Tra i 12 e i 14 anni avevo la pessima abitudine di scrivere sui muri della mia camera da letto usando i pastelli a olio che mi avevano fatto comprare per le lezioni di arte a scuola. Ogni centimetro della mia piccola cameretta era ricoperto di frasi di altra gente. Citazioni dai romanzi di Chuck Palahniuk seguivano i battiscopa, l’intero monologo di Mercuzio sullo scopare da Romeo e Giulietta ricopriva la porta e testi di canzoni si facevano spazio serpeggiando sulla libreria e in mezzo ai mille fotogrammi stampati da Queen of the Damned attaccati al muro. Era totalmente terrificante, tipo The Shining—ma invece del bambino col caschetto biondo c’ero io con il mio mullet alla David-Bowie-nella-parte-di-Jareth-re-dei-Goblin. Ho passato un po’ di tempo a casa ultimamente e ho fatto ordine in mezzo a tutta la roba che ho ammucchiato nel garage di mia nonna, dove oggi riposa quella libreria, carica di un’intera polverosa collezione di VHS e, lasciate che ve lo dica, è totalmente ricoperta—e intendo proprio glassata, tipo fondotinta su viso di Kardashian—di testi dei Bright Eyes.
La mia esperienza come fan dei Bright Eyes è stata estremamente solitaria, il che suona malissimo ma è stata una questione di circostanze. Io sono cresciuta con internet nei primissimi anni Zero, il che significa che, come tutti, le mie amicizie si formavano sui social media tramite comunanza di interessi. “Preferisci Letting Off the Happiness o Fevers and Mirrors?” non è il tipo di conversazione che avevo con gli altri dodicenni della mia scuola a Rhondda Cynon Taff, nel Galles del Sud. Una volta, un’amica con cui usavo scambiarmi CD compilation autoprodotte prese uno dei miei auricolari per sentire cosa stavo ascoltando e resistette per circa tre secondi di “Padraic My Prince” prima di fare la faccia schifata e lanciare l’auricolare sul banco come se fosse infetto. Ecco qual era l’atmosfera. Crescendo finii per entrare nella scena emo del posto, tra Funeral For A Friend e The Blackout, in cui i legami si stringevano grazie ad affinità musicali e sbronze colossali. All’inizio, però, c’eravamo solo io e la mia connessione a 56k.
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Non saprei dire quale sia stata la prima canzone dei Bright Eyes che ho sentito, o quando sia stata la prima volta che ho visto una foto di Conor Oberst – fondatore e autore principale della band oltre che volto di una generazione di ragazzini introversi con la felpa con il cappuccio. Quello che ricordo è il colpo allo stomaco che sentii, sopraffatta da un senso di conferma. Nel mio cervello in via di sviluppo pensieri come quelli si formavano sempre più spesso: vaghe elucubrazioni su lussuria e morte; domande come “perché sto sempre male” e “qual è la vera ragione per cui siamo al mondo” che ero troppo spaventata e impreparata per pronunciare. Ora queste si presentavano davanti a me chiare come in uno specchio. Ancora meglio: venivano da una voce che potevo riconoscere come mia. Ogni artista in cui mi ero identificata prima di allora nella mia breve vita apparteneva ai miei genitori, o era morto. Finalmente, ecco qualcuno che aveva pensieri simili ai miei, che suonava come un Bob Dylan per una generazione il cui compimento della maggiore età collettivo avvenne su LiveJournal, e sembrava uscito da una classe dell’ultimo anno della mia scuola. Aveva canzoni che comunicavano perfettamente la fatica e la disperazione collegate alla depressione profonda; aveva canzoni che comunicavano perfettamente la rinnovata leggerezza di quando la coltre di depressione si alza; aveva canzoni che parlavano di ossessioni e sesso e di sentirsi completamente esausti verso ogni cosa. Ogni sentimento che non riuscivo a controllare o a capire era già stato identificato e sviscerato in un modo che mi aiutava a raccapezzarmi nonostante la mia scarsa esperienza di vita durante l’adolescenza; ma la loro importanza non ha fatto che crescere insieme a me.
È raro che la musica che ascolti crescendo sia in grado di scatenare la stessa reazione in te per tutta la vita. Per esempio, Three Cheers For Sweet Revenge dei My Chemical Romance spaccherà per l’eternità, ma la mia comprensione del disco da adulta è certamente più focalizzata sull’energia che sul contenuto lirico. Se l’ascoltassi per la prima volta adesso, a 28 anni, non penserei sicuramente: “Oh cacchio, neanch’io sto tanto bene! Questo qua mi capisce!!!” Ma non è questo il caso dei Bright Eyes. Non so se questo dipenda più dalla musica o dalla mia testa—alcune delle vecchie canzoni (“Weather Reports“) sono invecchiate senza dubbio meglio di altre (“Lover I Don’t Have To Love“)—ma c’è una rara qualità senza tempo nel songwriting di Oberst che fa loro superare ere e target d’età. Racconta storie che tendono a ripetersi e articola lotte che non sono del tipo di cui ci si libera col tempo, o di cui ci si libera del tutto. Inoltre c’è il fatto che nessuno dei loro album è particolarmente legato ai trend musicali che dominavano nel periodo della loro uscita e non è mai stato considerato “fico” ascoltarli. Essere fan dei Bright Eyes voleva dire portare la sciarpa d’estate e passare le serate a photoshoppare testi che parlano di sentire la mancanza di qualcuno sopra una foto promozionale sovraesposta di Conor Oberst con l’aria disperata e poi caricare il tutto su Photobucket per poterlo embeddare su Myspace.
Fino a che non uscì “First Day of My Life” nel 2005 e non raggiunse la posizione più alta della Billboard Hot 100 a forza di migliaia di vlog con proposte di matrimonio, lo stereotipo del fan dei Bright Eyes era di solitari introversi che passavano il tempo a piangere su un letto di foglie cadute fantasticando di autodistruzione (nella prima versione di EmoGame, Conor Oberst e Tim Kasher accettano di unirsi all’avventura dietro la promessa di alcol gratis). Una persona con la t-shirt dei Bright Eyes era come un cane con la pettorina catarifrangente che per segnalare un temperamento nervoso. Siamo una categoria facile da odiare a pelle, perché il denominatore comune dei fan dei Bright Eyes è di provare un sacco di sentimenti riguardo a qualunque cosa. Un mio buon amico una volta disse, più o meno: “Non sopporto la sua musica, ed è un peccato, perché è uno dei miei poeti preferiti”.
Forse ha a che fare con il songwriting di Oberst e il fatto che sia emotivamente sincero in un modo che la gente trova sempre meno attraente mano a mano che si allontana dalla pubertà; forse ha a che fare con la stessa età di Oberst a quei tempi—Fevers and Mirrors uscì che aveva soltanto vent’anni; forse sono gli atteggiamenti teatrali, le finte interviste attaccate in fondo a un album, le immagini ricorrenti e le metafore senza fine—ma la gente fa molto presto a giudicare male i Bright Eyes. Sono visti come adolescenziali, una band che ci si lascia inevitabilmente alle spalle, come una maglietta degli Hellogoodbye taglia Youth Medium o il non mangiare olive. A questo rispondo: nah.
Semplicemente, li adoro. Adoro il modo in cui la voce di Conor Oberst fatica a sostenere una nota senza tremare come una mano in una notte di neve. Adoro quando qualcuno va totalmente FUORI alle percussioni e lo senti nei muscoli, come un massaggio Shiatsu per le emozioni (vedi: “A Perfect Sonnet”, “Take It Easy (Love Nothing)”, “The Calendar Hung Itself”). Adoro i suoi pesantissimi richiami continui a orologi e fantasmi, adoro il momento in cui “I Believe In Symmetry” ha quella svolta grandiosa a metà pezzo, e adoro questo video ultra semplice di lui che suona “Lua” al Coachella. Ma soprattutto, adoro il fatto che i Bright Eyes mi lasciano senza parole.
Come persona la cui intera esistenza è basata sull’analizzare ogni secondo e vivere nel passato e tutte quelle cose poco sane che il finto account di Chance the Rapper ci ha consigliato di smettere di fare, si tratta di una rara benedizione. Quando mi sento particolarmente male—tipo da friggere un’intera busta di pepite di pollo e mangiarle a letto e addormentarmi con la testa vicina al piatto—non c’è parola che io riesca ad articolare. È fisicamente impossibile per me mandare un messaggio o rispondere, e poi mi arrabbio perché nessuno mi capisce perché se mi capissero sfonderebbero la porta e verrebbero a salvarmi dalla tomba di pepite che mi sono scavata. Un consulente di terapia cognitivo-comportamentale una volta mi ha chiesto di tenere un diario del mio umore, per tenere traccia dei miei su e giù, e durante i down il massimo che riuscivo a scrivere era “ugh”, seguito da una serie di scarabocchi senza senso, prima di strappare la pagina. Perdo completamente la capacità di raccapezzarmi nel caos e distinguere cause da effetti; tutto si raggruma in una schiacciante massa di sensazioni, impossibile da scalfire.
I Bright Eyes prendono quella stessa massa soverchiante e in qualche modo le danno una forma. Certo, c’è una bella fetta di canzoni che parlano di cuori spezzati e ogni tanto una strana e inquietante storia che parla dell’annegamento di un fratellino inventato come metafora di una relazione, ma una porzione sostanziale della loro discografia—Digital Ash in a Digital Urn, in particolare—parla semplicemente di essere vivi e di quanto può essere difficile. Ho visto Conor Oberst suonare il mese scorso, e si può dire che io mi sia perso tutto quello che fatto tra Cassadega (2007) e la sua uscita più recente a suo nome. Quando ha suonato “Something Vague”, però—un pezzo che parla (sorpresa!) di depressione e alienazione tratta da Fevers and Mirrors (2000) che ha descritto come quasi “troppo vecchia”—ho sentito un peso nello stomaco esattamente uguale alla prima volta che l’ascoltai. A quei tempi, mi sembrò significativa perché dava un senso a quella solitudine e confusione che la pubertà e i miei emergenti problemi mentali mi stavano facendo provare. Era speciale, perché pensai—con grande naïveté alla Holden Caulfield—che la mia tristezza fosse speciale. Ora sembra significativa perché comunica quella noia estrema, quella mancanza di linfa vitale che porta la depressione, che succhia via ogni scopo dalla realtà e allo stesso tempo carica ogni manifestazione immaginaria (film, sogni, fantasie) di una bellezza estrema, per il semplice scopo di offrire una fuga. La depressione sarà sempre pesante e priva di forma, come la nebbia che piano piano invade il porto—”una cosa vaga” è la descrizione più accurata che la maggior parte delle persone riusciranno mai a darne. Canzoni come quella potranno anche colpire più forte durante l’adolescenza, quando ti rendi conto di certe cose per la prima volta, ma non rimangono nel passato. Semmai, crescono insieme a te.