La regola aurea del Natale in famiglia si potrebbe riassumere così: fingi che vada tutto bene, metti da parte i conflitti, ma soprattutto evita argomenti off limits (tipo politica e religione).
Per questo, anche se passo un sacco di tempo a pensare alla crisi climatica, mi son sempre trattenuto dal parlarne coi parenti. Ultimamente però mi è capitato di riflettere sull’assurdità di questo mio personale tabù: la scienza ci dice che la civiltà umana potrebbe collassare intorno al 2050, mentre io continuo a preoccuparmi di essere un ospite modello.
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Ecco perché, un po’ come buon proposito natalizio e per il 2020, quest’anno mi sono ripromesso di rompere il silenzio e avere più conversazioni sul clima nelle situazioni in cui prima avrei evitato. Ma per farlo in modo efficace e senza mettere in imbarazzo mia madre davanti ai parenti, ho deciso di chiedere consiglio a chi ne sa più di me sulla comunicazione della crisi climatica.
La prima persona che contatto è Giuseppe Paschetto, professore di matematica e scienze in una scuola media di Biella. Visto che quando si parla di clima molti si comportano come ragazzini testardi che negano ogni evidenza, ho pensato che chi passa la propria giornata lavorativa con dei preadolescenti avrebbe potuto darmi qualche idea.
Paschetto è anche stato finalista nel 2019 al Global Teacher Prize, una via di mezzo tra il Nobel e l’Oscar degli insegnanti. Per via del suo approccio innovativo, è probabilmente il professore che tutti avremmo voluto avere: “Per far capire che bisogna essere elastici e considerare più punti di vista—perché l’ipotenusa non è sempre il lato obliquo—mi sdraio su un tavolo, mi metto a testa in giù,” mi racconta.
Paschetto mi avverte che parlare della salvezza della biosfera con parenti che vogliono solo mangiare, bere e mettere da parte per qualche ora le difficoltà della vita non sarà facile. Tuttavia mi dà subito un suggerimento utile: per acchiappare i ragazzi, ma non solo, è meglio puntare più sul piano emozionale che su quello razionale. “Un bravo insegnante deve essere più abile nel coinvolgere che nelle conoscenze specifiche della materia insegnata,” dice. “Dati e tabelle verranno dopo, una storia ben raccontata viene prima e vince sempre.” D’altronde, diversi studi ce lo dicono già da un po’: i soli fatti non cambiano le opinioni delle persone.
Ma se il problema dei cambiamenti climatici va trasformato in una storia, come riuscirci efficacemente? Lo chiedo a Stefano Cucinotta, uno dei direttori creativi di We Are Social, agenzia di comunicazione a Milano. Cucinotta concorda con Jonathan Safran Foer, autore del libro Possiamo salvare il mondo, prima di cena: quella dei cambiamenti climatici non è una bella storia, è complessa da capire, piena di dati, senza grandi colpi di scena o grossi personaggi, a parte Greta. In più, il finale finora fa schifo.
Per questo Cucinotta mi consiglia di semplificarla il più possibile, di partire dal quotidiano e da cose comprensibili. “Conosciamo i nostri parenti: alcuni amano determinati paesaggi destinati a cambiare radicalmente, altri vivono in zone climaticamente fragili,” mi spiega. “Partirei da lì, da come i cambiamenti climatici avranno conseguenze concrete sulle nostre esistenze e quelle dei nostri cari.”
Cucinotta racconta inoltre che, secondo un’indagine di We Are Social, l’89 percento dei post-millennial preferisce acquistare prodotti di brand che supportano una causa sociale e ambientale. “Punta su di loro, la Gen Z è figlia di un’intera generazione che ha fallito, e si sente investita di un compito epico. Ecco una bella storia da raccontare: fare meglio dei propri genitori.” Come esca per introdurre il tema, il creativo mi suggerisce di compiere un gesto inusuale: “Quest’anno niente ragù di carne, acqua solo dal rubinetto, tornare a casa in treno invece che in aereo. Farsi chiedere la domanda definitiva, quella che ancora fa girare il mondo: perché? E iniziare da lì.”
Allo stesso tempo, Cucinotta mi mette in guardia. Dopo queste conversazioni climatiche i miei interlocutori resteranno probabilmente delle loro opinioni. Ma c’è speranza: “I comportamenti e le parole delle persone vicine a noi raramente ci influenzano in modo drastico, semmai sono come germi che col tempo possono rimanere latenti, ma anche contagiarci.”
Mi rivolgo anche a Robin Webster, stratega comunicativa per Climate Outreach, un’influente ONG britannica di comunicazione ambientale. Webster ha un approccio estremamente positivo verso queste conversazioni climatiche e riesce a mostrarmi sotto un’altra luce le difficoltà emerse finora: visto che i fatti hanno un ruolo secondario nel convincere chi ci ascolta, non dobbiamo necessariamente essere degli scienziati per parlare di clima.
Per questo, niente ansia da prestazione: “Una buona conversazione sul clima non è un dibattito da vincere o perdere,” afferma. “È una chiacchierata in cui facciamo lo sforzo di ascoltare il prossimo e proviamo a trovare dei punti in comune. Mettere le basi per conversazioni future, l’obiettivo dovrebbe essere questo.” L’ottimismo di Webster, devo dirlo, è contagioso, e fa sembrare una chiacchierata sui cambiamenti climatici come la cosa più naturale che potrebbe capitare a una festa. O forse è davvero così.
“È un tema che può essere introdotto in una conversazione in tanti modi,” prosegue. “Viaggi, cibo o abbigliamento sono aspetti delle nostre vite che, se viviamo in modo ecologista, abbiamo già reso più green. Iniziamo da qui, raccontiamo come abbiamo cambiato le nostre abitudini per via del clima e cosa stiamo facendo in prima persona. I nostri studi dimostrano che è un approccio efficace, appare molto naturale e il nostro ascoltatore non si sente giudicato.”
Webster mi rassicura inoltre che se prenderò coraggio e inizierò a parlarne in contesti familiari o lavorativi, resterò sorpreso: “Troppo spesso diamo per scontato cosa pensa il prossimo, senza effettivamente saperlo. Parenti o colleghi possono essere interessati ai cambiamenti climatici, o avere un’idea al riguardo. A chi ha paura di fare un buco nell’acqua dico: provaci e vedi che succede. Se c’è resistenza o imbarazzo, semplicemente cambia argomento.”
Dopo l’opinione di questi esperti ho la sensazione che se finora ho evitato di parlare di emergenza climatica, è perché mi sono sempre posto obiettivi troppo ambiziosi e irrealistici. Certo, i miei zii non si uniranno a Extinction Rebellion dopo aver parlato con me. Ma perlomeno ascolteranno la mia storia, quando sono nate le mie preoccupazioni per il clima e perché. Chissà che senza un assalto frontale al loro stile di vita siano più disposti ad ascoltarmi, e da lì non nasca qualcosa.
Se poi l’anno prossimo verrò nuovamente invitato a una cena di Natale, vuol dire che le cose non sono andate poi così male.
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