L’antropologo James Suzman ricorda molto bene l’uomo boscimano Ju’hoansi che gli ha insegnato a cacciare nel deserto del Kalahari. Quando hai passato la giornata a caccia e torni a casa per goderti ciò che hai catturato, gli diceva l’uomo, “il cuore è felice, le gambe pesanti e la pancia piena.”
Il senso di soddisfazione alla fine di una giornata lavorativa è cosa rara. Siamo lavoratori alienati, e lo siamo da secoli. Dobbiamo lavorare per sopravvivere, ma mentre ci dicono di amare ciò che facciamo e che il posto di lavoro è come una famiglia, è sempre più difficile trovare un impiego che abbia davvero un senso e sia anche retribuito decentemente.
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Gli stipendi stagnano da decenni, più del 70 percento della popolazione mondiale vive condizioni di ineguaglianza crescente, 40 anni di neoliberismo hanno crivellato le reti di sicurezza sociale e lo stress per motivi di lavoro è la forma più comune di stress in molti paesi.
La pandemia da coronavirus, con una recessione grave all’orizzonte, ha portato questi problemi all’attenzione di tutti. Non sappiamo che tipo di cambiamenti innescherà, ma sappiamo che, storicamente, ogni conquista nel mondo del lavoro è stata vinta grazie alle battaglie dei lavoratori.
“La nostra relazione con il lavoro può cambiare, sotto il capitalismo, perché è già successo,” dice la giornalista americana Sarah Jaffe, autrice del libro Work Won’t Love You Back. Jaffe pensa che questa possa essere l’occasione per una svolta positiva.
“Le persone hanno trovato qualcosa da fare, e quel qualcosa era molto più soddisfacente del loro lavoro,” dice Suzman, riferendosi agli hobby coltivati durante il primo periodo di lockdown. Ora, i dirigenti si chiedono se i loro dipendenti accetterebbero mai di tornare alla vita lavorativa di prima.
Alcuni politici di sinistra e molti sindacati in tutta Europa chiedono ora l’introduzione della settimana lavorativa da quattro giorni. In Germania, la proposta è spinta dai sindacati metalmeccanici, già fautori della riduzione dell’orario lavorativo per i lavoratori delle industrie. E alla notizia che le ricchezze di Jeff Bezos hanno superato i 150 miliardi da marzo 2020, Progressive International ha lanciato la campagna “Make Amazon Pay.”
Il mondo del lavoro che conosciamo ci appare normale, ma antropologi come Suzman e il compianto David Graeber possono aiutarci a comprendere che, in realtà, non c’è niente di “naturale” in tutto questo.
Riconoscere che niente è assoluto—ma è dato dal tempo e dalle circostanze—può spingerci a immaginare e costruire realtà diverse. Come spiega la scrittrice Ursula Le Guin: “Viviamo sotto il capitalismo. Il suo potere sembra ineluttabile. Ma così sembrava il diritto divino dei re. Qualsiasi potere umano può essere sovvertito dagli esseri umani.”
Graeber apre il suo libro Bullshit Jobs citando l’economista John Maynard Keynes, che negli anni Trenta scrisse che, entro il 21esimo secolo, il progresso tecnologico ci avrebbe condotti a una “terra promessa” in cui ogni bisogno basilare sarebbe stato soddisfatto e in cui nessun essere umano avrebbe dovuto lavorare più di 15 ore alla settimana. Quarant’anni prima, nel 1891, nel suo saggio “L’anima dell’uomo sotto il socialismo,” Oscar Wilde immaginava una società socialista del futuro in cui i lavori spiacevoli sarebbero stati compiuti dalle macchine, e chiunque sarebbe stato libero di diventare artista e artefice della propria vita.
Invece, oltre a rubare lavori tramite l’automazione, la tecnologia oggi fa anche da cane da guardia mentre lavoriamo, contando le ore al posto nostro e rendendoci raggiungibili in qualsiasi momento del giorno o della notte. La pandemia, poi, ha reso molti lavori del tutto dipendenti dalla tecnologia e chi lavora da casa incapace di “staccare” davvero.
Anche Graeber ha notato come la tecnologia abbia creato un mucchio di lavori inutili. “Frotte di persone, in Europa e Nord America, passano le proprie vite lavorative a compiere attività che, segretamente, ritengono del tutto inutili. Il danno morale e spirituale che deriva da questa situazione è profondo. È una cicatrice impressa nella nostra anima collettiva,” ha scritto.
James Suzman ha passato gran parte della sua vita a studiare i Ju’hoansi; i contatti brutali che la popolazione ha avuto con l’economia moderna dagli anni Sessanta in poi sono raccontati nel suo libro Work: A History of How We Spend Our Time, che esamina la storia attraverso il prisma del lavoro.
Uno dei temi principali del libro è che, per il 95 percento della nostra storia, noi esseri umani siamo stati cacciatori-raccoglitori e avevamo un approccio molto diverso al lavoro. Lavoravamo abbastanza da risolvere i nostri bisogni sul breve termine e non conservavamo il cibo. L’avvento dell’agricoltura 10.000 anni fa, dice Suzman, ha rivoluzionato una società ambientalmente sostenibile e creato, mi spiega, “questo feticismo per la scarsità di cui istituzioni culturali, pratiche e norme sono oggi intrise e che alimenta la nostra fissazione per la crescita. Perché qual è l’unico modo di sopperire alla scarsità? Lavorare duramente.”
La rivoluzione industriale ha messo il turbo a questo processo e oggi “metà della nostra economia si basa sullo spingere la gente a comprare cose che non vuole comprare.”
Ci sono molte risposte diverse—sia collettive che personali—alla situazione corrente. Suzman mi racconta di quando ha incontrato a Londra Mark Boyle, un artista e attivista irlandese diventato noto come “l’uomo senza soldi” perché ha vissuto senza usare moneta corrente per anni. Boyle sostiene che i soldi abbiano sostituito il senso di comunità nella società moderna e che le persone vivano sconnesse dalla natura e da ciò che consumano. Molti di noi si troverebbero sicuramente d’accordo con lui, ma solo pochi sarebbero disposti a fare quello che ha fatto lui, cioè trasferirsi in una capanna fatta con le nostre mani, senza acqua corrente o elettricità.
L’attivismo più comune e interno al sistema comprende manifestare per settimane lavorative più corte, spingere per l’introduzione di un reddito universale e chiedere che determinati servizi pubblici—come la banda larga e i mezzi di trasporto—siano completamente gratuiti.
Come diversi esperimenti—tra cui l’azienda di software Buffer e la sede di Microsoft in Giappone—lasciano pensare, una settimana lavorativa più corta e un reddito universale possono garantire vite più serene e soddisfacenti, ma la domanda “quale lavoro fare” resta. Anzi, cosa significa “lavoro” tanto per cominciare?
Per Suzman, il lavoro prevede “spendere consapevolmente energie in un’azione per raggiungere un obiettivo.” Dunque, dice l’antropologo, è naturale per gli esseri umani che “la storia evolutiva ci abbia resi creature dotate di un senso di scopo,” e che “ci sia un profondo senso psicologico di fare qualcosa.” Il problema è che i lavori che siamo costretti a fare somigliano poco a lavori dotati di scopo. “Il problema, a mio avviso,” dice, “sta nel come determiniamo i mestieri—e questo ha a che fare con il modo in cui organizziamo le nostre istituzioni e gli incentivi economici.”
Entrambe le cose non somigliano granché a ciò che ha trovato nel Kalahari. Finché non hanno passato un po’ di tempo a osservare i Ju’hoansi, gli occidentali hanno sempre dato per scontato che una comunità di cacciatori-raccoglitori dovesse per forza essere sempre sul punto di morire di fame. Invece, come ha scoperto Suzman, i Ju’hoansi lavoravano solo 15 ore a settimana—tra caccia, raccolta, compiti domestici e manutenzione del riparo. Il resto del tempo lo passavo a riposare o a giocare insieme.
Questo loro stile di vita è stato distrutto a partire dagli anni Sessanta dai proprietari terrieri bianchi e dal governo dell’Apartheid che li sosteneva. Oggi, esistono ancora alcune società di cacciatori-raccoglitori, dall’Artico all’Amazzonia, ma come sottolinea l’associazione Survival International, devono tutte affrontare “forze oppressive esterne che minacciano la terra su cui vivono, la loro salute e il loro modo di vivere.” Puoi scappare quanto vuoi dall’economia moderna, ma prima o poi ti troverà.
Suzman ha osservato i Ju’hoansi che vivevano in terreni posseduti da bianchi e che, mi ha detto, erano al livello dei “peggiori gulag.” Il quesito fondamentale su cosa significhi lavorare era al centro di una serie di divergenze tra i colonizzatori e i colonizzati. I proprietari terrieri accusavano i boscimani di essere pigri, mentre per i Ju’hoansi “l’economia di mercato e i suoi presupposti erano tanto allucinanti quanto frustranti.”
Sarah Jaffe cita Antonio Gramsci quando mi racconta che proprio quei presupposti sono il prodotto della storia—forze materiali che mutano con il mutare delle condizioni materiali.
Nell’era del Fordismo, dice Jaffe, i lavoratori americani sindacalizzati timbravano il cartellino in entrata e in uscita. Non dovevano fingere di amare il loro lavoro: era spesso ripetitivo, ma pagava dignitosamente e permetteva a ognuno di avere una vita decente. Era anche considerato “lavoro da uomini,” e Jaffe sottolinea come i mestieri della classe proletaria o operaia stiano mutando oggi in mestieri sanitari o di cura sociale—con l’industria dei servizi che sta sostituendo quella pesante.
Il posto di lavoro, oggi, è definito da una cultura che chiede a sempre più impiegati di amare ciò che fanno, credere nel brand aziendale, mentre ricevono in cambio sempre meno sicurezze. Stiamo combattendo contro ciò che lo scrittore Mark Fisher chiamava “realismo capitalista”—l’idea che, come diceva Margaret Thatcher, “non c’è alternativa.”
Jaffe chiede spesso alle persone cosa farebbero se non dovessero lavorare e per quanto molte risposte riguardino il passare più tempo con amici e famiglia o dedicarsi a interessi personali, le persone più succubi del loro lavoro tendono a tornare sul fatto che una vita senza lavoro è impossibile persino da immaginare.
James Suzman ha scritto il suo libro prima dello scoppio della pandemia, eppure l’arrivo del coronavirus non ha fatto che dimostrare le sue teorie. “Ha confermato il mio primo istinto—cioè che molti dei lavori che facciamo ci privano di quella soddisfazione essenziale che è data dal creare e dal fare.”
Qualcosa di simile è successo anche a livello politico, sostiene l’ex cancelliere ombra John McDonnell. Prima delle elezioni del 2019, il partito laburista inglese ha proposto di ridurre—con un piano decennale—la settimana lavorativa a 32 ore, “anche per far sì che i lavoratori possano godere più giustamente della crescita economica,” mi racconta.
La normativa, come quella sul rendere gratuita per tutti la rete internet a banda larga, si è dimostrata controversa, con quotidiani che paventavano “il crollo dell’economia” e accusavano il partito laburista di “copiare il Venezuela.” I conservatori e i media hanno distorto la proposta, ma il concetto è rimasto nell’aria, dice McDonnell, aggiungendo che la pandemia più che aprire ha proprio spalancato il dibattito in corso.
Qualsiasi ristrutturazione delle nostre vite lavorative riceverà dura resistenza da parte di chi possiede le imprese più ricche e dei loro alleati politici, due categorie che hanno tratto grandi benefici dalla pandemia e hanno contribuito grandemente a una cultura in cui il lavoro è il feticismo per eccellenza. Settimane lavorative più corte saranno considerate un danno per gli affari—le aziende diranno che non possono permettersi di pagare alle persone lo stesso stipendio per meno ore di lavoro.
Il collegamento che il sociologo Max Weber ha tracciato oltre un secolo fa tra l’etica del lavoro protestante e lo spirito del capitalismo è ancora il cuore della nostra cultura, e chiunque cerchi di farci lavorare meno si sentirà dire che vuole solo farci diventare più pigri. Invece, dobbiamo lavorare tanto—e soffrire tanto—quanto già facciamo, e se qualcuno pensa che la vita possa essere migliore di così sarà deriso senza pietà.
Ma anche alcuni di quelli in cima alla piramide lavorativa cominciano a riconoscere che il capitalismo è in crisi. Alcuni dirigenti nella Silicon Valley si dicono favorevoli a un reddito universale, perché gli permetterebbe di mantenere una base di consumatori sempre attivi. Il sistema, dicono tutti, si aggiusterà da solo. Ma l’idea che lavorare tutto il tempo sia la risposta ai nostri problemi, sarà messa sotto pressione ancora maggiore.
Si tratta di una battaglia destinata a toccare il tessuto stesso della nostra cultura e società. Richiederà la capacità di riconoscere—insieme a Suzman e Graeber—che non c’è niente di naturale nel modo in cui le persone muoiono perché non trovano un lavoro, o perché lavorano troppo. Che non c’è niente di naturale in un mondo in cui le persone passano la maggior parte del loro tempo a svolgere mansioni che ritengono del tutto inutili, e da cui nessuno intorno a loro pare trarre beneficio. Che non c’è niente di naturale in un mondo in cui le persone non riescono a passare del tempo con amici e famiglia.
Questa battaglia va avanti da troppo e non riguarda solo il sistema economico, ma il nostro stesso modo di esistere. D’altronde, parlando della forma che il mondo stava prendendo, Margaret Thatcher una volta disse che “l’economia è il metodo; l’obiettivo è cambiare l’anima.”