Foto per gentile concessione di Bruno Belissimo.
Ok, siamo finalmente in maniche corte. È quasi ora di strafogarsi mille cocktail, infilare il costume da bagno e cercare la prima festa in piscina disponibile. Bruno Belissimo questo lo sa, ed è per questo che il 20 aprile lancerà il suo omonimo album di debutto come una secchiata d’acqua fresca sulle vostre facce abbronzate (non tenete il cellulare in tasca). Composto da nove pezzi che coniugano in vari modi modi il concetto di groove, l’album è una discesa senza soste lungo lo scivolo acquatico della italo-disco e del funk, passando per influenze lounge, jazzate e space, in un equilibrio perfetto tra elettricità “vintage” ed elettronica di adesso.
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Bruno è cresciuto in Canada da una famiglia italiana, e passa il suo tempo facendo il bassista in vari progetti e producendo i propri dischi a un ritmo da maniaco. Gli abbiamo telefonato per parlare di disco music, di turismo e del lato oscuro della festa.
Ascolta l’album in anteprima e leggi l’intervista qua sotto. Potrai ordinare Bruno Belissimo in digitale a partire dal 20 aprile sul sito di Locale Internazionale. Non pederti la presentazione dell’album live venerdì 22 aprile a Bologna.
Noisey: Ciao Bruno, come va? Sei in giro a suonare?
Bruno Belissimo: Tutto bene, grazie. Sono ancora a casa per adesso, mi sto preparando per il tour che seguirà l’uscita del disco.
La prima domanda è ovvia: ma Bruno Belissimo è il tuo vero nome?
Certo! Perché, come dovrei chiamarmi?
Figurati, è un nome belissimo. ¯\_(ツ)_/¯
Nel disco si sentono influenze extra-musicali molto interessanti. A un certo punto compare un dialogo preso da un film di Lucio Fulci, e più in generale si sente una certa atmosfera non solo cinematografica, ma anche televisiva (Pamela Prati!). Che cosa ti ispira?
La cosa di Pamela Prati viene da una mia fissazione con la parola “suavecito”. Come tante soubrette anche lei ha avuto il suo periodo italo disco, chiaramente orribile, e in uno dei suoi pezzi (“Menealo”) dice la parola “suavecito”. Per cui ho deciso di inserirla nel disco. Poi sono un appassionato di b-movie e in generale di grandi flop commerciali del cinema italiano. Ci sono cose, come i vecchi film di fantascienza italiani, che sono andate perdute. Mi piace andare a scovare queste cose e usarle dando loro un significato diverso. Per esempio, in “La Violenza” ho pensato di decontestualizzare questa frase cattivissima e metterla su una musica totalmente opposta, solare e allegra. Quindi sì, c’è sicuramente un’influenza cinematografica sul mio lavoro, e forse anche televisiva.
Tu sei cresciuto in Canada. Avevi già questa passione per il cinema e la TV di casa nostra quando abitavi là?
In realtà mi sento molto più orgoglioso delle mie radici italiane quando mi trovo lontano dall’Italia. Questo credo che succeda a quasi tutti quelli che vanno ad abitare fuori, lo riscontro in tutti i miei amici che abitano in Inghilterra o in Germania. Poi quando torni qua, dopo una settimana dici “basta”. Soprattutto in Canada, più che negli USA, c’è un amore incondizionato per l’Italia. Ovviamente l’idea che i canadesi hanno dell’Italia è più o meno ferma al 1956, un po’ stereotipata. Quando stavo là apprezzavo molto di più il mio background italiano, infatti la mia ricerca è iniziata là. Qua ci siamo dimenticati tutto ormai.
Infatti è proprio vero che la passione per “l’italianità” spesso colpisce all’estero. C’è meno imbarazzo per le proprie radici.
Forse è imbarazzo, forse è anche che qua in Italia si danno per scontate certe cose. Non è che non ci siano critiche verso l’intrattenimento italiano all’estero, assolutamente. Ma ci si rende conto che certe cose sono da preservare, o perlomeno da riconoscere. Tornando alla musica: la disco, l’horror disco, queste cose qua, sono più famose all’estero! Anzi, all’estero si ispirano all’Italia, pensa alla disco scandinava. Io l’ascolto moltissimo, ed è un genere molto preciso, per carità, ma i riferimenti sono chiari e puntano all’Italia degli anni Settanta, tipo Beppe Loda. Ricordo di aver letto un’intervista in cui Lindstrøm cita proprio Beppe Loda tra le sue influenze. Tra l’altro l’ho conosciuto, è un personaggio incredibile. Discoteche della provincia di Brescia come il Typhoon, per esempio, hanno creato un genere, che loro ai tempi chiamavano afro, ma che in realtà era funk, disco-funk.
Ma il tuo progetto non è solo revival, giusto? Perché nonostante le influenze riconoscibili, i suoni sono piuttosto moderni.
Guarda, sono anni che non ascolto nulla che sia uscito prima del 1989. Non ce la faccio ad ascoltare la roba troppo vecchia, i suoni mi danno fastidio. Non è che non ne riconosca il valore, i classici sono pur sempre i classici, ma non riuscirei mai a fare un disco di puro revival. Credo che quello che faccio sia una naturalissima rielaborazione, ma non mi sognerei mai di andare a ricercare quel suono. Anche perché il modo di produrre è completamente cambiato, non saprei nemmeno come ricrearlo.
A proposito della produzione, dal punto di vista tecnico questo è un disco molto suonato, o sbaglio?
Credo che nel mondo musicale di oggi ci sia una grande divisione: se sei un DJ ti approcci alla produzione in un certo modo, ma se vieni dal mondo live come me, che ho sempre suonato in band, il tuo approccio è completamente diverso. Volendo puoi fare tutto con un computer, hai solo l’imbarazzo della scelta. Ma io ho voluto fare in un modo diverso: ho scelto un numero limitato di suoni, e ho cercato di fare tutto con quelli. Se ascolti il disco, sentirai che i suoni sono sempre gli stessi: il lead, i fiati, il basso. Ho voluto ragionare come una band: “ok, ho questa tastiera e userò soltanto questa”. Sono quattro o cinque elementi che si combinano, come in una band. Un chitarrista ha un ampli, qualche pedale, e una chitarra, e con questi strumenti deve tirare fuori tutte le canzoni. Poi a livello di produzione è pur sempre musica elettronica, e il disco è stato rielaborato nel mio studio. Però io ho suonato il basso e le chitarre, mio fratello gemello mi ha aiutato con le percussioni, e poi ho voluto una sezione fiati vera per dare un’aria che si staccasse un po’ dalla musica elettronica, e ho registrato il sax con Gaetano Santoro, ex sassofonista di Roy Paci.
Quindi immagino tu sia molto interessato anche alla dimensione live.
Ho già programmato un po’ di date. Sarò da solo, quindi sarà un live set piuttosto elettronico, ma anche molto suonato; userò basso e percussioni, perché non sono un amante dei set di musica elettronica pura. Penso a John Hopkins, di cui ho consumato i dischi, è uno dei miei producer preferiti, ma dal vivo mi annoia. Il disco l’ho già sentito, capisci? Vorrei fare un live più da one-man-band.
In quest’ottica, quali sono i posti in cui ti senti più a tuo agio? La discoteca, il festival, la festa in piscina?
Cerco di essere il più elastico possibile. Molto spesso i live sono molto programmati, chiusi, difficili da modificare secondo le esigenze del pubblico. Nel mio caso, invece, vorrei essere in grado di adattarmi a diverse situazioni. Dato che spesso suono in locali live, non discoteche, cerco di avere un approccio differente, perché lì la gente non si aspetta di vedere soltanto un tizio dietro un tavolo. D’altra parte, la musica che faccio è disco, è fatta per essere ballata, quindi mi sento molto a mio agio anche davanti a un dancefloor.
Dietro alla patina festaiola del disco, si percepisce una certa oscurità. Ad esempio, “French Riviera”, nella sua atmosfera di divertimento totale, si porta dietro un nonsoché di inquietante, come se qualcuno stesse per cadere, ubriaco, dallo yacht e farsi veramente male…
Sono un grande appassionato di turismo. Nel senso che quel tipo di turismo, da resort, mi affascina e mi repelle. Dico, ma che senso ha viaggiare in quel modo? Tutte le volte mi stupisco di questa superficialità, la si vede dappertutto. In quella canzone ho proprio voluto, andando a riprendere il classico stereotipo della riviera francese, parlare di questo. La mia è una visione estremamente negativa. Il disco è pieno di questi stereotipi dalla doppia faccia, nel senso che anche il sole, il mare e la spiaggia, queste cose, sono tutte cose che hanno anche un lato negativo, che mostra la superficialità di certa società, soprattutto europea. È anche un immaginario storicamente fuso con la disco e con l’Italia. Se pensi all’Italia, ti immagini anche ‘sta roba. C’è un gioco di specchi in cui, sì, ci divertiamo tutti, però ci chiediamo anche “ma che cosa stiamo facendo?!”.
È un disco che parla molto di viaggi.
Ascoltando le canzoni forse non si percepisce, ma ognuna ha un tema. Per esempio, “La Violenza” parla della comunicazione moderna. La frase “Solo la violenza paga”, è una cosa che io non penso, però rappresenta il fatto di mettere, per esempio, la pubblicità prima del video di un attentato terroristico su Internet. “Pastafari” contiene anche l’audio di un rituale pastafariano, che è una cosa che apprezzo molto per il suo intento satirico verso la religione organizzata. “5000 Anni Luce” è partito dal video di una guida turistica cingalese che spiega la storia di un bassorilievo tramite assurde teorie pseudoreligiose sugli alieni. Non so se si è capito che mi piace prendere un po’ in giro le religioni.
Che altri progetti hai per il futuro, oltre al tour?
Non mi va di ragionare come una volta, disco-un anno di tour-altro disco, perché mi annoio facilmente. Quindi ho già finito di registrare un nuovo EP. L’idea di aspettare un anno di “promozione” per poi mettermi a lavorare di nuovo in studio mi rompe davvero le palle, io continuo a comporre sempre. Mi piace lavorare su concetti chiusi, come per questo disco. Tradizionalmente si parte da, metti, trenta canzoni e poi si scremano quelle che non si vogliono utilizzare. Io no, ho iniziato con quelle nove e le ho portate fino alla fine, lavorando al disco nella sua interezza. A me piace lavorare in questo modo. Per questo ho già finito il prossimo EP, mancano solo il missaggio e il mastering. Non aspetterò di sicuro il canonico anno.