La primavera s’infiltra tra gli infissi mentre spiamo l’esterno. Nelle case implode l’inverno della quarantena ma fuori s’allarga un’esagerazione di verde e cinguettii musicali, tra sbuffi di sole, tarassaco e margherite. La carne sente il richiamo, ricorda il suo debito di pelle scoperta.
Moltissimi tra noi sono a distanza cosmica e odiosa rispetto alle persone che vogliono e desiderano, che si tratti d’amici o d’amanti. Non possiamo fare altro che scorrere un conto in rosso d’affetto, di abbracci in disuso e labbra rimesse a nuovo dai baci che mancano. L’umore, ormai marcio.
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Alla sera, ci si ritrova ancora più in basso e diventa comodo farsi accompagnare dalla giusta colonna sonora. “Non so più quando è giorno / Non guardo l’orologio, la mia vita è un sogno”, cantano Mecna e Sick Luke, forti dell’emoji triste che dà il titolo al pezzo, “:(“. “Queste città sono bollenti anche a dicembre e fanno / Venire voglia di scappare, andare via soltanto”, insistono.
È una fuga al ralenti già nel pezzo principale, contenuto in Neverland, e che però nella versione slowed + reverb subisce un trattamento ulteriore ed estremo: viene rallentato fino a quando la voce diventa un rantolo cavernoso di dolore e il registro generale si trasforma in una ode alla malinconia terminale. Sullo sfondo, un frammento in bianco e nero rubato da un cartone animato, con quattro teschi ballerini e sgranati che danzano a vuoto.
Il brano è rallentato fino a quando si trasforma in una ode alla malinconia terminale.
Si tratta di uno dei tanti esempi di un nuovo filone—nemmeno troppo nuovo, come vedremo—che infesta lo spazio siderale del web: un angelico parassita affamato dei nostri sentimenti più romantici. Su YouTube, via Reddit, in quel di Soundcloud e negli anfratti dedicati dei gruppi privati, sta fiorendo infatti una pratica che si dedica soltanto a ridurre allo stremo la velocità di canzoni già note, per poi immergerle in una nebbia di riverbero: slowed + reverb, appunto.
I brani che da noi attecchiscono di più sono quelli che contengono già in partenza una buona dose di nervi scoperti e sentimenti a fior di pelle. Tutto un girone fatto d’itpop ed emo trap, indie e cloud rap (benché il rap classico non manchi), composti da melodia e fragilità emotiva che s’intravedono quasi a occhio nudo, raggi-x dell’anima: PSICOLOGI, Coez, Carl Brave x Franco126, Calcutta, Luchè, Tedua & Sfera Ebbasta, persino un drogatissimo tha Supreme o “L’ego“, tratta dall’ultimo album di Marracash.
A differenza della controparte internazionale, insomma, qui l’humus locale si fa sentire con forza; tanto che al processo di manipolazione non sfugge nemmeno la trap più tetra e greve di FSK Satellite e Dark Polo Gang, e in generale non sfugge quasi nessuno della nuova scuola. Ma è comunque una musica facile e smussata dagli angoli più duri, tecnicamente spesso grezza e sgraziata, composta quasi sempre da musicisti e utenti alle prime armi, che vogliono lanciare il cuore oltre ogni obiettivo per il semplice risultato di una canzone in più che ci faccia a pezzi quando arriva sera.
Si tratta di una formula semplice e ripetuta con variazioni minime, tutt’al più distinguibile dalle gif e dai loop animati in accompagnamento, una cascata di frammenti notturni tratti da anime e imbevuti di estetica vaporwave. Il risultato, però, è stranamente quanto di più prezioso possa accompagnare queste strane giornate.
Una formula semplice che però è preziosa in queste strane giornate.
All’ascolto viene infatti a crearsi un suono psichedelico e sognante, immerso in un sottofondo di malinconia devastante, aumentato a dismisura da quelle gif che evocano un’altra memoria ormai persa, l’ennesimo infinito mondo andato a male o dimenticato. Doppiamente prezioso, visto che i risultati finali si trasformano e sublimano in una versione pop di sperimentatori e avanguardisti del calibro di William Basinski o The Caretaker.
Tutto questo, in realtà, non è davvero così nuovo e ha delle fondamenta e dei motivi più ampi e profondi. Nell’ultimo decennio, infatti, l’indole malinconica e notturna musicata da molti artisti si è allargata verso un generale sentimento d’inadeguatezza e d’incertezza, dovuto alla situazione sociale, economica e politica mondiale.
L’ansia, le tasche vuote e la nostalgia si sono accaparrate la maggior parte della popolazione con una voracità rara, rosicchiando fino all’anima per lasciare solo un futuro monco e inquieto, a pezzi e ormai persosi per strada. Una situazione perfettamente rappresentata dalla maggior parte dei dischi di questi ultimi anni, gonfi di psicofarmaci e tristezza terminale.
Già a partire dal 2005 un paio d’importanti critici musicali inglesi, Simon Reynolds e Mark Fisher, avevano cominciato a utilizzare un’espressione rubata alla filosofia e alla critica politica, “hauntology”, per descrivere una musica ripiena di fantasmi e di nostalgia. Un suono letteralmente posseduto da un domani che non sarebbe mai arrivato, e da un passato che non è nient’altro che una discarica di scorie radioattive emotive.
Una musica piena di fantasmi e di nostalgia, posseduta da un domani che non arriva.
Solo che quei fantasmi non se ne sono mai andati e infestano più che mai le strade, esattamente come Pennywise infesta tutt’ora le fogne di Derry, le pagine di IT e la memoria di Stephen King. E proprio come lui, come esso, assumono molte forme, mutevoli e altrettanto incerte: a seconda del momento, si trasformano in depressione e disperazione, rimpianto o erosione della memoria.
Questi spettri, però, non hanno idea di come scorra per noi il tempo e per questo compiono un girotondo continuo tra ciò che c’era oggi e che quel che verrà domani, attraversando ogni momento. All’inizio dei Novanta già si muovono per cercare una forma compiuta, perché hanno bisogno di trovare dei corpi pronti a contenerli.
Non li trovano, ma s’imbattono in un negromante di prima grandezza: DJ Screw. Che, imbevuto di marijuana e dei primi beveroni di lean—così vuole la leggenda e tramandano i canti—, comincerà a infilarli nel suo ritmo personale: quello che fa è rallentare i pezzi gangsta rap fino allo sfinimento, per sfiancarli a morte e produrre una narcolessia musicale in totale accordo con le sue percezioni. Canzoni chopped & screwed: fatte a pezzi e sputtanate.
A novembre del 2000 Dj Screw muore per una dose combinata di codeina, alcool e dio sola sa cos’altro, aumentando il numero totale delle anime senza riposo. Ma nel frattempo ha generato a sorpresa una vena d’oro inattesa e sublime, che conta migliaia di seguaci.
È una forma di solitudine che paradossalmente ci unisce tutti.
Quando l’ennesimo spettro—quello del primo internet veramente popolare, di Napster, Soulseek e scambi peer-to-peer—si affaccia sul palco, il resto delle presenze, affamate della vita degli altri, scorrono da quei mixtape per arrivare a un pubblico pressoché enorme, lasciando che il mondo scopra i suoi lavori e grazie ad essi un altro mondo ancora.
È così che quella lentezza esasperata e narcotica, e la sua vena malinconica e negativa, diventano i fornitori principali dell’impronta, cioè il template, di decenni di musica a venire—basti solo ricordare l’omaggio esplicito di Travis Scott con “R.I.P: Screw”. Una musica che oggi che siamo isolati gli uni dagli altri si presenta come la colonna sonora perfetta per le nostre giornate. Una forma di solitudine che trascende e paradossalmente ci unisce tutti.
E che arriva fino ad oggi, alla sua ennesima variante spettrale, slowed + reverb, composta da un esercito di anonimi autori ai quali vanno i nostri ringraziamenti. Appassionati che spesso nascondono le proprie creazioni negli anfratti della rete, con l’unica intenzione di condividere la propria visione con chi li capisce, pronti a mettere mano alla prossima canzone da rallentare a forza e infilare in una malinconica cassa mortuaria fatta di riverbero e rimpianti.