Per quanto scorrendo Instagram e TikTok—tra conturbanti ecografie in 3D, ritratti col pancione e video di neonati pasticcioni—possa sembrare vero il contrario, in Italia si fanno sempre meno bambini—e sempre più tardi. Siamo in decrescita demografica. E lo siamo da un pezzo.
È infatti dalla fine degli anni Settanta che nel nostro paese il numero medio di figli per donna—noto come tasso di fecondità—è inferiore a due e quindi sotto il cosiddetto livello di sostituzione (di due genitori, s’intende). Non a caso, siamo diventati il primo paese al mondo in cui gli under 15 sono meno degli over 65. Il Covid ha contribuito a un ulteriore calo e, nel 2021, siamo scesi sotto le 400.000 nascite in un anno.
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Con l’Istat che prevede una riduzione di 7 milioni di residenti entro il 2050, un nuovo ministero per la natalità sembrerebbe una risposta a un problema reale. A preoccupare, però, è che a guidarlo nel 2022 sia Eugenia Roccella, ultraconservatrice contro il diritto all’aborto e a favore della famiglia intesa esclusivamente come coppia cisgender eterosessuale con figli.
Ma, al di là delle possibili analisi politiche, cosa succederebbe se non riuscissimo a invertire la tendenza sul calo delle nascite? Diventeremmo una popolazione sempre più vecchia e destinata a scomparire, ovviamente, ma la vita quotidiana potrebbe cambiare in modi inaspettati molto prima di raggiungere lo zero nelle nuove nascite—chiedendoci di ripensare molte delle strutture sociali che conosciamo.
Perché abbiamo smesso di fare figli
Anche in Italia, di figli ne vorremmo più o meno quanti ne vogliono nel resto d’Europa: due. Ma un problema è il grosso ritardo con cui si raggiungono l’indipendenza e un reddito che permettano di pianificare una famiglia.
“Teoricamente, [si possono fare figli] dai 15 ai 49 anni, ma è abbastanza infrequente farne prima dei 19-20,” ricorda Corrado Bonifazi, demografo dell’Istituto di Ricerche sulla Popolazione e le Politiche Sociali del Consiglio Nazionale delle Ricerche. “Se in Italia si passa più di un terzo di questo intervallo cercando un lavoro stabile che permetta poi di mantenere un figlio, è evidente [cosa succede].”
Tuttavia, non è la povertà di per sé a produrre una bassa fecondità, spiega la sociologa Chiara Saraceno, esperta di cambiamento sociale e sviluppo demografico: “Anzi, nei paesi poveri, per esempio, è più alta. Ma è la combinazione di aspettative per la propria vita e per i figli che eventualmente si fanno.”
Da un lato, assumersi la responsabilità di diventare genitore significa solitamente aver fiducia di poter crescere i figli in modo adeguato, senza troppi sacrifici—fiducia che con gli stipendi al ribasso, la precarietà che incombe e un mercato immobiliare poco accessibile, si conquista a fatica. Dall’altro, la maternità non è più percepita come l’unica possibilità di realizzazione personale. “Meno che in altri paesi, ma anche in Italia per una donna diventare adulta significa magari avere figli ma anche una vita professionale o comunque un’autonomia economica,” spiega Saraceno. “O dover lavorare per aiutare a mantenere la famiglia.”
Fare figli deve assolutamente rimanere una scelta di libertà. “Non si fanno figli per la patria,” ricorda l’esperta e, piuttosto che politiche di incentivo, servirebbe agire sui vincoli che limitano questa libertà.
Come funziona una società senza figli
Se il calo delle nascite dovesse procedere al ritmo attuale, la popolazione diminuirebbe e la nostra società smetterebbe di funzionare nel modo in cui conosciamo.
“Tutta una serie di istituzioni sociali, dal sistema pensionistico al modo di finanziare la sanità e l’istruzione, sono state costruite incorporando un’idea di struttura demografica in cui la maggioranza della popolazione è in età lavorativa,” spiega Bonifazi. Se le condizioni cambiano, il sistema non regge.
E per quanto riguarda il mercato del lavoro? “Se ho una scarsità di medici e di infermieri, come avviene in Europa già da tempo, si dovrà ricorrere all’immigrazione,” continua il demografo. Soprattutto in previsione delle esigenze di una società sempre più anziana. Ma la nostra politica potrebbe scegliere di intervenire anche promuovendo l’occupazione femminile o nel Sud Italia, entrambe particolarmente basse.
“C’è tutto uno scenario, anche economico e produttivo, da scrivere. L’intelligenza artificiale renderà necessario un numero inferiore di lavoratori,” continua il demografo, ricordando però la difficoltà di poter affidare alcune attività a macchine o algoritmi. “[Nel] lavoro di assistenza o quello specializzato di infermieri e medici, la tecnologia può intervenire per ridurre il numero [del personale], però c’è bisogno comunque di chi sta a contatto diretto col malato.”
Saraceno concorda che sarà necessario anche cercare di diventare un paese più attrattivo per i suoi giovani e quelli di altri paesi. “Come fai a promuovere lo sviluppo, se una fetta consistente dei tuoi giovani va altrove?,” chiede.
Fondamentalmente, saremmo sempre più un paese di nonni e nonne e pochi nipoti.
“In Italia [questo aspetto] viene utilizzato implicitamente dalla politica per fare pochi servizi: tanto ci sono i nonni. Che poi i nonni siano disponibili o meno è un altro paio di maniche,” dice la sociologa. E fa notare che anche la cura delle persone anziane continuerebbe a distribuirsi su una rete familiare sempre più ristretta: “La nostra organizzazione dei servizi per le fragilità e non autosufficienze si affida moltissimo alla famiglia. Che ci sia, o non ci sia. Non a caso siamo il paese che ha inventato la figura della badante.”
Nemmeno l’apporto positivo della popolazione straniera, che negli anni ha aiutato a compensare, sarebbe comunque abbastanza. “Il tasso di fecondità delle persone straniere in Italia è leggermente più alto, ma nel corso del tempo tendono ad assumere il modello del paese in cui vivono, non quello da cui provengono,” spiega l’esperta. “Stiamo notando una riduzione e, negli ultimi anni, tra crisi finanziarie e pandemia, è stata molto accelerata.”
Invertire la tendenza
Un paese che chiede più nascite dovrebbe agire di conseguenza. Offrire per esempio servizi per conciliare vita lavorativa e familiare, ma anche come investimento di pari opportunità tra bambini. Come dice Saraceno: “Se uno sa che non è da solo nel crescere i propri figli, che c’è una società attorno che investe in questi figli, a prescindere dall’origine di nascita, dalle risorse che ha ciascuna famiglia, si sente incoraggiato.”
Di certo, in una democrazia, le politiche demografiche non possono essere altro che politiche di libertà, ribadisce. E il calo delle nascite non può diventare uno strumento per controllare o dirottare la vita delle donne. Oltre che ingiusto, sarebbe probabilmente anche improduttivo.
“Pensare di intervenire imponendo quasi un modello riproduttivo, non credo che avrebbe poi grandi effetti,” commenta il demografo Bonifazi.
Tanto per essere chiari, le politiche anti-scelta e le agevolazioni fiscali adottate dal governo di Viktor Orbàn in Ungheria per far aumentare le nascite non sembrano funzionare. Mentre, ispirandosi a paesi come Germania e Francia (in cui il numero di abitanti cresce) l’Italia potrebbe pensare a garantire l’accesso gratuito agli asili nidi, ad aumentare l’assegno unico e universale per i figli introdotto nel 2021 e ad allungare e pagare di più i congedi parentali.
Un altro modello a cui guardare è quello della Svezia, che negli anni Novanta aveva registrato un calo demografico significativo. “La Svezia ha avuto un approccio non verso politiche per favorire direttamente la natalità, ma molto attive per equiparare i ruoli di genere, garantendo tutta una serie di servizi e strutture alle donne. Questo ha fatto sì che oggi sia uno dei paesi europei con il più alto tasso di fecondità,” spiega Bonifazi.
Come sottolinea l’esperto, tutto dipende dalle risorse investite e dalla capacità di leggere i fenomeni per ricalibrare gli interventi. “Non esiste una politica perfetta,” avverte. “C’è bisogno di dosare i vari aspetti, seguire i processi e ritoccare le politiche. C’è bisogno di un alto livello di consapevolezza che va costruita, con un approccio più unitario.”