Música

Quali sono le canzoni italiane del decennio?

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Compilare le liste delle cose più influenti e/o belle del decennio è stato bello ma anche brutto. Il bello è stato rendersi conto di come le cose si sono evolute, riascoltare dischi che dieci anni fa ci esaltavano e renderci conto che—hey, erano davvero importanti, alla fine.

È stato brutto, invece, rendersi conto che ci eravamo dimenticati di cose splendide, e anche notare alcuni problemi del sistema-Italia—per esempio, la drammatica scarsità di diversità nelle liste che sono venute fuori. È stato anche brutto rendersi conto che era impossibile rappresentare davvero tutto e tutti. Per il prossimo decennio, quindi, speriamo che ci siano 1) più diversità 3) più rappresentanza 3) più cose sempre più nuove.

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Per questa cosa di Best Of Decennio ci siamo limitati alla musica italiana perché di liste sulle cose del mondo ce ne sono già a caterve. Abbiamo tre pezzi: questo sulle canzoni, uno sugli artisti e uno sugli album. Lungo l’articolo ci sono link ad articoli in cui avevamo parlato di quelle cose quando sono uscite.

IOSONOUNCANE – “La Macarena Su Roma” (2010)

Ok DIE, ok il concept album à la Lucio Battisti, ok tutto, ma il pezzo più straordinario mai scritto da Jacopo Incani—in arte Iosonouncane, senza alcun dubbio uno dei migliori cantautori della nostra generazione—è “La Macarena Su Roma”. Non è una canzone: è un’allucinazione di nove minuti e mezzo, la narrazione quasi cinematografica (sicuramente catodica) della discesa nella follia dell’italiano medio, spettatore passivo e lobotomizzato di telegiornali mediocri e trasmissioni volgari—vi ricordate i trenini di Buona Domenica? Ascoltata oggi, ha un valore quasi archeologico nel raccontare perfettamente nevrosi, frivolezze e frustrazioni di un’Italia sedotta dall’illusione della “libertà è partecipazione” poco prima dell’esplosione dei social media (e della piattaforma Rousseau). (Giada Arena)

Fabri Fibra – “Vip in Trip” (2010)

Uno dei pezzi più significativi del 2010 ha un testo che dice “Pa pa para para pa pa para” e “Perepé qua qua, qua qua perepé”. Ma dato che lo firma Fabri Fibra, e dato che dice anche parecchie altre cose, eccoci qua a parlare di “Vip in Trip”, primo singolo estratto da Controcultura. Un pezzo che resta, oltre che per il suo giro di basso, per il modo in cui fa quella materia delicatissima che è la satira sociale. Fibra non ha timore di nominare partiti: “Pensi che la beva come chi, come chi vota Lega?” E scende una lacrima, che la Lega del 2010 era ancora quella della secessione e di Bossi. Inoltre, Fibra dimostrava il dono della preveggenza: “Ho un amico che si chiama da solo / Si manda i messaggi con su scritto tesoro/ Si guarda allo specchio dicendo ‘ti adoro’ / Vorrei dirgli ‘ma trovati un lavoro’.” E insomma, è così che sono nati gli influencer. (Carlotta Sisti)

Mecna – “31/07” (2010)

Siamo davanti a un apice del Mecna-pensiero: un rap tristissimo su un amore vissuto fra malinconia, orgoglio e WhatsApp. Il lavoro, le ferie, le vacanze. Tu da solo, lei in giro. “La leggenda del 31, tipo fine, fuochi d’artificio. / Sto pensando al mare dall’ufficio”. È il Corrado più duro e riuscito: una base asciutta che è “Avril 14th” di Aphex Twin, la produzione grezza, il testo urgente con un crescendo (“Quanto manchi?”) da antologia che è un pugno allo stomaco. Dentro “31/07” ci sono dieci anni di relazioni sfasciate, storielle del liceo ed ex fidanzate a cui tanti hanno dedicato questo pezzo. E la sua magia è soprattutto qui: nella condivisione. (Patrizio Ruviglioni)

Noyz Narcos – “Zoo de Roma” (2010)

Da romana, spesso mi chiedo: cos’è la romanità? Non è quella dei cliché, delle fontane settecentesche inquadrate nei film o dei salotti bene, ma è quella dei palazzi, delle buche, degli autobus che prendono fuoco e dei decenni di attesa per avere una casa popolare. È un mix di nichilismo, rabbia, rassegnazione, ironia, “coatto pe’ necessità” insomma, e Noyz è il suo perfetto cantore, il Francesco Totti del rap capitolino. In “Zoo de Roma” racconta senza troppi giri di parole la Roma dell’era Alemanno, l’inizio di una decadenza che sembra non essersi ancora conclusa—così come non si è conclusa l’ascesa di Noyz, che con Guilty si è messo al centro della scena e, dieci anni dopo, è ancora lì. (Giada Arena)

Dargen D’Amico – “Malpensandoti” (2011)

Dargen prende la macchina e va a Malpensa a prendere, dopo mesi che non la vede, una persona con cui condivide una cosa che è amore, però un amore di quelli un po’ complessi. Mentre guida ci rimugina, ci sdigrigna i denti, ci sorride e ci fa venire i brividi per come spiega bene quello che fanno le distanze alle persone. È solo una lunga strofa, senza ritornello—se non in fondo, quando viene fuori un gioco infame di distanze, nel corpo e nella mente, che “non so se sei lontana o vicina / come i bimbi la TV”. (Elia Alovisi)

Gué Pequeno – “Il ragazzo d’oro (feat. Caneda)” (2011)

Il suono è quello crudo e minimale che comincia ad andare in America. I testi sono crudi e potenti, senza giri di parole e con uno stile di scrittura super diretto. La ripetizione da parte di Caneda della parola “bianco” torna per trenta volte. Un pezzo che nel 2011 era semplicemente troppo avanti, e diventa una hit grazie ai fan e grazie a Internet, quando le radio non erano ancora decisamente pronte a questo genere di cose. (Federico Sardo)

Salmo – “L’erba di Grace” (2011)

Le prime impressioni sono molto importanti e Salmo ha ben pensato, ormai otto anni fa, di dire al rap italiano che era arrivato a rompergli i coglioni con una produzione drum & bass col basso bello wonky e un testo che cola sangue da ogni barra. Forse senza volerlo, ci spiega le coordinate della sua voce, quella che aveva allora appena cominciato a conquistare l’Italia. “E tutto sembra fuori posto tranne il mio disordine”, cantava, suggerendo lo scontro tra il suo ego che sgomita e il mondo con cui si relaziona e la scena in cui esiste. E ancora, “L’Italia e la sua musica per checche isteriche / Se la mia voce è nel tuo pc, schizza sangue dalle periferiche”, detto tutto veloce sulla base che si ferma, come a voler sottolineare il senso profondo di queste parole. (Elia Alovisi)

Verdena – “Razzi, Arpia, Inferno e Fiamme” (2011)

“Razzi, Arpia, Inferno e Fiamme” ha un arrangiamento stupendo, una melodia che ti manda in orbita. È un pezzo fuori dal tempo, non perché invecchia benissimo ma perché non invecchia proprio. È un mantra tantrico, con la parte ritmata che ti invischia in un loop ai limiti dell’erotico. I Verdena sono ragazzi di poche parole nella vita reale, ma quando scrivono i loro testi non sense ci danno dentro eccome. “Razzi” non cambia il discorso; però, più di altre volte, le parole sono—e non riesco a trovare un termine più figo da recensore vero—“giuste”. Suonano come un vespro, sembrano pittura su tela, nera e rossa. E ti fanno sentire come se Roberto Benigni non fosse mai esistito. (Carlotta Sisti)

Emis Killa – “Parole di Ghiaccio” (2012)

Il 2012 era una vita fa, eppure sotto al video di “Parole di ghiaccio” i commenti più quotati sono ancora “chi la ascolta nel 201x?”. Siamo di fronte ad uno dei pezzi simbolo del primo Emis Killa, quello che flirtava col pop e che metteva i sentimenti in rima. La fine di una relazione tempestosa si posa su un giro di pianoforte e su un beat vecchia scuola firmato da Big Fish, Zangirolami ed Erba, culminando in un ritornello impossibile da dimenticare. Nella sua urgente e sincera semplicità, “Parole di ghiaccio” è diventata la ballad più iconica del rap italiano. (Simone Zagari)

Club Dogo – “P.E.S. (feat. Giuliano Palma)” (2012)

Il primo grande merito di “P.E.S.” è stato quello di riesumare Giuliano Palma, e anche se siamo in tempi di ok boomer, mi salgono i porconi se non sapete chi sono i Casino Royale. Giuliano, che ai tempi in cui metteva la voce in “Aspettando il sole” di Neffa si faceva ancora chiamare “The King”, era finito in un mesto dimenticatoio. E poi sono sono arrivati Joe, Guè e Jake a proporgli di fare la voce soul in un pezzo rap che parla di un videogioco. Operazione svecchiamento che sulla carta sarebbe potuta finire malissimo—un momento di raccoglimento per i Due di Picche, composti da Neffa e J-Ax e durati meno di una mano di briscola—ed invece è diventata una figata. E i Dogo erano in formissima, sia nelle parti più sbraco che in quelle più emo: “Dedicato a chi ha il diploma eppure non lavora / Dedicato ai miei fratelli con lavori strani / Tipo che iniziano la sera fino all’indomani / Per comprare nuove Nike e giochi della Play”. (Carlotta Sisti)

Fine Before You Came – “Sasso” (2012)

C’è stato, per qualche anno, uno smuoversi di persone e sentimenti in tutta Italia. Una rete di persone che ha costruito una scena che c’entrava con le parole “emo”, “punk”, “DIY”. C’è ancora, quella scena, ma il suo momento di apice è stato quello in cui sono uscite cose come “Sasso”. Il suo lento incedere, come una calamita, attira a sé chi ha una di quelle sensibilità per cui i pugni chiusi nelle tasche, la pioggia e le matasse che non si riescono a sbrogliare sono generatrici di brividi. (Elia Alovisi)

Pop X – “Cattolica” (2013)

Davide Panizza e i suoi amici hanno fatto la cosa più difficile di sempre nel far musica, cioè fare una cosa che suona tutta semplice e naïf ma ha una poetica così complessa e splendida in tutte le sue sfaccettature che è un casino da spiegare. Non credo ci sia modo migliore per farlo se non con una cosa che ho già scritto sulla canzone che meglio contiene questa dicotomia, cosa che ora copio-incollo. “Stai qui con me nell’acquario di Cattolica” è una frase all’orizzonte degli eventi, e una volta pronunciata le leggi della fisica smettono di aver senso. Puoi trovare “una morte parabolica”, la tua “essenza più ecologica”, “una memoria psichedelica”, e tornare (o arrivare?) al tempo indefinito “in cui correvi senza mutande, in cui c’avevi tre anni e ti importava di niente”. E un bambino che si impiastriccia con la sabbia mezzo nudo e corre felice e piangente senza motivo è l’immagine giusta, credo, per spiegare quello che Pop X vuole comunicare. (Elia Alovisi)

Fast Animals & Slow Kids – “A cosa ci serve” (2013)

Le cose che dicono i Fast Animals And Slow Kids sono di quelle che fanno provare un senso di repulsione a chi è un po’ cinico, serioso, intransigente, sia nella vita che nei consumi culturali. Ci sta che quando le chitarre crescono e crescono, le voci si fanno coro, e nel silenzio prima della carica Aimone grida “LO SO CHE È MEGLIO SE ESPLODO!” vengano i brividi brutti. Però ci sta anche che vengano quelli belli, no? Quelli che accettano l’esagerazione, il pathos, la hybris, i gesti plateali, se fatti da persone che li fanno perché, sotto sotto, davvero li fanno sinceramente. E nessuno che suona con le chitarre, in Italia, ha saputo creare un campo sentimentale forte come questo negli ultimi dieci anni. “A cosa ci serve se non ci crediamo più”, no? (Elia Alovisi)

Clap! Clap! -“The Rainstick Fable” (2014)

Quando il Guardian ha chiesto a Cristiano Crisci che canzone metterebbe al suo funerale, lui ha scelto “The Rainstick Fable” perché “è un pezzo pieno di bassi”, e quindi perfetto per fare casino un’ultima volta. Bassi a parte, è un’ottima scelta: l’estratto perfetto da Tayi Bebba, suo LP d’esordio a nome Clap! Clap!, ariete che gli ha permesso di sfondare i cancelli della scena elettronica internazionale a forza di ibridazioni transnazionali. Nella sua musica ci sono la tradizione italiana, le percussioni dell’Africa dell’ovest, la footwork, campionamenti che arrivano da ovunque. Se ne accorse il DJ della BBC Gilles Peterson, che cominciò a supportarlo. Se ne accorse Paul Simon, quel Paul Simon, che lo fece lavorare ad alcune sue tracce. Ce ne siamo accorti noi, che ancora oggi balliamo ai suoi ritmi frenetici, con le casse toraciche che vibrano. (Elia Alovisi)

C’Mon Tigre – “Federation Tunisienne De Football” (2014)

Nel 2014, “Federation Tunisienne De Football” e l’omonimo album in cui è contenuta sono stati un piccolo miracolo di contaminazione: non solo hanno segnato l’esordio dei C’Mon Tigre, polimorfo e validissimo collettivo di musicisti, ma hanno contribuito a far sbocciare nel nostro paese delle sonorità che poco hanno a che vedere con l’occidentalissima musica che siamo abituati ad ascoltare. Per capire cosa intendo, basta guardare il video che accompagna il pezzo: una partita di calcio, dei piedi nudi, elefanti, sabbia, colori. La musica dei C’Mon Tigre è così: la ascolti e ti senti sulla pelle il calore del sole, l’odore del Mediterraneo. (Giada Arena)

Claver Gold – “Soffio di Lucidità” (2014)

“Il compromesso che non ho accettato già da prima / Altrimenti troveresti la mia faccia in copertina.” Sta tutto qua, in queste due semplici frasi, Claver Gold. Un rapper che è rimasto orgogliosamente fedele alla tradizione dell’hip-hop ma senza mai chiudersi in una mera difesa di un piccolo regno—Claver accoglie. Con le sue rime ti tira da una parte e poi da un’altra. Ricorda a quelli come me, che scrivono ora, che “Su riviste e su giornali qui non conta quanto vali / Sono tutti buoni amici quando paghi e quando sali”, e nel giro di qualche barra parla della “Calamità di un guaio sceso nel gelo a Gennaio”. Tutto a un tratto ti rendi conto che è un amore: “Sopra il mio cuore d’acciaio venne la tua calamita”. E che è amore ogni cosa di cui canta, Claver. Amore per sé stessi, per l’amicizia, per i valori, per la propria Terra, per la bellezza. (Elia Alovisi)

Ghemon – “Adesso sono qui” (2014)

Semplicemente il primo pezzo del nuovo Ghemon. Quello che un tempo cantava Qualcosa cambierà e poi ha cantato Qualcosa è cambiato, ma non era cambiato davvero. Dentro continuavano a fluttuargli fantasmi, i suoi piedi erano bloccati a terra dalla tradizione del rap. “Un’altra parte di me spingeva per venire fuori, ma non era accettata [dalla scena]”, ha detto quest’anno, e “Adesso sono qui” è esattamente il momento in cui è venuta fuori. “E non mi importa più di tutto ciò che è stato / Non c’è la rabbia e la paura che mi ha spaventato”, canta Ghemon, che adesso è qua e lo resterà sempre. (Elia Alovisi)

Maruego – “Click Hallal” (2014)

Qui comincia tutto. Se pure Maruego in seguito è stato superato in popolarità da molti suoi colleghi, nell’estate del 2014 il suo modo di fare rap sembrava arrivato da un altro pianeta. Prodotto dai 2nd Roof e appoggiato da nomi di peso come quelli di Gué, Caneda e Tormento, Maru è stato il primo a farsi notare facendo qualcosa di assolutamente diverso in Italia, il primo a percorrere la strada che poi ha portato all’esplosione definitiva delle sonorità trap. (Federico Sardo)

Riviera – “Camminare sui muri” (2014)

Uno dei motivi per cui l’emo italiano non si è evoluto tanto negli ultimi dieci anni è che molte delle nuove leve si sono limitate a provare a rifare le cose che gli avevano sinceramente trafitto il cuore di bellezza. Al netto del valore della loro musica, tanti gruppi nati negli anni dopo Sfortuna dei Fine Before You Came si sono risolti in un disco, un EP, qualche concerto e niente più. I Riviera, invece, sono ancora qua. Perché sono tra i pochissimi ad essersi costruiti un’identità, una fanbase, un immaginario condiviso ma innegabilmente loro. La tromba, le sfuriate, la dicotomia io-te, le immagini assurde ma perfette—come quella che chiude la loro hit “Camminare sui muri”, cioè “Coi lacci rotti ho fatto un nodo che mi servirà, da traccia per il mio ritorno, sembra stretto.” Ancora oggi, sentirla dal vivo è ricordarsi perché l’emo sa accendere così tanto l’anima. (Elia Alovisi)

Calcutta – “Che cosa mi manchi a fare” (2015)

Dopo quel 27 settembre 2015 l’indie in Italia non è stato più lo stesso. Col cuore in mano, Calcutta urlava che non gli importava di non essere più amato e che avrebbe solo dovuto reimparare a camminare da solo. Un’immagine tanto semplice quanto evocativa che immediatamente ha affascinato tutti, anche il grande pubblico. Perché in meno di 3 minuti Calcutta ha dato a una generazione un inno d’amore amaro, schietto e allo stesso tempo nazionàl-popolare, che ti fa sentire capito, meno solo, perché anche tu, come tutti gli altri che cantano questa canzone, stai vivendo quelle emozioni. È un brano che può essere di tutti e di nessuno allo stesso tempo, in cui chiunque può rivedersi, ma allo stesso tempo non riusciremo mai a capirlo veramente, un po’ come l’amore. Ed è per questo motivo che lo abbiamo scelto come nostro canto di vittoria dei cuori infranti. (Cecilia Esposito)

Machete – “Battle Royale” (2015)

Un loop ipnotico di otto minuti e mezzo tutto bassi e batteria su cui MadMan, Nitro, Rocco Hunt, Salmo, Bassi Maestro, Hell Raton, En?gma, Noyz Narcos, Rasty Kilo, Gemitaiz e Jack The Smoker (ok, tirate pure il fiato adesso) danno il meglio di sé. “Battle Royale”, emblema della famiglia Machete e del loro concetto di Mixtape, è LA posse track del decennio, certo, ma è anche qualcosa in più. Queste 11 strofe senza ritornello sono genuina comunione d’intenti, l’incarnazione di un modo di intendere e fare rap che troppo spesso oggi sembra scomparso. Quando ne avremo abbastanza dei social, del gossip e dello spettacolo sono sicuro che ci ritroveremo tutti qui, alla vera essenza di ‘sta roba. (Simone Zagari)

Dark Polo Gang – “Cavallini (feat. Sfera Ebbasta)” (2015)

Prima del 2015 il rap mainstream in Italia si divideva tra pochi nomi che si erano costruiti una credibilità negli anni—come Fabri Fibra, Marracash e i Club Dogo—e nomi relativamente nuovi che si erano fatti trascinare troppo presto nel giro di Sanremo. Poi sono arrivati due mixtape che hanno sbloccato la situazione: Full Metal Dark della Dark Polo Gang e XDVR di Sfera Ebbasta. Mentre le rispettive fanbase crescevano con una rapidità senza precedenti, tanti critici e ascoltatori presi in controtempo provavano a difendere quello che consideravano “il vero rap” contro la trap. ” Cavallini”, il singolo in cui finalmente le due realtà, Roma e Milano, si incontrano, è uno schiaffo ai conservatori e una sentenza su come la musica italiana sarebbe cambiata da quel momento in poi. (Tommaso Tecchi)

MYSS KETA – “Le ragazze di porta Venezia” (2015)

Il 19 ottobre 2015 un gruppo di ragazze portò scompiglio a Milano, nel quartiere di Porta Venezia. Era un’emergente Myss Keta con le sue ragazze che, con le loro provocazioni, diffusero la loro voglia libertà in città. Ma era solo l’inizio. Il brano è diventato un vero manifesto al femminile, una sorta di Girls Just Wanna Have Fun degli anni Duemila. Con ironia e provocazione, e una buona dose di trash intelligente, questo brano è stato per Myss Keta il passo a gamba tesa per diventare un’icona femminista e LGBT+ del nostro decennio. La forza del brano sta nel suo essere un inno di libertà e spensieratezza, ma anche di affermazione e lotta a colpi di tacco a spillo per tutte le persone che, in un modo o nell’altro, si sentono un po’ ragazze di Porta Venezia. Il resto è storia—oppure leggenda. (Cecilia Esposito)

Bello Figo – “No Pago Affitto” (2016)

Correva l’anno 2016, di lì a pochi mesi Matteo Renzi avrebbe perso il referendum costituzionale e fatto cadere il governo, e in piena polemica anti-migranti l’Italia conosce le prime fake news su suite d’hotel con wi-fi debole, pagate dai contribuenti per i richiedenti asilo. Bello FiGo, che fino a poco prima si limitava a dire cose nonsense e ripetere nomi di vip nelle sue canzoni, decide insieme al fido GynoZz di tirare fuori lo stunt del decennio, trollando tutto il paese con un singolo rappato dal punto di vista di un immigrato viziato e scroccone. Long story short: un mese dopo Bello FiGo è ospite di una trasmissione di Belpietro e dabba Alessandra Mussolini in diretta nazionale. Swag barca. (Tommaso Tecchi)

Cacao – “Brasilio” (2016)

“Brasilio” dei Cacao è un pezzo che fatto esplodere più teste di Ken il Guerriero. Chiunque abbia mai visto il duo ravennate dal vivo si ricorda esattamente come si è sentito quando è partito questo pezzo. La formula della band (a base di basso, chitarra ed effetti) è talmente essenziale che quando beccano la combinazione giusta di ripetitività, orecchiabilità e ballabilità sintetizzano una perla perfetta di musica assolutamente libera e originale. Lo dico? Lo dico: una volta ho ascoltato questa canzone mentre ero fatto di LSD e, giuro, sono stato su Saturno. (Giacomo Stefanini)

Cosmo – “L’ultima festa” (2016)

Uno spartiacque si è delineato in Italia nel dominante genere chiamato “It-pop”. Da un lato il cantautorato melodico/sentimentale Calcuttiano e Thegiornalistiano; dall’altro, la scanzonata energia positiva di Cosmo, rara specie di arcobaleno umano che, seppur sonoramente rientrante nella macrofamiglia dell’indie nostrano 2.0, ha saputo sperimentare qualcosa di fresco lavorando su produzioni elettroniche interessanti, anche approfondite nel collettivo di Dj e musicisti Ivreatronic di cui è fondatore. “L’ultima festa” è l’inno di questo cambiamento, del passo in là fatto oltre la linea, diventato immediatamente tormentone radiofonico, balneare, di ogni comunione-cresima e battesimo sino alle sagre di paese. Tradizione vuole che, durante l’esecuzione del pezzo, Cosmo inviti sul palco il pubblico a cantare e ballare con lui sotto una pioggia di coriandoli luccicanti, trasformando il palco in un pogo degno del più ardito Tagadà. Non sarebbe mica giusto definirla, altrimenti, una festa. (Laura Caprino)

Izi – “Chic” (2016)

Un ragazzo ligure che vive alla giornata e scrive barre da anni riceve una chiamata da una casa di produzione romana. Nel giro di un attimo è il volto di un film sul rap italiano che oggi è meglio dimenticare, ma ha il merito di avergli dato la piattaforma per cominciare a modellare la sua identità artistica. Con la rilavorazione di “Chic” pubblicata nel suo esordio Fenice, Izi mette in chiaro con enorme potenza le coordinate della sua arte: vignette e ricordi, creazione di dialoghi, slancio verso l’interno. Quelle che poi affinerà in Pizzicato e porterà a compimento nello splendido groviglio che è Aletheia. (Elia Alovisi)

Luche – “Che Dio Mi Benedica” (2016)

Ci ha messo tanti anni, Luche, a prendersi la sua città, la sua regione e l’Italia. È dovuto passare per separazioni dolorose, trasferimenti all’estero, giochi di potere, false partenze. “Che Dio Mi Benedica” è il risultato di tutte le sue esperienze, un perfetto riassunto del vissuto del suo autore. Ma anche il momento in cui ha dimostrato di saper scrivere un classico senza dover parlare di strada, senza doversi dipingere inscalfibile, senza usare il dialetto. E ce l’ha fatta con un brano scarno, sorretto da una chitarra acustica, perfetta per esprimere una semplice verità: “Ma come puoi amare un altro se non sai amare te stesso?” (Elia Alovisi)

Ghali – “Wily Wily” (2016)

La prima cosa in assoluto che ho amato di Ghali quando ha smesso di essere Ghali Foh è che non sembrava aver alcun bisogno di scimmiottare i rapper americani. La seconda è che nelle pochissime interviste che ha rilasciato in quel periodo non ha detto niente a nessuno, svicolandosi dal tentativo dei vari Fazio e Saviano di fare di lui una voce politica. Non ce n’era, d’altronde, alcun bisogno, perché in “Wily Wily” c’era già tutto quello che Ghali aveva da dire sull’argomento. E lo aveva fatto su una produzione incredibile di Charlie Charles, giocandosi la carta dell’interlinguismo con intelligenza, senso delle cose e con stile. “Stile”: parola che può parere sciatta ma che io credo sia una sorta di sesto senso che ti porta a scrivere “Son venuto in pace / Questa guerra, questa merda / Giuro, wallah, fra’ non mi piace / Io sono un negro, terrorista / Culo bianco, ladro bangla e muso giallo / Trasformo Baggio in un posto più bello”, e ad immaginarti tutto questo cantato nel deserto della Giordania, alle porte di Petra. (Carlotta Sisti)

I Cani – “Sparire” (2016)

Difficile scegliere il brano più rappresentativo de I Cani. Perché proprio Sparire? Perché è l’unica degna conclusione che ci meritiamo. Ultima traccia dell’ultimo album della band, Sparire è una riflessione amara e nichilista sull’esistenza umana. Dopo tre album che immortalano e analizzano, con ironica critica, un’intera generazione di giovani italiani, l’unica soluzione possibile è la lucida accettazione che, qualunque cosa facciamo, alla fine dobbiamo sparire. Tra citazioni cinematografiche, riferimenti biblici e struggenti note di un pianoforte, Contessa si arrende a capire il genere umano e cerca di abituarsi all’idea di dover scomparire. E, ironia della sorte, alla fine è sparito davvero. (Cecilia Esposito)

Night Skinny x Rkomi – “Fuck Tomorrow” (2016)

“Il disco di Rkomi sarà il nuovo Illmatic. Sei il nuovo Nas italiano, fidati di me”, dice una voce registrata all’inizio di “Fuck Tomorrow” di Skinny e Rkomi, pubblicata sullo scadere del 2016 e poi inserita in Pezzi. Nei tre anni che sono passati da allora, Mirko non è diventato il nuovo Nas italiano. La sua voce unica e il suo rap immaginifico non hanno perso valore, ma si sono circondate dei cuscini del pop. Questo brano, invece, ha dentro il Mirko che avrebbe fatto (e può ancora fare) l’Illmatic italiano. Quello che butta immagini da brividi sulla traccia come se fosse la cosa più semplice del mondo, quello a cui viene naturale unire strada e pensiero. Non è un caso che il beat sia di Skinny, il producer che meglio ha saputo cogliere la sua essenza e meglio gli ha permesso di tirarla fuori, e di regalarcela. (Elia Alovisi)

Tedua – “Buste Della Spesa” (2016)

“Buste della spesa” è stata tanto il trampolino quanto l’oracolo del percorso artistico di Tedua, e basta citare l’incipit del pezzo per capirlo: “Se mi ricordo quando fottevate Tedua, beh / Ne è passato di tempo / Oggi tu hai l’ansia fallimento / Il flow, frà, farà a tutti voi da esempio”. E il buon Mario ha mantenuto la parola, dando l’esempio a suon di flow, lessico, metriche e contenuti, imponendosi come uno dei rapper di punta della nuova scuola. Non vi conveniva fottere Tedua nel 2016, oggi ancora meno. (Simone Zagari)

Charlie Charles – “Bimbi” (2017)

Proprio nel momento in cui la “Nuova Scuola” è all’apice del suo splendore, l’ennesima produzione perfetta di Charlie Charles (questa volta pubblicata con in calce il suo nome) ospita contemporaneamente le sue stelle più luminose: Izi, Rkomi, Sfera, Tedua e Ghali. “Bimbi” è un all-in, uno spartiacque tra ciò che era prima e ciò che è stato dopo: un producer che avrebbe vinto Sanremo e cinque rapper che avrebbero preso strade diverse in major, ma che nel 2017 hanno voluto un beat di Charlie e l’hanno saputo usare. (Simone Zagari)

Coez – “La musica non c’è” (2018)

Nel 2017, quando in giro non si sentiva altro, ho odiato “La Musica Non C’è”. Poi col tempo ho realizzato che farsi odiare è un talento che hanno i veri tormentoni, e sono stato contento che a rompermi le scatole fosse Silvano – che ha fatto la gavetta nel rap e ha un’idea coerente di musica. La verità è che l’estetica del nuovo pop italiano è in questo pezzo qui, col ritornello sing-along, le frasi d’amore già pensate per le caption di Instagram, i giochi di parole e la produzione “a sottrazione” di Niccolò Contesa. Non c’è niente di nuovo, è semplicemente la sintesi più efficace possibile fra rap, pop, itpop e graffiti pop. E dimostra perché, di questa wave, Coez ha in mano lo scettro. (Patrizio Ruviglioni)

Coma_Cose – “Anima Lattina” (2017)

La magia che Fausto Lama e Francesca California hanno creato con “Anima Lattina”, in quella stanza bianca tutta vuota in cui hanno girato il suo video, nasce dalla comprensione che per essere “pop” il rap non deve per forza piegarsi in obbrobri radiofonici—le rime e la malinconia dei millennial possono innestarsi anche su una musica popolare costruita sui riferimenti dei grandi cantautori e del pop barocco. (Elia Alovisi)

LIBERATO – “NOVE MAGGIO” (2017)

Ognuno custodisce un guilty pleasure musicale, un pezzo che spacca in due la playlist dei preferiti e non si rivelerebbe mai, potendo compromettere curriculum forbiti di noise destrutturata e rumore bianco. A LIBERATO si deve tutto il merito di aver portato alla luce del sole, abbasc’ a Mergellina, l’amore per la tradizione neomelodica napoletana, ingiustamente relegata in un gap spazio-temporale che parte dai classici di Roberto Murolo e, non si sa bene come, termina in Alessio e Gigione. Col volto coperto canta in dialetto partenopeo mescolando inglesismi, scrive d’amor perduto rispettando i temi sentimentali tipici del genere e fonde step elettronici a morbidezza R&B. Soprattutto, scolpisce nella pietra iconici versi che, se fossimo al liceo, avremmo immortalato sulle pagine della Smemo lamentandoci di una cotta non corrisposta: “ Nun m’ sentì, nun m’ pens’ / Tengo o’ core ca’ nun può purtà paziènz”. Leggendario. (Laura Caprino)

Mana – “Crystalline” (2017)

C’era un tempo in cui Daniele Mana si faceva chiamare Vaghe Stelle e si muoveva silenzioso nell’underground elettronico italiano, elevandone la caratura artistica. Nel 2017, poi, la virata: il moniker viene abbandonato per fare spazio al nuovo ed emblematico progetto Mana, che debutta sulla prestigiosissima Hyperdub proprio con il singolo “Crystalline”. Synth taglienti e l’eco di percussioni lontane tracciano una linea sottilissima tra artificiale e naturale, donando la meritata consacrazione internazionale ad una delle figure più importanti dell’elettronica tricolore. (Simone Zagari)

Squadra Omega – “Le Oscillazioni Dell’Universo Giovane” (2017)

Fare un collettivo di improvvisazione e creare album pazzeschi con costanza per anni non è un gioco facile a cui giocare, a meno che tu non sia la Squadra Omega. Il loro Materia Oscura, uscito nel 2017, è un esempio a cui possono guardare tutti i musicisti italiani che rifiutano la forma-canzone, e “Le Oscillazioni Dell’Universo Giovane” è la traccia di 18 minuti che lo chiude. Come si era detto allora, “è una progressione caotica che mette insieme squilli free jazz, oscillazioni elettroniche e arpeggi acustici in una vera propria danza intergalattica alla fine della quale si sente il bisogno di ricominciare immediatamente da capo”. (Elia Alovisi)

Sfera Ebbasta – “Cupido (feat. Quavo)” (2018)

Rockstar è il disco che sancisce definitivamente il trionfo del rap italiano degli anni Dieci, diventando l’album più ascoltato in assoluto nel 2018 nel nostro paese. Uno dei suoi pezzi cardine è quello che presenta il featuring non di una vecchia gloria o di un nome minore, come siamo spesso abituati a vedere da queste parti quando si tratta di collaborazioni internazionali, ma di uno dei rapper più famosi del mondo. (Federico Sardo)

Any Other – “Walkthrough” (2018)

Adele Nigro ne ha fatta di strada dall’album Silently. Quietly. Going Away, e in punta di piedi è arrivata nel 2018 con il suo “secondo debutto” Two, Geography, un album denso e stratificato, che ha confermato Any Other come uno dei progetti più interessanti da portarci nel prossimo decennio. Prendete “Walkthrough” un brano con dei fiati quasi jazz e un piano che squilla qua e là, ma prima di tutto una confessione intima, quasi violenta di una donna, Adele, che si mette a nudo per i suoi ascoltatori, e soprattutto per se stessa. Non è mai facile parlare d’amore, soprattutto quando ha lasciato dolore, ma Any Other sembra sacrificarsi nel farlo come espiazione delle proprie colpe e condivisione della propria sofferenza per poter andare avanti. Come quando a denti stretti grida I asked you: “Fuck me as hard as you can” / I wouldn’t feel anything. Ci vuole coraggio per dire una cosa simile a chi si ama, ma ancora di più per ammetterlo a se stessi—per poi rinascere. (Cecilia Esposito)

Holiday Inn – “Torbido” (2018)

La canzone che chiude il primo vero album degli Holiday Inn è un prisma che ha fatto materializzare un arcobaleno di versioni e remix, un inno per un sottobosco italiano che ha il potenziale per diventare una scena a sé. Realtà come Tropicantesimo, Blak Saagan, Acchiappashpirt, che hanno partecipato alla compilation di cover, vanno oltre il genere, oltre ogni schema, e con la propria musica mostrano un coraggio artistico che non si vedeva da anni nell’underground italiano. E ho il sospetto che “Torbido” abbia qualcosa a che vedere con questo. “Il Torbido / Meglio se non ce l’hai / Sennò tiralo fuori / Può confonderti, sta a te / Non finire male”. (Giacomo Stefanini)

Nu Guinea – “Je Vulesse” (2018)

Non esiste radio, dj set, festival (anche internazionale), in cui questa traccia non sia stata suonata ininterrottamente per un anno, quasi due. I Nu Guinea esplodono con una solarità partenopea irresistibile e una fucina di hit napoletane che riprende l’eredità musicale più interessante della città: il funk, il jazz, la disco. Dal vivo o in cuffia, “Je Vulesse” è una traccia di cui ci si innamora per forza dalle prime note, illuminando la giornata con riff anni Settanta e gorgheggi da usignolo della cantante Fabiana Martone. Quando Lucio Aquilina e Massimo Di Lena hanno deciso di virare la propria carriera nella techno minimal in favore di una rivisitazione dello stile e del sound della terra da cui provengono, forse non erano consapevoli che avrebbero composto uno dei pezzi più rilevanti per la musica italiana del decennio. E forse è questo il bello, perché un fortissimo entusiasmo e o’ cor’ e’ Napule’ sono l’anima spontanea e irriverente di “Je Vulesse”, e di tutti i Nu Guinea. (Laura Caprino)

Madame – “Sciccherie” (2018)

A 16 anni, Madame ha rovesciato le regole del sistema del rap applicato alle donne. A lei di quello che gli ascoltatori del rap si aspettano da una rapper non frega niente. “Sciccherie”, il suo secondo singolo, lo dimostra: un’originalità naturale, dato che se a quell’età fai uscire un pezzo senza avere dietro nessun burattinaio, allora quella è proprio la tua cifra stilistica. Un’intelligenza raffinata e una spiccata ironia, elemento spesso inserito in maniera troppo facilona nella musica italiana. “Sciccherie” è il solo pezzo che, pure in un buon momento per le artiste che fanno rap, rimarrà come davvero significativo in quanto pezzo di una rapper, perché ha l’impatto di una palla da demolizione. Demolisce luoghi comuni super noiosi come le droghe (“Io non mi drogo, sciolgo le pastiglie digestive”), e l’essere bone e fare strage di tipi. Lei canta “Uscire con l’abito nero e sciccherie / Mentre metto cose per sembrare come quelle un po’ più fighe”. (Carlotta Sisti)

Speranza – “Chiavt a Mammt” (2018)

A volte bastano un type beat afrotrap, una maglia di Feghouli, una sdraio da lanciare nel mare e una canzone nel cuore per fare la storia. “Chiavt a Mammt” di Speranza è, prima di tutto, un pezzo che si stampa nella testa di chi lo ascolta immediatamente, anche solo per l’effetto che fa il suo titolo gridato con il raspino in gola nel ritornello. Ma poi, se ci si mette a leggere bene le parole che Speranza smitraglia dalla bocca, si scopre la voce di un ragazzo dalla storia unica. Risultato di un incrocio di culture e lingua, Ugo Scicolone è un concentrato di ibridazione, credibilità, umiltà e slancio creativo. Tutte cose di cui il rap italiano, a fine decennio, aveva un bisogno disperato. (Elia Alovisi)

Young Signorino – “Mmh ha ha ha” (2018)

Nel 2018 ho intervistato Dua Lipa, e mi ha parlato di Young Signorino. Quando è uscito il pezzo con relativo video si è creato un dibattito nel quale è intervenuto perfino Simon Reynolds. Per quanto il brano sia rappresentativo del suo autore soltanto fino a un certo punto, per quanto il suo autore ne sia rimasto un po’ vittima, per quanto si sia poi scoperto che la base non era originale… Ci sono tanti “per quanto” che si possono dire, ma resta un pezzo dall’impatto fortissimo e completamente alieno, che non poteva lasciare indifferenti. Ha fatto parlare mezza Italia, dai bambini agli anziani alle televisioni, e ha fatto identificare “la trap” con i tatuaggi in faccia e con il linguaggio sincopato fatto di puro suono di questo brano assurdo. (Federico Sardo)

Massimo Pericolo – “7 Miliardi” (2019)

Sullo scadere del decennio il rap italiano è all’apice e quasi tutti i nomi che fino a poco tempo prima erano ancora esordienti di belle speranze sono diventati delle star. All’improvviso arriva un ragazzo incazzato nero, che grida come non si sentiva da tempo, e riporta il rap allo spirito brutto, sporco e cattivo da cui si stava un po’ allontanando. Con i suoi altri pezzi confermerà anche di saper fare ben altro e sigillerà un talento purissimo, ma la botta di “7 Miliardi” non ce la dimenticheremo facilmente. (Federico Sardo)

Mahmood – “Soldi” (2019)

E chi se lo aspettava che ci saremmo presi pure Sanremo? “Soldi” ha tutto quello che deve avere un grande pezzo pop internazionale contemporaneo. Innanzitutto Dardust e Charlie Charles, due producer che vengono da diversi mondi e modi di fare, oltre che generazioni. Poi un ragazzo con una voce di Cristo, così da rendere felici anche quelli che la prima e unica cosa a cui fanno caso è quella. Infine, il fatto che il ragazzo con la voce di Cristo non sia solo un interprete ma anche una persona con un’identità artistica forte, una storia da raccontare, un futuro che è un piacere immaginare. (Elia Alovisi)

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