie ed i concetti di tutte le idee musicali possibili sbarcati su questa terra, da Vivaldi a Sinatra, fino ai Pink Floyd e Beyoncé. Anche le storie più articolate possono essere comprese se trattate come realtà, contestualizzate in un modo che, con pochi click, ci apra gli occhi su cosa quell’arte e quell’artista volessero proporre. Ma sareste riusciti veramente a capire dove volevano andare a parere, se foste nati all’inizio del secolo scorso, artisti che divulgano musica concepita come antitesi della sua stessa parola? Difficile solo a pensarci.

La ragione per cui è possibile definire l’ambient music come una sorta di branchia psicanalitica dei generi contemporanei (dell’elettronica e della new wave, in modo particolare) è proprio nella ferma consapevolezza dei suoi fautori di non designarla come appartenente intrinseca alla sua arte, bensì a un corrispettivo metafisico della stessa. La definizione evoca immediatamente Brian Eno, colui che viene comunemente designato suo “padre fondatore”, tessitore dei fili del suo sviluppo in larga scala a fine anni Settanta. Però c’era stato dell’altro, una fase primordiale che fece proprio le sue fortune, decenni dopo, ma di cui non sempre ci si ricorda.

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Un’esempio della musique d’ameublement di Satie.

Erik Satie, con la sua musique d’ameublement (letteralmente “musica d’arredamento”), studiò negli anni venti del Novecento componenti strutturali tanto complesse quanto suggestive, partendo dalla desaturazione di ogni “plus”. Musica come un colore, una tinta, una luce, che è lì ed è regola, abitudine sapere che ci sia, ma che non entra a far parte della nostra percezione in maniera totalizzante, estrema, magari anche disturbante. Il rumore che riempie le nostre giornate (la città, le folle, i mezzi) era per Satie l’idea di atmosfera di un brano, l’ happening da mettere al centro della scena—nonostante per sua stessa volontà andava immaginato da sfondo, in un gioco delle parti provocatorio (si raccomandò anche che durante l’esecuzione dei brani che aveva sperimentato, per alcune esibizioni, la gente non ascoltasse con attenzione, ma continuasse a percepire distrattamente).

L’over-intellettualismo che condizionava un’idea del genere era, a conti fatti, una posizione molto più trasparente e nitida del consueto pensiero musicale. In superficie ogni elemento netto e concretamente attendibile svanisce, e rimane all’orecchio dell’ascoltatore la scelta di perseguire il suo sviluppo. Nella metodologia più comune, al contrario, tutto è enfatizzato e messo in mostra senza lasciare che l’attenzione possa carpire questo o quell’altro indirizzo d’assunzione—la penetrazione emotiva di un suono nella nostra ricezione è data per scontata. L’incertezza e il dubbio, in sintesi, sono la forza dell’happening sonoro, come nell’aleatoria acustica.

Che cos’è l’aleatoria acustica? Il fisico e studioso di acustica sperimentale belga Werner Meyer-Epplerm, durante i Corsi estivi di Darmstadt negli anni Cinquanta, intendeva aleatorio “un processo dallo sviluppo stabilito nelle linee generali, ma dipendente dal caso nei suoi dettagli”. John Cage, intricato già da decenni in una sperimentazione di questo tipo, stava portando tale concetto a uno stadio ancor più estremo: il silenzio, fotografato nella sua immortale 4’33” (di cui oggi è presente addirittura un’installazione dedicata al MoMA di New York, per dire). Un tabù per chiunque ci abbia messo piede, perché qualsiasi pubblico di qualsiasi epoca ha sempre avuto bisogno di spiegazioni, mentre ascolta. Come se esistesse un vocabolario, che traduca istantaneamente le emozioni che una composizione sta esponendo, che intervenga da interprete tra autore e fruitore.

Niente di tutto questo, se la musica diventa assente. Il rumore, la casualità degli eventi e il loro sottofondo si integrano alla composizione. Da qui il concetto di aleatorietà: ridare ai suoni un ruolo da protagonista, seppur a corredo di un linguaggio appositamente fuorviante, mai congeniale persino all’artista materiale che fa da tramite. In questo modo il distacco da una cornice di comprensione essenziale verrà acutizzato, ma sarà proprio il suo pregio più grande, la sua firma, come nel Dadaismo e nell’Impressionismo a cui Cage e Satie si ispirano.

Hosianna Mantra dei Popol Vuh, 1972.

Cos’ha fatto Brian Eno per portare tale utopia ad un livello più popolare e comprensibile? Nulla, apparentemente, che non avessero già messo in pratica i suoi predecessori. Eppure delle cospicue differenze, con la totale diffusione dell’ambient, nacquero eccome. L’alea di John Cage si trasferisce da progetto compositivo a interazione sonora: il dogma non è fare sensazionalismo con elementi che non esistono, ma concentrarsi sulla narrazione della struttura a più ampio raggio. Negli anni Settanta stava prendendo corpo la musica cosmica, un’espansione sonora della scuola tedesca di Stockhausen che si approcciava alla tecnologia combinando insieme elementi mai sentiti prima: Tangerine Dream, Klaus Schulze e Popol Vuh, Cluster, tra gli altri, anticiparono la new age e le derive elettroniche della musica pop degli anni a venire.

Il synth acquisisce in questa storia un ruolo cruciale, che è il crocevia alla consacrazione dello stesso Eno. Come premeva affermare l’artista britannico all’epoca, si trattava di uno strumento dalle combinazioni potenzialmente infinite, senza una storia, una concezione e un metodo già tramandato e imparato per secoli alla stessa maniera, come il pianoforte. Erano aperte le sensazioni in attuazione e ricezione, non era possibile stabilire cosa funzionasse e cosa meno, ma inventare da zero nuovi mondi. Dalla forza di una tale verità era possibile enfatizzarne le caratteristiche e far diventare l’elettronica il nuovo pop (avrete sentito parlare dei Kraftwerk) o, in alternativa, rivelarne le capacità meno sadiche, scrivendo il capitolo successivo all’intuizione del foreground inesistente. In primo piano non il mezzo ma le sue risorse, a partire dall’alterazione dell’ascolto e la ricollocazione della sua velleità. Insomma, Satie insegna.

In qualche modo, pur manipolando con le onde sonora in maniera astratta (come, tra gli altri progetti, in Oblique Strategies ), il distacco che si segnerà con Cage è la progressiva rimozione di un certo nichilismo, di una certa rigidità di teoria. Per Eno ambient è atmosfera libera, è creazione del mood e di potenziali generativi senza soluzione (che anche attualmente rimangono suoi marchi di fabbrica, come l’app iOS appositamente ideata per il suo ultimo album, Reflection, che consente infiniti ascolti, sempre diversi, dello stesso album). Per lui, la musica che sperimenta è stata fuorviata per musica che “controlla” e “si organizza” in maniera calcolata, e per dimostrare che le intenzioni fossero invece proprio l’opposto (indeterminatezza come fattore e non difetto) calca la strada di una metafora destinata a durare: un brano che non si configura da sé, ma che lascia all’ascoltatore la facoltà di determinarne la natura.


La responsabilità di collocare background e primo piano non è dell’autore (déjà vu, anche in questo caso?), si trova dall’altra parte. Questa netta virata avvenne dopo aver composto album di successo delle più svariate tipologie di musica (specie nel rock di quegli anni), ma tutt’oggi il compositore ama considerarsi un musicista “improvvisato”, a cui piace provare qualsiasi connessione artistica. Nel 1975 escono in sequenza Another Green World e Discreet Music, che segna definitivamente l’inizio di una nuova era: l’ambient si presenta come un’esperienza estetica inedita, un racconto destrutturato su cui scorrono immagini, paesaggi sonori, registrazioni ambientali. È il continuum dell’alea e della musica d’arredamento che ha bisogno di raccontare storie nuove in epoca moderna.

“1/1” di Brian Eno, brano d’apertura di Ambient 1: Music for Airports .

Arriva una serie di album intitolata esplicitamente con quella dichiatazione d’intenti, “ambient”, corredata da un manifesto apposito al loro interno (a partire da Ambient 1: Music for Airports del 1978). Quel linguaggio che lavora per ripetizione e sottrazione, senza punti di riferimento, diventa genere e suona come il futuro: «tanto ignorabile quanto è interessante». È il punto di non ritorno, da cui attingeranno a piene mani gli artisti dell’elettronica colta, “intelligent” negli anni Novanta (da cui la variante “ambient techno”, tra le molteplici definizioni).

L’utilizzo della voce è ormai sample-oriented (se non inesistente), come nel futuro (ma lui, quarant’anni prima, non poteva saperlo). Si dissolve, man mano, la canonica forma cantata. Essenziale è sfruttare tutte le sfumature, come un pittore. Non è necessario focalizzare dei punti e delle chiavi fisse, il suo scopo è la sua evoluzione, è far diventare il suono un “luogo”. Se dovessimo paragonarlo al cinema d’autore, è il ruolo del regista che lancia segnali qua e là, che infittisce la trama e costella di avvenimenti più o meno importanti la sceneggiatura; alla fine spetterà a chi è dall’altra parte dello schermo interpretare come meglio crede il disegno degli eventi.

Da una tale portata innovativa si susseguirono articolazioni più o meno vicine a livello stilistico, come downtempo, chill-out, trip-hop, con artisti come Massive Attack, Portishead, Moby. Musica che ad oggi ha come comune denominatore l’analogia col “rilassamento” e la distrazione. Presto detto, bisogna tornare al link con quanto detto prima, per capire perché la reazione che spontaneamente suscitano questi modelli è proprio quella.

Di recente Eno ha dichiarato, per mezzo del suo solito metaforico linguaggio, come il musicista moderno sia da considerarsi come un giardiniere; l’esempio che proviene dalla musica del passato, invece, è l’architetto. L’architetto fotografa in mente la struttura di un edificio, ne calcola meticolosamente ogni centimetro, sa già esattamente cosa gli servirà e in che modo dovrà agire. Il giardiniere pianta i semi in giardino e aspetta che succeda qualcosa: dà degli input alla natura e cerca di variare il corso degli eventi, ma nulla di quello che accadrà dopo la sua azione è preventivabile. Ecco, se avete capito il personaggio e il suo modo di intendere l’arte, siete pronti per un trattamento psicanalitico gratuito, mettendo su un po’ di ambient nel vostro stereo.

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