Nei tarocchi marsigliesi, il matto è raffigurato con gli abiti di un giullare. Appoggia i suoi calzari sul brecciolino di una strada e porta in un fazzoletto appeso a un bacco i suoi averi. Tiene lo sguardo fisso di fronte a sé e piega le labbra in quello che assomiglia a un sorriso, noncurante dell’animale selvatico—un felino spelacchiato, un cane rabbioso—che gli affonda gli artigli nelle gambe. Ha deciso di lasciarsi dietro ogni cosa, le fou (che significa sia “folle” che, appunto, “giullare”), di recidere qualsiasi legame lo tenesse avvinghiato al mondo terreno.
Ha scelto di guardarsi dentro e quindi al suo stesso futuro, alla via che ha ancora da percorrere. Segue una verità di cui solo lui si accorge dato che il popolo, contento di crogiolarsi nella sicurezza delle leggi profane, lo scherza e lo deride per questa sua scelta pazza di prendere e partire per chissà dove. Per lui, unico individuo tra ripetute maschere umane, il mondo è illusione.
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“Ora tutto è cenere, tutto è dietro di me, resta solo un pazzo che crede di essere Cesare”. Questo è Caneda, folle contemporaneo.
“Dentro ha un diamante, ma fuori è ruvido. Non ride mai, allora è stupido”. E ancora: “Ora tutto è cenere, tutto è dietro di me, resta solo un pazzo che crede di essere Cesare”. Questo è Caneda, folle contemporaneo, eterno bambino che ha scelto di trasformare la perplessità del mondo in carburante per la sua arte, con cui—come un vero giullare—intrattiene noi conformisti, abituati a seguire regole che non abbiamo contribuito in alcun modo a decidere.
Ci fa ridere, Cano, con parole grottesche, mugugni primitivi, humour scatologico. “Con la zia ballo la salsa”, grugnisce. “Certi rapper fanno po po po, altri rapper fanno la popò”, aggiunge. “Un po’ di figa, un po’ di figa, un po’ di figa”, salmodia. E noi ci accendiamo, godiamo del suo spettacolino, mentre lui resta impassibile e sospeso da terra quel tanto che basta per raggiungere la più totale pace dei sensi.
Caneda non sente le grinfie della fama, il richiamo del successo, la sirena del gioco del rap. Caneda mastica poesia, ma poi apre la bocca e ci fa vedere il boccone umido, il bolo deforme.
Perché Caneda dall’illusione del rap, in realtà, è fuggito. Pittava per strada, ma sognava le gallerie di New York che oggi accolgono le sue opere. Faceva plaza in San Babila, girando coi quei gentlemen disagiati dei Dogo, ma non appena si è preso una birra in faccia da due energumeni venuti lì a interrompere il suo gelato serale si è reso conto che a lui del gioco machista e aggressivo del rap davvero non gliene fregava nulla. Si è lasciato attirare dalle luci del pop di Newtopia, ma non appena si è reso conto che erano troppo bianche per lasciar intravedere le sue sfumature ha preferito lasciare che si spegnessero.
Caneda non sente le grinfie della fama, il richiamo del successo, la sirena del gioco del rap. Caneda mastica poesia, ma poi apre la bocca e ci fa vedere il boccone umido, il bolo deforme. Caneda è un rapper di estremi, il più difficile da scoprire e ascoltare mai uscito dal nostro paese. Questo articolo vuole essere una breve guida alla sua inscrutabile arte, sospesa tra scherzo e verità, tra terreno e sublime, tra sogno e realtà.
Come funziona per i generi musicali, le categorie in cui ho diviso le identità di Caneda sono fluide e si sovrappongono in maniera disordinata e imprevedibile. Ma è inevitabile, dato che stiamo parlando di una persona che se ne è sempre fregata di come si dovrebbe presentare la propria musica: su Spotify c’è solo qualche suo pezzo sparso, su YouTube i suoi video sono stati caricati su diversi canali, esiste più di un suo sito ufficiale, account Twitter, Facebook e Instagram. Ma ciò che è facile da capire e scoprire non è mai davvero appagante.
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Di rapper zarri ce ne sono a palate, ma di rapper che rovesciano i luoghi comuni della zarrìa ce n’è solo uno. Caneda è un’entità ibrida in cui arte e strada sono sinonimi, e quindi gli viene naturale applicare allo street rap la qualità sorprendente dell’opera pittorica o scultorea contemporanea. Come Duchamp che disegna un paio di baffi alla Gioconda e la chiama arte, Cano prende i luoghi comuni del rap di strada, li ribalta e li mette nel suo mixtape-galleria. Il rapper si scopa le modelle? E lui risponde “Scopo quella figa? Mai / Scopo quella latrina come non mai”. O anche “Nel club rimorchio un cesso bianco”. E ancora, “Non scopo un bel cesso da un bel po’ / Non vado di corpo da un bel po’”. Quando fa lo zarro, Caneda è un orso notturno, un golem criminale, un giostraio lascivo—orgoglioso della sua diversità dalle norme, proprietario di una concezione di bellezza contraria rispetto a quella dominante.
La strofa di Caneda ne “Il ragazzo d’oro”di Guè Pequeno ha fatto la storia del rap italiano, ed è bello che uno dei punti d’ingresso fondamentali alla sua persona sia forse il più importante della sua carriera. Rimare un’intera strofa usando una singola parola nel 2012 era ancora motivo di scandalo, un rovesciamento di quelle skill liriche che all’epoca erano ancora percepite come fondamentali per essere considerati credibili. Oggi è la norma, ma Caneda—allievo di Lil Wayne e Chief Keef, come dimostra “Nonlai”, il suo rework di “I Don’t Like”—ci era già arrivato. Gli hater gli mordevano le gambe, mentre lui teneva lo sguardo alto e all’orizzonte vedeva già la trap, la rivincita dello stile sulla forma. Ma il bello del Caneda zarro è che in lui questo ribaltamento non avviene annullando il contenuto, ma semplicemente esponendo la realtà sporca, infantile e sudata dell’immaginario del crudo rapper di strada.
“Luci blu? Nino-nino”, dice Caneda in quel pachidermico canto notturno di uno sfigato ubriacone che è “Dio non è al momento raggiungibile”, come un bambino che gioca con una macchinina della polizia. Ma le sirene sono vere, sono dietro di lui, fatto oltremisura e incapace di reggere la tipica vita di eccessi del rapper. Sembra confuso, Cano, così da tanto da sbagliare un congiuntivo ma non abbastanza da dimenticare la sua vera natura: “Dentro amaro, pompelmo / Balla Tchaikovsky ma non diventare un cigno”. Perché sotto a una zip sudata e alla foresta di pelo sul suo petto, batte un cuore enorme.
Playlist: “Craxi era” / “Il ragazzo d’oro” / “Nonlai/Olla” / “Maradona” / “Zona Uno Anthem” / “Dio non è al momento raggiungibile” / “Cioccolata” / “Unpodi” / “Giovane zarro” / “Niente d’oro resta”
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Il rap non è un genere nato per parlare d’amore. Semmai di fratellanza, comunione, condivisione, riscatto—ma il cuore che batte per un bello o per una bella è un elemento lirico che si è aggiunto all’immaginario rap solo con il passare del tempo, man mano che lo scrivere barre su una traccia si infiltrava come pratica artistica nel terreno umido della società tutta. Caneda è uno dei rapper che in Italia, probabilmente per sua sensibilità, è riuscito a integrare meglio l’amore in un messaggio ibrido in cui le parole “Fammi una pompa, brutta zozza” possono tranquillamente convivere con proposizioni come “Dire ti amo è come un duello con pistole / Se estrai per primo è meglio che non sbagli”; oppure “Questo letto è troppo grande, stammi più vicino”, o ancora “Tra cento spose io scelgo te”.
Caneda è un rapper che unisce carne e spirito, capace di dipingere scene amorose a metà tra realtà e impressione, come coperte da un impercettibile strato d’acqua che le fa sfarfallare agli occhi di chi guarda. “Scritto nell’acqua” è un buon esempio, rappresentazione di due amanti su un letto umido una notte d’estate (“Noi nudi, i vestiti intorno / Credevo fosse amore ma invece è un porno / Siamo cotti, questa notte è un forno”). Cano parla di caldo e freddo, di mare e sabbia, di stelle e cielo, concetti enormi rispetto a cui lui e la sua bella, avvinghiati in un abbraccio sudato, sono minuscoli e insignificanti. Ma soprattutto, sospesi tra estasi e arrapamento: “Il mio cuore è a tempo con le onde / Il mio cazzo è un microonde”, dice Cano, conscio della natura distruttiva dei sentimenti: “Copriti il collo, guarda che mordo, orco”.
In Caneda, infatti, l’amore è sempre accompagnato da un senso di pericolo di cui lui si sente portatore. In “Lucciole”, dopo un ritornello che passa per una citazione dei Nomadi mutuata da Battiato, racconta si paragona a un vampiro (“Dammi il collo, è un suicidio”), si dichiara pronto a mordere la polpa della sua lei (“Ti mangio come un frutto”). Ma è anche qualcosa di celeste, come esemplifica “Cartoline dalla luna”, rilavorazione de “Gli angeli” di Vasco Rossi, in cui Cano, Piccolo Principe, invita la sua bella a raggiungerlo nel firmamento: “Tra le stelle mi sento per la prima volta nano / Vorrei farti salire dandoti la mano / Ho una scala—ssssshh! Ma sali piano”. E certo, il pericolo resta: “Le stelle sono così bianche che ti abbagli / I baci sono così grandi, come sbagli”.
Playlist: “Scritto nell’acqua” / “La vita sognata dagli angeli” / “Resta sveglia” / “Dove le balene vanno a nascondersi” / “Poco di buono” / “Lucciole” / “Cartoline dalla luna” / “Zero” / “Andromeda” / “Via da Las Vegas”
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Ci sono momenti in cui Caneda sembra indossare un costume da Arlecchino e mettersi a ballare una danza circense, così da intrattenerci tra capriole, cerchi infuocati e pernacchie con le ascelle. È il Caneda burlone, quello che si libra sulla chiusura mentale di chi lo ascolta. Quello che sale sul palcoscenico e si presenta come il protagonista di una farsa farlocca che nasconde tra le sue trivialità piccoli pizzichi all’ingegno di chi ascolta. A suggerire questo tono sono anche le scelte musicali e lessicali di Neda e dei suoi collaboratori—Marco Zangirolami su tutti, che con il suo gusto orchestrale ha lasciato una firma sull’intera opera del nostro.
“Il diavolo” usa come base “Dishes” di Yann Tiersen—dalla colonna sonora di Goodbye Lenin—una composizione neoclassica dal tono a metà tra il grave e il buffonesco. Caneda si immedesima in un demonio tentatore, parla a una ragazza “fatta come una biscia” e le tende la mano chiedendole di seguire lui, angelo da un’ala sola, nella sua danza propiziatoria il cui culmine è la follia: “tricche tracche, tricche tracche”, canta Cano, nei suoi festosi inferi immaginari. “Amo ki sa dare tre gocce di sangue”, che suggerisce già una tono scanzonato con la scelta di usare la “k” nel titolo, offre il braccio a “Lemon Tree” dei Fool’s Garden, un altro pezzo sospeso tra appeal pop e carnevalata. Anche qua l’interlocutore è una ragazza, ma la voce narrante è quella di un casanova notturno un po’ sfacciato e un po’ sfigato: “Eri già bagnata? Potevi avvisarmi! / Ora siamo in due, sono già le due / E sono ancora in giro, porco due”. E rivela poi la sua vera natura: “Questa notte il mondo è nostro / Ma io sono un mostro”.
Il Caneda burlone si esprime però anche in altri modi, la cui qualità unificante e la tensione tra serio e faceto, tra leggerezza e pesantezza. Intrattiene la corte nei panni del paroliere (“Freestyle A”), ma si improvvisa anche esotico danzatore latino americano (“Lau”). È un bardo cantastorie annunciato da un suono di tromba (“Don Chisciotte”), è un ubriacone in ginocchio che si umilia col sorriso ballando un reggae per ricevere due monetine da chi ha avuto più fortuna e morigeratezza di lui (“Il coccodrillo”). Dissacra persino sé stesso, intonando il ritornello e le prime barre della sua strofa de “Il ragazzo d’oro” sulla chitarra classica dei Nacha Pop scegliendo come titolo, semplicemente, una risata: “Ahahahaha”. E a volte, semplicemente, si fa da parte e lascia che sia solo la musica a raccontare le buffe imperfezioni di noi esseri umani (“Il peggior night”, “Strichnina”).
Playlist: “Il diavolo” / “Strichnina” / “Amo ki sa dare tre gocce di sangue” / “L.E.I.” / “Don Chisciotte” / “Freestyle A” / “Lau” / “Spaghetti repper” / “Non volo più” / “Ahahahaha” / “Il peggior night”
Forse ti interessa: Caneda, il cantastorie
Caneda è un rapper che riserva le sue parole alle sue canzoni. Non rilascia spesso interviste, e quando lo fa non si cruccia di accontentare chi gli fa domande se non si sente stimolato. Una delle poche cose di cui parla volentieri, sembra, è l’ispirazione filmica dietro alle sue canzoni. Cano ingerisce immagini e trova costanti ispirazioni dal mondo del cinema e delle serie TV, che tornano poi nei suoi testi e nei suoi artwork. Apprezzando così tanto la narrazione, è solo naturale per Caneda calarsi nei panni del menestrello che declama storie, miti e leggende per la gioia delle orecchie della corte. Ma, ribaltando la prospettiva, anche in quelli del bambino affascinato dalla fiaba raccontata dal nonno, piccola finestra sull’irrealtà e opportunità per fuggire da un mondo—una strada, una città, una relazione—sporco e rovinato.
“Il cacciatore di draghi” è uno dei migliori personaggi che popolano l’immaginario di Caneda, un viandante che ha abbandonato casa, amore e certezza e sceglie “come letto treni, sedili di velluto”. Porta “un coltello in tasca” per difendersi da un futuro “troppo astuto”. Lo si può immaginare mentre aleggia nella sala d’attesa di una stazione, presenza ultraterrena (“Guardi troppi film, contro me non serve l’aglio”), pietrificato dalla paura (“Vogliono sbranarmi, petto o ala”), affascinante come il mistero di cui è portatore (“Per vedermi baci una rana”). A voi scoprire le altre storie che Cano ha da raccontare: quella di una ragazza che “scappò dall’Eden per noia” (“Gabriella Ferri”), quella di due innamorati che vanno a schiantarsi a duecento e morire insieme (“Mickey & Mallory”), quella di un cowboy squattrinato che cerca di dare un senso alla sua miseria e alla sua vecchiaia (“Che fine ha fatto Jesse James?”), quella di un ragazzino un po’ speciale incapace di amare (“La promessa di Pinocchio”).
Playlist: “Mickey & Mallory” / “Che fine ha fatto Jesse James?” / “Il cacciatore di draghi” / “Peter Pan” / “Gabriella Ferri” / “La promessa di Pinocchio” / “Ali” / “Mito” / “Vampiri”
Forse ti interessa: Caneda, profeta di strada
Milano scorre nelle vene di Caneda in tutte le sue irregolarità e contraddizioni. Lui, artista di strada e di galleria, personifica la città e la tratta come un’amante. Si innamora delle sue sinuose tentazioni notturne, e si mortifica nel momento dell’abbandono pensando a tutto ciò che non è riuscito a scoprire di lei. Percorre i suoi marciapiedi, sballottato tra il nucleo del tessuto urbano e i suoi confini, ed esplora con lo sguardo i suoi dintorni come se si trovasse in un perpetuo vernissage: “Io tra cemento, e invece sogno il mare / Non riesco più a parlare / Vado a Palazzo Reale, ma i musei sono per le strade”, dice in “Nubi basse”, costruita sulle note di “Gocce di memoria” di Giorgia. Lo stesso senso di smarrimento permea “Titoli di coda”, in cui cerca la verità—come il folle, ricordate?—abbandonando la città in cui si è identificato: “Lontano, lontano, dimenticando Milano, dimenticando Cano”.
“Stanotte Milano sembra viola”, intona in “Eroi”, forse il suo notturno più evocativo. “La notte è una piscina e io ci nuoto a delfino”, dice, a suo agio nel buio come fosse l’acqua da cui dice di essere nato, lui angelo da un’ala sola, imperfetto essere umano. Come l’amore, anche la città di notte per Caneda è qualcosa di paradisiaco e infernale allo stesso tempo, di alto e di basso, di estremi: “Volo così in alto, bacio la Madonnina / Sono così in basso, sudo in una cantina / Corro fino al Tiratardi senza saliva”, dice, alternando così la sospensione del volo, la claustrofobia di una fornace, e il senso di rifugio di un bar familiare (il Gecko’s Pub sui Navigli, altresì detto “Tiratardi”). Come tante serate, anche quella di Caneda si conclude in un gesto terreno e confortevole, per riprendersi dalle incomprensibili vibrazioni del cielo nero: “Metto tutta questa notte in questo panino”, dice, affondando i denti nell’essenza della metropoli.
La città, in Caneda, non è la street monodimensionale con cui è fissato il rap ma un prisma che riflette le sfaccettature di quest’assurda vita che condividiamo. Può essere un luogo da abbandonare per ritrovarsi (“Sawo”, con la sua bellissima esclamazione “Ricordo le pannocchie dell’Idaho!”), una donna da amare (“La città in fondo al mio cuore”) una tavolozza su cui dipingere segni di nostalgia (“Che fai dormi?”). O può essere, più semplicemente, poesia ubriaca e barcollante. Lo dice benissimo “Le città RMX”: “Le poesie sono città, non il paradiso / Sono città fatte di baci, ma senza amore / Dove il cielo è rosa e i coltelli rose / Le poesie sono città piene di poeti / E lettere giganti al posto di grattacieli / Le poesie sono città fatte d’oppio / Sono le tre meno dieci e senza scotch scoppio”.
Playlist: “Eroi” / “Titoli di coda (Dimenticare Milano)” / “Nubi basse” / “Icaro” / “Sawo” / “La città in fondo al mio cuore” / “Che fai dormi?” / “Sogni” / “Le città RMX”
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Ci sono momenti, nella discografia di Caneda, in cui tutto quello che abbiamo detto finora si fonde in un processo alchemico il cui risultato è un nuovo elemento lirico e sonoro, un metallo prezioso che non riesco a definire in alcun modo se non usando il generico, soggettivo e inflazionato termine “poesia”. Ma non esistono parole che possono descrivere la collezione di immagini e sensazioni che Caneda ogni tanto snocciola e mette in musica, siano su chitarre taglienti (“Punk rap”) o su un’impressione di pianoforte (“Raffaello”). Dopo avere attraversato gli immaginari rovi dell’amore, essersi grattato sulla ruggine della periferia, aver ricevuto nella schiena il coltello dei suoi inseguitori, il folle è pieno di buchi da cui sgorga la sua natura—che è pura espressione, evocazione di una possibilità ultraterrena, rifiuto del tempo e del senso di un mondo beffardo e incomprensibile. E alla fine di tutto, perché anche il folle non può fuggire alle catene del suo appartenere al mondo terreno, l’unica cosa che resta da fare è accettare la propria caducità, e salutare:
Ragazzi, addio, non mi cercate. Mi sono perso e non riesco più a tornare. La vita tira pugni pesanti come macigni, vedo i miei sogni morire come cigni. Addio a una città in cui ho visto tutto, ho dato tutto, prestato il mio cuore e tornato distrutto. Addio ai lampioni sempre gialli, ai semafori gialli, lo sai che la notte è l’acquario degli sciacalli. Addio a un posto dove ti investono se non ti togli, dove non sei mai te stesso, neanche se ti spogli. Le lacrime si sentono, ma piangi, non si sentono, ma urli. E mi hanno detto: “La vita non è un film”, io ho risposto: “Parla con i miei dubbi”. Addio, nelle cuffie il Wu-Tang, addio mondo. Addio muretto lungo una vita, una vita lunga una rima, macchie di whisky sulla camicia. Ricordi dolci, come arance la mattina, addio, addio, addio. Addio alle parole. Parole che mordono pagine, parole come vetri rotti. Parole inchiodate al muro come crocefissi. Parole pesanti come lapidi, folli come baci, furbe come ladri, chiuse come armadi. Come ubriachi che non riescono ad inserire chiavi. Oh sì! Come amanti, come schiavi. Come antichi guerrieri slavi. Come lettere indelebili. Cicatrici invisibili. Parole, come angeli.
Playlist: “Ciao RMX” / “Raffaello” / “Punk rap” / “Mito” / “Samurai” / “Nostalgia della luce” / “Blu” / “Via da Las Vegas” / “Zoe” / “Lettere dall’inferno (Outro)”