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I vignaioli abruzzesi che producono degli strani vini indigeni

Cantna Indigeno vini naturali abruzzo

Ognuno ha i suoi mostri. Io ne ho diversi, ma uno di questi è non sapere quale luogo chiamare casa. Aver impegnato molto tempo ed energie a spostarmi da una città all’altra, rescindendo e ricucendo legami con luoghi e persone. Quello che ne risulta è una sottile forma di solitudine, che mi fa sempre desiderare di essere altrove, e nessuno di questi posti è mai casa. Da qui credo venga la mia fascinazione per chi fa la scelta opposta: vince la noia, l’apatia e spesso – se parliamo di provincia italiana – le difficoltà, e trova il modo di allestirsi una vita avventurosa nel luogo dove è nato e cresciuto.

È il pensiero più articolato che riesco a formulare sul treno che mi porta a Teramo, in Abruzzo, una mattina di dicembre. La ferrovia corre lungo la costa adriatica e confidavo nel mare d’inverno che sfila fuori dal finestrino per accendere pensieri più sofisticati, ma il fatto è che ho fame. Nicola mi ha detto, per piacere stai a dieta prima di scendere, che qui si mangia parecchio, e così ho fatto, ma adesso ho fame.

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“Che poi chi l’ha deciso che un vino tannico di 15 gradi è territoriale e uno fresco di 11 gradi no?

Nicola è Nicola Reginaldi, uno dei quattro fondatori di Cantina Indigeno, gli altri: Alfredo Giugno, Loreto Lamolinara e Fabio Petrella. Sono loro che sto andando a incontrare. Cantina Indigeno nasce nel 2016 e oggi produce quasi 25 mila bottiglie, vendute in gran parte fuori dall’Italia: Europa, ma anche Stati Uniti, Canada, Messico, Giappone… È una cantina “senza terra” (per ora), che si concentra sulla vinificazione: coltiva un paio di ettari in affitto e per il resto compra le uve da contadini sparsi sulle colline teramane, disposti a coltivare usando solo rame e zolfo.

Cantina Indigeno Abruzzo
A pranzo con i ragazzi di Cantina Indigeno. Tutte le foto dell’autrice.

La loro vinificazione è votata al minor intervento possibile: fermentazioni spontanee con lieviti indigeni, niente controllo della temperatura, filtrazioni, zero solforosa o altre aggiunte. Ne risultano vini che difficilmente superano i 12 gradi alcolici, giocano sulla freschezza, le acidità, la bevibilità. Sono per questo molto distanti dai tradizionali vini d’Abruzzo come il Montepulciano o il Cerasuolo: codificati per essere carichi, alcolici, strutturati.

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Agriturismo Domus Colle Marmo.

Scendo dal treno e andiamo tutti insieme a pranzo in un agriturismo a Bisenti dove la profezia di Nicola (qui si mangia parecchio) sfugge di mano persino a loro: gnocco fritto e salumi, fracchiata di cicerchie con pomodori secchi, pecorino di Farindola fritto, fagioli e cotica, spezzatino di pecora detto “il coatto”, rape e pependone (peperone), maccheroni alla mugnaia, agnello e patate arrosto, dessert di pizza dolce e liquore alla genziana.

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Intanto beviamo qualche bottiglia Indigeno, in particolare di Montonico, un vitigno raro, a cui sono particolarmente affezionati.

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Bottiglia di Montonico, vitigno raro.

Bisenti è storicamente la terra del Montonico, dunque dopo pranzo trasciniamo quel che resta di noi sù per una salita fangosa, verso una vigna di montonico da cui comprano le uve. Piante di 40 anni, 600 metri di altitudine, perfetta escursione termica giorno-notte e una vista che in questo giorno di pioggia e nebbia posso solo immaginare, ma Nicola mi giura che comprende vari colossi dell’Appennino: la Maiella, il Gran Sasso, i Monti Gemelli.

“Il montonico è una delle storiche varietà abruzzesi – dice Nicola – ma è stata via via sradicata perché considerata un’uva debole, poco zuccherina, poco adatta a sviluppare alcol. Ne saranno rimasti dieci ettari in tutto, è un patrimonio che se ne va. Ma ha una bellissima acidità che a noi piace, perciò stiamo cercando di convincere i contadini a salvare le piante, coltivarle in biologico e in cambio gli compriamo le uve a un prezzo dignitoso (80 euro a quintale)”.

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Villa Brozzi

La mattina dopo andiamo in cantina, si trova al piano terra di una casa in mezzo alle colline, località Villa Brozzi. La casa è di Nicola – che dei quattro è quello che si occupa più da vicino di tutta la produzione – ed è circondata da un piccolo terreno dove pianterà presto una vigna. Strette in due stanze ci sono una ventina di botti: in vetroresina, acciaio, un paio di anfore.

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Gli assaggi durano un paio d’ore, ce la prendiamo comoda, anche perché sono tanti vini, tante etichette, ogni anno qualche esperimento nuovo. Quello che accomuna i loro vini è una ricerca di leggerezza: brevi macerazioni, colori scarichi, pochi tannini. Quasi tutti i bianchi che assaggiamo sono in purezza, cioè fatti con un solo vitigno: l’amato montonico, una malvasia “poco cerimoniosa” (cito Nicola), un pecorino “integrale” che ha tenuto bucce e raspi per parte della vinificazione.

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Nicola, Loreto e Fabio

Con i rosati da uva montepulciano vanno oltre il monovitigno, perché addirittura separano i diversi cloni della stessa varietà. Mettiamo in fila su un anfora i bicchieri che li contengono: c’è il clone MP3, colore buccia di cipolla e una nota più minerale, l’R7 che tende al rosso ciliegia e profuma di piccoli frutti rossi; c’è anche l’R7 da una vigna a 400 metri di altitudine, più fine, elegante. Poi ci sono i rossi, sempre da uva montepulciano, in varie versioni: affinato in acciaio, anfora, rifermentato in bottiglia.

Diversi tipi di montepulciano

Differenziare molto le vinificazioni è anche un modo per studiare le uve, capirne le sfumature e l’evoluzione. Il principale criterio per prendere decisioni resta il loro gusto, e non le convezioni su come i vini d’Abruzzo devono essere. E l’ispirazione viene dai vini che amano in Francia, in Austria e da qualche produttore vicino di cui sono anche amici, come per esempio Lammidia.

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“Che poi chi l’ha deciso – mi fa Nicola – che un vino tannico di 15 gradi è territoriale e uno fresco di 11 gradi no? O che l’uva della mia vigna, quella che pianterò intorno alla cantina e coltiverò io, è più territoriale di quella che compro da vecchie vigne, coltivate da contadini che intorno ai campi ci sono cresciuti?”

Cave al buio cantina indigeno

In cantina c’è anche un tino pieno di birra, fermentata con mosti di montepulciano. La birra è la loro prima passione ed è quello che li ha fatti incontrare: Nicola e Fabio hanno un pub a Teramo, il Monkeys; Alfredo e Loreto hanno un birrificio sulle colline teramane: La casa di cura. Non credo di sbagliare a dire che la loro idea di vino deve molto alla cultura della birra artigianale e non credo di sbagliare a pensare che questo basti a far gridare allo scandalo, alla volgarizzazione, buona parte del mondo del vino.

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La vista di Poggio Umbricchio

Dopo la cantina, ci sono ancora varie cose da fare e tutte prevedono molte curve in macchina per le strade che solcano le pendici del Gran Sasso. C’è la tappa da Centini, un celebre cioccolatiere di Bisenti, con cui si mettono a discorrere di fermentazioni. C’è un pranzo a Poggio Umbricchio, un paesino scolpito nella roccia e ormai quasi del tutto disabitato, dove ci aspetta Enzo, gran cercatore di tartufi che per noi accende il camino e ci fa assaggiare il suo parterre di delizie, dai tartufi alle mostarde di peperone.

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Poggio Umbricchio

C’è una passeggiata nella sua tartufaia, un pezzo di bosco che ogni giorno attraversa coi suoi cani. Fabio è nato qua vicino e ogni anno organizza la fiera del tartufo bianco di Poggio Umbricchio.

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Tartufo bianco di Poggio Umbricchio

Lui e Nicola hanno anche provato a lanciare un festival di musica al mulino abbandonato che c’è subito a valle, ma dopo qualche anno hanno dovuto rinunciare. C’è la tappa al birrificio di Alfredo e Loreto, mentre si fa la cotta di una American Pale Ale. E c’è ovviamente la tappa al pub Monkeys, quando ogni sera torniamo in città, un bel posto dove far finire le giornate normali.

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Per tutto il tempo, il terremoto intreccia le loro conversazioni attraverso piccoli dettagli, ci metto un po’ ad accorgermene: una strada chiusa, un trasloco, qualcuno che non c’è più. E c’è sempre un prima e un dopo, anzi molti prima e dopo: 2009, 2016, 2017, tutte scosse che sono arrivate a lambire questi colli negli ultimi 10 anni, a toccare in modi diversi, più o meno dolorosi, le vite delle persone. Finiamo a parlarne apertamente solo nell’ultimo viaggio in macchina verso Teramo, con Nicola. “Ha colpito sempre di notte per cui mi ritrovo a pensarci ogni sera, prima di addormentarmi. Nel silenzio, hai sempre paura di sentire quel rumore, perché il terremoto fa rumore, anche nelle scosse leggere, lo senti ribollire.”

Il paesaggio si addolcisce man mano che scendiamo a valle, intanto cala il buio. L’intensità che mi arriva dai suoi racconti non è solo legata al fatto che Nicola sa esattamente quale posto chiamare casa. È anche per via dell’ostinazione con cui tutti e quattro hanno scelto di mettere la propria energia e creatività in luoghi che di questo hanno davvero bisogno.

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Aprire un birrificio in mezzo all’Appennino, dove le persone non passano per caso e se le consegne di materiali di lavoro arrivano in ritardo il postino non chiede nemmeno scusa. Inventarsi un festival vicino a un borgo incantevole che sta morendo, e prendersi in cambio lamentele e accuse dagli abitanti dei dintorni, perché è vero, molto spesso è difficile superare la diffidenza di persone poco abituate alla diversità e fargli capire come questo possa fare un gran bene al loro territorio. E infine il vino: setacciare le colline in cerca di vigne e convincere i contadini che sì, se passi al biologico ti compriamo l’uva noi, te la paghiamo bene, poi ci facciamo un vino strano e lo mandiamo in giro per il mondo a raccontare le colline di Bisenti, Abruzzo.

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Vini strani perché non stanno nel solco della tradizione, ma non so se la tradiscono o la rimettono in moto, perché tanto tenerla ferma serve solo a venderla meglio, c’entra poco con l’autenticità. Vini fatti da gente che ha la fortuna di vivere i luoghi dove sente le proprie radici, e però ha anche la forza di imbarcarsi in mille imprese per portare in quei luoghi vitalità e differenze. O almeno qualcosa di buono da bere.

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