Cibo

Essere vegani nell'Italia degli anni '80 era molto diverso da oggi

Non esistevano prodotti vegani confezionati, quindi riscoprivi un sacco di piatti della cucina povera. E l'attivismo era al centro di tutto.
Alessandro Pilo
Budapest, HU
JT
illustrazioni di Jurio Toyoshima
essere vegani negli anni 80 e 90

Nato nel secondo dopoguerra nel Regno Unito da una costola dell’associazione The Vegetarian Society, il veganismo per decenni è stato considerato una frangia minoritaria dell’animalismo, più estremista e intransigente. Tuttavia negli ultimi anni anni la curiosità e l’interesse verso questo stile di vita è aumentato notevolmente, il che ha permesso di superare molti stereotipi e far conoscere i benefici sociali, ambientali e per la salute di una dieta totalmente vegetale, oltre a quelli ovvi legati alla riduzione della sofferenza animale.

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Secondo l’Eurispes, nel 2022 l’1,3 percento della popolazione italiana si dichiara vegana, un dato in diminuzione rispetto al record del 2016 in cui si arrivò al 3 percento. Resta comunque il doppio rispetto al 2014, quando chi seguiva una dieta senza derivati animali si aggirava sullo 0,6 percento. Essere vegani sembra popolare soprattutto tra i giovani—quasi il 5 percento degli italiani nella fascia 18-24 anni si dichiara infatti tale. 

Pur essendoci ancora da fare molta strada, nel nostro paese seguire questo stile di vita è diventato più semplice. Decisamente diversa è stata l’esperienza di chi ha abbracciato questa filosofia al suo arrivo in Italia tra gli anni Ottanta e Novanta. VICE ha chiesto a tre pionieri del veganismo in Italia di raccontare quali sono state le principali sfide e soddisfazioni di quell’epoca.

Loredana Jerman ha 62 anni e ricorda perfettamente il suo incontro con il veganismo. “Avvenne all’estero intorno al 1989, con un paio di animalisti friulani eravamo ospiti di un gruppo attivista inglese,” racconta a VICE. “Noi eravamo tutti vegetariani e partimmo con le nostre scorte di formaggi, temendo che ci presentassero bacon a colazione. Invece loro erano vegani, ci fu data una lunga spiegazione sui metodi di allevamento che ci fece letteralmente cadere dalle nuvole, erano cose che non sapevamo o a cui non avevamo mai pensato. Al ritorno in Italia eravamo diventati vegani anche noi.”

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Secondo Loredana, l’Italia al tempo era molto indietro con le alternative vegane, “gli unici biscotti disponibili erano i McVitie’s digestive, li vendevano solo negli Autogrill e si andava lì a farne scorta,” spiega. “Un abisso rispetto all’Inghilterra, dove anche nei pub più sperduti della Brughiera potevi trovare un menù senza prodotti animali.” Per Loredana il veganismo significò una riscoperta della cucina povera italiana, quella fatta di pasta e fagioli, risi bisi e orzo con i ceci, anche se nel suo caso il cambio di alimentazione ebbe un'importanza relativamente minore, “al tempo c’era meno enfasi sul cibo; il veganismo era visto in modo più politico, come una rivoluzione personale e un nuovo modo di vedere la società e l’essere umano,” racconta. 

Essere vegani in quegli anni spesso coincideva con l’attivismo e la divulgazione culturale, non mancavano poi le azioni dirette contro le tante industrie responsabili dello sfruttamento animale. Loredana ha vissuto quella stagione in prima persona, “una delle cose che ricordo con maggiore emozione di quegli anni è Nella, il primo coniglietto portato a casa dopo averlo liberato da un laboratorio di ricerca. Avrei preferito limitarmi a un attivismo lontano dai riflettori, ma eravamo davvero in pochi e mi è toccato anche prendere parte ad azioni mediatiche più rischiose. In seguito a una di queste la polizia si presentò alle sette del mattino a casa mia col mitra spianato,” ricorda.

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Loredana sente una profonda differenza tra il veganismo che ha vissuto lei e quello più disimpegnato dei giorni nostri. Allo stesso tempo è contenta che la divulgazione culturale e i sacrifici fatti al tempo non siano stati vani. “Eravamo davvero quattro gatti, ma abbiamo contribuito a gettare le basi dell’attuale cultura vegan e animalista italiana.”

Enore Fabani ha 53 anni e dopo qualche anno da vegetariano è passato al veganismo intorno al 1993. Mi racconta che i canali di divulgazione al tempo erano pochi e c’era molta confusione sul tema; per esempio, Enore divenne vegano dopo aver letto il classico di Clements Kath Why Vegan, che in italiano venne però tradotto Perché Vegetariani. In quegli anni il conduttore radiofonico e televisivo Red Ronnie ebbe un ruolo pionieristico nel parlare di questi temi al grande pubblico. 

Enore associa il veganismo di quegli anni, almeno inizialmente, a un senso di solitudine: “diventavi un po’ l’eccentrico di turno, in più non si conoscevano altri vegani con cui condividere quest’esperienza—d’altronde, era un mondo pre-internet,” racconta.

Nel suo caso la svolta arrivò con la frequentazione dei centri sociali in occasione di concerti punk e hardcore in giro per l’Italia. Malgrado il punk venga solitamente associato a una cultura nichilista e distruttiva, nel Regno Unito degli anni Ottanta band punk come Crass e Discharge, note per il loro attivismo politico e controculturale, resero quello dei diritti animali un tema ricorrente all’interno della sottocultura. Sull'onda delle band inglesi e americane cominciarono a nascere in quegli anni gruppi musicali nostrani con tematiche vegan; Enore ricorda che durante i concerti venivano spesso distribuite fanzine a tema vegan e ricettari autoprodotti. “È all’interno di quell’ambiente che scoprii l’esistenza di una comunità vegan,” racconta. 

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Enore non ha un ricordo particolarmente esaltante dei prodotti vegani di quegli anni, “il latte di soia era cartone allo stato liquido, il tofu polistirolo bagnato, mentre le bistecche di soia dovevano essere bollite un paio d'ore prima di essere cucinate e non serviva molto strizzarle con lo schiacciapatate: avevano sempre una consistenza a metà fra la spugna da cucina e la gomma,” spiega.

Enore è contento che i vegani non siano più invisibili, anche se sorride davanti ad alcune esagerazioni commerciali, da poco ha visto sugli scaffali di un supermercato una bottiglia d’acqua minerale col simbolo vegan. Malgrado i progressi fatti in questi anni, per Enore la tradizione culinaria italiana continua ad avere una scarsa apertura mentale. “Il nostro patrimonio gastronomico è per sua natura mutevole e aperto alle contaminazioni. Tuttavia la cucina vegana è vista ancora come una minaccia, guarda come ci si scandalizza quando salta fuori la versione vegana di un piatto tipico,” dice.

Massimo Vitturi ha da poco compiuto 60 anni e lavora in una delle principali organizzazioni animaliste nostrane. Vegetariano dalla metà degli anni Ottanta, si è avvicinato al veganesimo nella prima metà dei Novanta. “Erano anni di grandissimo fermento culturale, si iniziava a parlare per la prima volta di diritti animali e antispecismo, anche grazie alle prime traduzioni dei testi di Peter Singer e Tom Reagan,” spiega. I saggi dei due docenti universitari, pubblicati in quegli anni da Garzanti e Mondadori, aprirono il dibattito sullo sfruttamento animale e incontrarono molte resistenze anche tra chi al tempo si definiva sensibile a questi temi. “Negli anni Ottanta fino ai primi anni Novanta era molto comune un tipo di animalismo orientato verso cause più rassicuranti e poco incline a imbracciare temi impopolari,” dice. Massimo racconta che la campagna contro le pellicce portata avanti in quegli anni fu una novità, impegnarsi per una causa simile significava mettersi contro una fetta trasversale della società, sia chi la pelliccia la utilizzava, sia chi la vedeva come un simbolo di riscatto sociale e sperava prima o poi di comprarla.

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Anche Massimo non ha un buon ricordo dell’offerta plant-based di quell’epoca. “I primi prodotti alla fine degli anni Ottanta venivano venduti in erboristeria, avevano costi proibitivi e gusti allucinanti,” racconta. “Non dimenticherò mai il mio primo latte di soia vegetale, era come bere una spremuta di fagioli crudi, ma in mancanza d’altro ci si convinceva che era buonissimo.” In quel periodo si diffondeva in Italia la cucina macrobiotica, spesso erroneamente confusa con quella vegana malgrado preveda l’uso del pesce.

Tuttavia secondo Massimo quella moda aiutò i vegani a conoscere e incorporare nella propria dieta alimenti come il gomasio, il miso, la salsa di soia o il tofu. Capitava un po’ lo stesso con l’abbigliamento, Massimo mi racconta della popolarità tra i vegani del tempo delle scarpe Palladium, che “si prestavano perfettamente alle nostre esigenze, ma chiaramente la cosa era del tutto casuale, non c’era nessun interesse dei produttori a creare dei prodotti per una nicchia di mercato irrisoria,” dice. 

Davanti all’abbondanza di alternative dei giorni nostri, Massimo prova una certa ambivalenza; il veganismo che ha visto nascere era molto legato all’autoproduzione e a una critica della cultura consumista, c’era quasi la soddisfazione di essere tagliati fuori dalla maggiore parte dei prodotti sugli scaffali dei supermercati. “Il veganismo nel frattempo è stato cannibalizzato dal capitalismo, oggi grandi brand e multinazionali commercializzano prodotti per quella che ai loro occhi è una nicchia di mercato come tante altre, pensa a quei marchi di salumi e latticini che hanno una linea vegana, non c’è nessuna scelta etica dietro la creazione di questi articoli”. Le vendite di prodotti plant based nella GDO durante la pandemia sono cresciute del 17 percento, arrivando a valere 458 milioni di euro annui

Allo stesso tempo Massimo si dice contento della situazione attuale, chiunque può facilmente scegliere dei bastoncini di pesce vegani realizzati dalla stessa azienda famosa per i bastoncini di pesce, magari anche chi vegano non è. “Non mi aspetto che il veganismo venga vissuto come abbiamo fatto noi,” conclude. “La cosa che conta davvero è che nel piatto ci sia meno sofferenza animale.”