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Carte da gioco e tatuaggi: il codice segreto nelle prigioni sovietiche

Mentre si preparava per La promessa dell’assassino, il film di David Cronenberg del 2007, Viggo Mortensen aveva mandato al regista una raccolta di volumi intitolata Russian Criminal Tattoos, una ricchissima raccolta di immagini di body art pubblicata da FUEL. Nikolai, il personaggio di Mortensen, è un gangster in ascesa nella criminalità russa di stanza a Londra. E come ogni gangster russo che si rispetti, Nikolai è pieno di tatuaggi e ognuno di questi racconta la sua storia—in quale prigione è stato, quali crimini ha commesso, quali lotte ha vinto o perso. ì

In una delle scene più famose del film, quando Nikolai partecipa a un incontro in una sauna, un malvivente curdo ricorda che Semyon, anziano boss della mafia russa, “suggerisce [la sauna] per gli incontri di lavoro, perché così puoi vedere i tatuaggi degli altri uomini.” Quando poi due assassini tentano di ucciderlo, lui riesce a contrastarli entrambi pur essendo completamente nudo, in una scena che trasmette tutta la solennità e l’importanza dell’omicidio fallito. Sembra sia stato Mortensen a insistere con il regista per rimanere nudo durante la scena. Evidentemente aveva fatto ricerche a riguardo.

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Ora, la stessa casa editrice che aveva pubblicato il libro studiato da Mortensen, ha appena presentato un nuovo volume, Russian Criminal Tattoos and Playing Cards di Arkady Bronnikov. Come suggerisce il titolo, il libro esplora la storia che accomuna i tatuaggi e i giochi di carte nelle prigioni dell’era Sovietica.

VICE ha incontrato Damon Murray, uno dei fondatori di FUEL, per parlare della correlazione tra i tatuaggi e i giochi di carte, di come venissero fatti e di che cosa significava rischiare tutto con una scommessa. Insieme, abbiamo cercato di ricostruire la storia di una cultura ormai svanita.

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VICE: Come e perché venivano fabbricate queste carte in prigione?
Damon Murray:
Sia il gioco, sia le carte in sé usate nelle carceri sovietiche e nella “zona,” come venivano chiamati i campi di lavoro correttivi, erano in realtà proibiti. Se una carta (o peggio, un intero mazzo) veniva trovata dalle guardie, al colpevole spettavano pene severe: essere coinvolto in un gioco di carte era come sottrarsi all’amministrazione, consumare alcolici o consumare droghe, ovvero un atto punibile con la cella di isolamento fino a sei mesi. Tuttavia, questo tipo di pene non riuscivano comunque a scoraggiare i giocatori accaniti.

Le carte stesse dovevano essere create dal nulla. Questo processo laborioso e delicato iniziava incollando due fogli di carta con della colla artigianale, fatta con pane della mensa masticato. I due fogli incollati venivano appiattiti sotto una lastra di vetro fino ad asciugarsi, e poi venivano tagliati in piccoli rettangoli.

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Il passo successivo era la decorazione. Questa era la prima occasione per contrassegnarle, così che il proprietario posse “leggerle.” Il proprietario decideva il tipo di grafica e l’inchiostro da usare. Generalmente veniva usata la fuliggine per il colore nero, e un misto di sangue e colla di pane per il rosso, (una volta secco il sangue diventava di un colore rosso più scuro rispetto altri inchiostri disponibili in carcere.) L’intenzione, qui, era rendere le carte il più incomprensibili possibili all’avversario. Oltre all’inchiostro, alla carte veniva aggiunta la texture, in modo che il proprietario potesse capire il valore della carta solo toccandola, prima ancora di girarla. Dopodiché, anche il retro della carta veniva lavorato. Una volta che l’intero mazzo si era asciugato, le carte venivano aperte a ventaglio, e i bordi affilati con un pezzo di vetro. Questo aggiungeva una nuova caratteristica ad ogni carta e uno spazio da personalizzare, sebbene impercettibile, riconoscibile solo agli occhi del proprietario.

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Cosa ci si giocava a carte? Su cosa scommetteva la gente?
In genere, cifra e metodi di pagamento venivano stabiliti prima di iniziare a giocare. Si scommettevano tè o sigarette, ma anche dita, orecchie, occhi, la vita di altri detenuti, o quella degli stessi giocatori. I criminali che avevano il coraggio di scommettere parti del proprio corpo al gioco, lo facevano per dimostrare la propria forza mentale, la spavalderia e la spietatezza. Quando un ladro, così venivano chiamati i criminali russi, perdeva a carte, qualsiasi cosa avesse scommesso, doveva immediatamente onorare la scommessa. Se si fosse rifiutato, sarebbe subito stato additato come suka (“puttana”) e accoltellato. Una volta, un detenuto aveva perso al gioco la mano sinistra ma non era stato in grado di amputarsela e così aveva cercato di evadere. Le autorità, dopo averlo preso di nuovo, l’avevano trasferito in un altro campo, ma il suo destino era ormai segnato. In sua assenza, fu condannato da una skhodka (“un gruppo di veri ladri”) che erano riusciti a scoprire dove era stato mandato e avevano fatto in modo che la sentenza venisse applicata nel nuovo penitenziario.

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Ei tatuaggi? Simboleggiavano l’appartenenza a un clan, raccontavano una storia, contrassegnavano eventi importanti della vita? O tutte queste cose?
I tatuaggi che si trovano in questo libro non hanno più alcun valore, oggi. Quello che voglio dire è che non hanno lo stesso significato, perché le punizioni che davano loro “valore,” oggi non vengono più inflitte. Nell’era sovietica, il corpo tatuato di un ladro testimoniava il suo status nella comunità criminale. I tatuaggi dei vor v zakone [“ladri nella legge”] servivano come una sorta di uniforme, con i riconoscimenti d’onore, i ranghi e le onorificenze. Nel gergo dei ladri, l’insieme dei tatuaggi tradizionali è chiamato frak s ordenami (“un frac con decorazioni”). Questi tatuaggi celavano segreti e informazioni simboliche che a prima vista potevano apparire familiari a chiunque—una donna nuda, un diavolo, una candela che arde e cose simili.

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Queste icone rappresentano il passato di ogni malvivente, sono una sorta di biografia completa: raccontano successi e fallimenti, promozioni e demeriti, insomma dicono tutta la “verità” sul detenuto, se vogliamo. Sono una sorta di passaporto, la chiave per la sopravvivenza. Non appena un detenuto estraneo arrivava nella zona, capiva immediatamente che erano i ladri a comandare. Dopodiché avrebbe cercato di copiare i loro tatuaggi e i loro modi di fare per elevare il proprio status. Per cercare protezione, però, doveva dimostrare di essere un uomo valoroso, con grande esperienza e conoscenza.

La domanda che i malviventi più esperti facevano sempre ai nuovi arrivati era: “I tuoi tatuaggi ti rappresentano?” Se i tatuaggi non riflettevano il rango del detenuto, questi veniva obbligato a rimuoverli con un coltello, carta vetrata, schegge di vetro o un pezzo di mattone. Dopodiché, veniva picchiato, violentato o ucciso. Nel ‘mondo dei ladri,’ la malavita russa, un uomo senza tatuaggi non è degno di alcuno status sociale.


Guarda il nostro documentario sul padre del tatuaggio in Italia:


Quindi, come si collocano le carte all’interno di questa simbologia già complessa?
C’erano gruppi di detenuti che appartenevano a diversi masti (“abiti”), e portavano tatuati i simboli delle carte. Le carte più nobili erano il re di fiori e di picche. I simboli principali di ogni ‘ladro nella legge’ erano fiori o picche. Al contrario, i segni rossi erano i meno nobili. Le spie avevano il segno dei quadri, mentre i cuori stavano a indicare le “donne” tra i detenuti. Questi ultimi due erano applicati forzatamente, privando il portatore del tatuaggio di qualunque status, in un atto di violenza. Questi simboli servivano a rimarcare la potenza dei boss, e a mettere in guardia il resto dei detenuti. Chiunque decidesse di avvicinarsi o legarsi a loro, sarebbe stato obbligato a rinunciare al proprio status.

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Anche le immagini allegoriche usate nei tatuaggi servivano a trasmettere un messaggio sull’individuo stesso. Per esempio, a un ladro che non saldava un debito a carte, venivano tatuate scene di copulazione esplicita. Questi tatuaggi erano punizioni. Al contrario, un ladro particolarmente abile al gioco, avrebbe avuto tatuati i quattro simboli della carte sulle nocche. In russo, le prime lettere di ogni segno costituiscono la frase Kogda Vyidu Budu Chelovekom, (“Quando uscirò di qui sarò un uomo”), a confermare l’intenzione di portare avanti la carriera criminale una volta scontata la sentenza.

Com’è riuscito Bronnikov, esperto criminologo, ex dipendente del Ministero degli Affari Interni sovietico e autore del libro, a mettere insieme così tante foto di tatuaggi?
Per lavoro, Bronnikov visitava spesso i centri correttivi nelle regioni degli Urali e della Siberia. Ed è stato qui che ha intervistato, raccolto informazioni e scattato fotografie a moltissimi detenuti e ai loro tatuaggi, componendo uno dei più grandi archivi fotografici sul tema. Questo materiale era inizialmente riservato all’uso delle forze dell’ordine che stavano cercando di decifrare il linguaggio in codice dei tatuaggi per avere un quadro più preciso dei criminali in circolazione.

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Queste carte, tuttavia, non fanno parte della collezione di Bronnikov, ma sono state raccolte da FUEL nell’ultimo decennio. Trattandosi, però, di oggetti sequestrati dalle autorità penitenziarie, i mazzi originali sono molto difficili da reperire e spesso risultano incompleti. Gli originali in genere sono molto piccoli, della dimensione di un pacchetto di sigarette, per capirci. I pacchetti di sigarette, infatti, erano spesso utilizzati per nascondere le carte.

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La cultura delle carte e dei tatuaggi nelle prigioni è cambiata dopo il crollo dell’Unione Sovietica? Cioè, queste cose succedono ancora oggi?
Per rispondere a questa domanda in modo esaustivo, dobbiamo fare un passo indietro al 1950, quando il codice dei ladri (l’insieme di regole e norme usate nella malavita russa) era rispettato in modo più rigoroso. Al tempo, se un uomo portava un tatuaggio che non si era guadagnato, la punizione era un pestaggio, una violenza sessuale e addirittura la morte. Verso la fine del 1960, queste pene crudeli avevano iniziato a rivoltarsi contro i ladri stessi. Nei penitenziari, c’erano ormai talmente tanti prigionieri “umiliati” (detenuti che avevano perso il loro status ed erano stati violentati) che le autorità avevano iniziato a utilizzarli come armi contro i boss, i quali venivano chiusi in una cella circondati dalle proprie vittime.

Alla fine, un direttivo di criminali ha vietato la violenza sessuale come punizione nei confronti dei detenuti irrispettosi. Questa decisione aveva decisamente allentato le tensioni, fino all’eliminazione totale delle punizioni per i casi di tatuaggi non rappresentativi. Inoltre, questa moda dei tatuaggi, nel frattempo, si era diffusa anche nei penitenziari minorili, dove i ragazzini si erano letteralmente ricoperti di qualsiasi tipo di tatuaggio, anche quelli tradizionali e che spettavano ai ladri più esperti. A questo punto, far rimuovere ai giovani in adorazione tutti quei tatuaggi era ormai impossibile, e così questa pratica cessò, e i ladri lasciarono a ognuno la libertà di tatuarsi quello che voleva.

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Con l’arrivo della perestroika (la “ricostruzione” guidata dal governo sovietico di Mikhail Gorbachev), in tutta la Russia aprirono moltissimi studi di tatuatori e così il numero di tatuaggi tra i detenuti aumentò considerevolmente. Anche le droghe ebbero un impatto sulla tradizione del tatuaggio in prigione, perché permisero ai detenuti che le commerciavano di avere fondi disponibili per pagarsi qualsiasi tatuaggio volessero.

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Oggi, i criminali russi difficilmente portano tatuaggi visibili. Se prima i tatuaggi indicavano l’appartenenza alla casta dei ladri e imponevano un particolare codice di condotta, oggi non solo questi segni evidenti faciliterebbero l’identificazione di un criminale da parte delle forze dell’ordine, ma potrebbero compromettere anche le sue possibilità di successo in affari, ormai l’unica vera aspirazione dei malviventi russi. Oggi, i tatuaggi dei criminali russi sono quasi tutti fatti in studio da professionisti e probabilmente rappresentano significati personali e intimi, piuttosto che celare un linguaggio in codice che quasi nessuno capirebbe più.

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