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È stato inaugurato a Roma il 4 aprile il nuovo Centro di Medici Senza Frontiere (MSF) per la riabilitazione delle persone sopravvissute a tortura e a trattamenti inumani e degradanti.
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Il Centro si propone come luogo di accoglienza che mette a disposizione di migranti, rifugiati o qualsiasi persona senza distinzione di nazionalità, assistenza medica, psicologica e socio-legale.
Il progetto è sorto da un intervento specifico lanciato da MSF a Roma lo scorso ottobre, volto a fornire un approccio multidisciplinare nell’assistenza e nella riabilitazione delle vittime. Proprio nella capitale, infatti, stando ai dati del Centro di Salute per Migranti Forzati, tra il 3 e il 16 per cento dei richiedenti asilo potrebbe essere sopravvissuto a tortura — percentuali che, considerando quelli arrivati a Roma nel 2014, equivalgono a un numero compreso tra le 296 e le 1580 persone.
Circa l’80 per cento delle persone visitate da MSF nel 2014 e 2015 durante le operazioni di assistenza in Sicilia hanno dichiarato di essere state vittima di abusi e violenze prima e durante il viaggio verso l’Europa.
Il Centro è rivolto alle persone vittime di tortura, cioè la sofferenza fisica o psicologica inflitta per ottenere informazioni, esercitare pressioni o intimidazioni, o di trattamento inumano o degradante, cioè atti che provocano dolore fisico o mentale che ledono la dignità della persona e la umiliano. Anche coloro che sono stati sottoposti a lunghi periodi di detenzione e violenze di altro tipo possono beneficiare dei servizi offerti da MSF.
“Noi vorremmo concentrarci sulle persone che sono particolarmente sofferenti,” spiega a VICE News Gianfranco De Maio, responsabile del progetto di MSF. “Tutte le persone che provengono da paesi subsahariani e che sono costrette per motivi vari ad attraversare la Libia sono esposte a violenze e trattamenti degradanti. Ma non tutte le persone passate dalla Libia sono automaticamente vittime di tortura.”
Anche perché, prosegue De Maio, uno stesso trauma può avere effetti differenti da persona a persona. “C’è qualcuno che riesce a controllare meglio anche gli effetti su di sé. Noi quindi vogliamo aprirci a quelli più sofferenti; non è questione di numeri, è questione di prendere in carico e di verificare le situazioni più complesse, che quindi meno facilmente possono avere una risposta dai servizi esterni, che sono frammentati.”
L’iniziativa, infatti, mira a semplificare il processo di presa in carica per le persone che hanno bisogno di assistenza, che possono ora trovare in un unico luogo figure professionali che prima invece erano invece dispiegati in diversi uffici in varie zone della città.
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Da ottobre 2015, quando è iniziato l’intervento di MSF, sono state assistite 50 persone, vittime di violenza e maltrattamenti sia nei paesi di provenienza che durante il percorso migratorio — spesso in Libia, dove molti sono rimasti bloccati per molto tempo. Le persone prese in cura provengono da 18 paesi, soprattutto da Africa Occidentale subsahariana, Corno d’Africa, Egitto e Asia meridionale.
“Il fenomeno della tortura e più in generale della violenza sta assumendo dimensioni preoccupanti fra le persone che assistiamo nei nostri programmi sulla migrazione,” ha dichiarato in un comunicato Tommaso Fabbri, capo missione di MSF in Italia. “In mancanza di canali legali e sicuri lungo le rotte della migrazione, molti individui si trovano esposti ad abusi che rischiano di avere conseguenze mediche e psicologiche di lungo periodo.”
Il progetto, portato avanti insieme all’associazione Medici Contro la Tortura e con ASGI, l’Associazione per gli Studi Giuridici sul’Immigrazione, offre un approccio a tutto tondo al processo di riabilitazione, grazie al sostegno di medici, psicologi e psichiatri, fisioterapisti, operatori legali e mediatori culturali.
Vengono tenute in particolare considerazione le specifiche necessità delle persone prese in cura — per questo, ad esempio, la struttura è stata ideata per evitare che i pazienti rievochino ricordi traumatici, grazie anche all’assenza di luci forti o colori particolarmente accesi.
Gran parte delle persone arrivano al Centro grazie alla segnalazione del sistema ufficiale di accoglienza, quando emergono storie o elementi che fanno pensare a un possibile caso di tortura o maltrattamenti. In alcuni casi, invece, ci sono persone che si presentano al centro spontaneamente, dopo essere venute a conoscenza del progetto col passaparola o su suggerimento di un conoscente.
“La persona si presenta qui e noi organizziamo una sessione di accoglienza, che però non è individuale: c’è sempre un mediatore culturale, perché anche se il paziente vuole parlare una lingua internazionale – ed è libero di farlo – preferiamo che ci sia qualcuno che possa introdurre noi operatori ad alcuni elementi culturali che non conosciamo,” spiega De Maio.
“Dopodiché si decide con l’interessato da dove cominciare, cioè se è prevalente un problema di tipo sociale, oppure legale, medico o di psicoterapia,” prosegue. “Si inizia quindi con delle sessioni individuali, che possono essere anche in parallelo, e si va avanti.”
È difficile all’inizio della presa in carico stabilire quanto durerà la terapia. Il Centro cerca di dare una frequenza settimanale alle sessioni con i pazienti — ma ad un certo punto si rischia di arrivare alla capacità massima di assistenza, dato che le figure professionali dedicate al progetto sono limitate.
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Dopo i primi mesi di sperimentazione in una sede temporanea, da inizio aprile è in funzione il Centro di Riabilitazione permanente, situato in una zona centrale che può essere raggiunta con facilità dai fruitori. Nella gran parte dei casi, i pazienti arrivano al Centro grazie alla segnalazione del sistema ufficiale di accoglienza, dei servizi sanitari pubblici e da altre ONG.
Per questo, secondo MSF, è importante il ruolo del Centro nello sviluppo di una rete territoriale tra soggetti istituzionale e organizzazioni non governative, per ampliare e migliorare il sistema di referral dei pazienti.
“Dato che non abbiamo vincoli di tipo amministrativo – non ci interessa lo status legale, non ci interessa se abbiamo davanti un espulso, un rifugiato, uno che ha già avuto lo status, non ci interessa la nazionalità – [noi di MSF] possiamo andare laddove è meno facile avere una risposta,” dice De Maio.
“Bisogna entrare nei centri informali e in tutte le realtà sommerse per presentare questa possibilità. Dobbiamo ancora trovare una maniera che ci permetta di essere in questi posti in maniera professionale, da tecnici e non da attivisti.”
Già a ottobre 2014 MSF aveva lanciato un progetto simile in Grecia insieme ad altre ONG locali. La struttura è rivolta anche lì a migranti e richiedenti asilo vittime di tortura e maltrattamenti residenti nell’area urbana di Atene. Nel 2015 i pazienti del centro di Atene sono stati 105.
Al momento non è prevista una replica dell’esperienza di Roma anche in altre zone d’Italia, specie perché il progetto rientra in un quadro internazionale che coinvolge altre iniziative in giro per il mondo. Oltre all’esperienza di Atene, il primo esempio è stato in Libia – durante la breve finestra temporale di sette mesi in cui MSF è riuscita a lavorare nel paese – mentre sta aprendo un altro centro simile a Città del Messico.
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Foto di Alessandro Penso fornita da MSF