Dicono che gli anni del liceo siano i più belli e irripetibili. E in fondo è vero. Nel modulo d’iscrizione all’Università, nella sezione “liceo frequentato”, il nome del mio istituto non compariva e ho dovuto barrare “altro”.
Ciò che ha reso “altro” il mio liceo, nonostante fosse collocato in una zona precisa tra due scuole a tema come il Tasso e il Giulio Cesare, è stata la varietà di casi umani che interagiva nelle classi, nei corridoi, nei bagni e nei campi scuola. Gente, più o meno assurda, con la quale bisognava imparare a convivere, forzatamente, per cinque anni.
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In quel raffinato ecosistema studentesco riuscivano a relazionarsi in equilibrio dinamico specie molto diverse tra loro. Perché se alcuni compagni andavano a scuola spinti da genitori rispettabili di Roma Nord, molti erano costretti dalla legge italiana.
Una volta uscito dal liceo, come tutti, nella nuova dimensione universitaria o in quella lavorativa, al posto dei “compagni” mi sono circondato di “colleghi”. E ho scelto gli amici da frequentare la sera, i partner alla mia portata e gli insegnanti, adattando il mondo alle mie idiosincrasie.
Così mi sono dimenticato rapidamente di quando sono stato un animale sociale e quanto sia nella buona che nella cattiva sorte avessi l’impressione di imparare qualcosa, anche nella semplice sopravvivenza.
Oggi il liceo mi viene a trovare ogni tanto. Nei sogni, sui social network o per ricordarmi la messa in ricordo del professore di Alternativa. E in quei momenti mi chiedo che fine abbiano fatto i miei professori e tutti quei tipi di studenti che una volta erano miei amici ma che oggi non rifrequenterei mai.
I NERD
Allora
Non si chiamavano nerd, ma per definirli si usava un termine più generico e abusato: geni. Durante le lezioni, mentre gli altri prendevano appunti a penna per cinque secondi prima di distrarsi e disegnare cuori o cazzi a bordo pagina, loro picchiettavano inarrestabili sulle tastiere dei portatili. Davano sempre l’impressione che stessero lavorando a progetti paralleli e sconosciuti. Ma non interessava a nessuno, isolati dal resto della classe. Era chiaro, dopo i primi minuti di conversazione, tutto quello che c’era da sapere su di loro: giochi di ruolo, famiglia neocatecumenale, 100 percento asessuati, respingenti allo sport e alla goliardia. In sostanza niente da condividere. Un contatto con loro che non fosse basato sulla forza bruta era da escludere.
I loro cinque anni sono stati un purgatorio. Negati nelle materie umanistiche, a fatica, superavano un anno dopo l’altro tra un ” igitur soggetto” e un’onta bora. Ma hanno ingoiato tutta la merda come Sisifi felici, in attesa che arrivasse il momento di gloria all’Università di Ingegneria.
Oggi
Di loro non ho avuto notizie per molto tempo. Ricordando le difficoltà a integrarsi li immaginavo oggi in crisi d’identità, magari di notte nel porto di Marsiglia con un mantello e bastone, ululando in html. Ma poi ho saputo la verità. Il genio del liceo sta benissimo, ha due dottorati in ingegneria meccatronica, uno a Copenaghen l’altro a Milano, e lavora contemporaneamente a due progetti top secret. Il primo pare riguardi le sorti dell’Europa, il secondo quello dei suoi ex compagni del liceo. E sì, ha scopato.
I BULLI
Allora
Quando strusciavano lo scroto nel mio astuccio mi sono chiesto se la loro situazione a casa fosse serena. Quando in bagno spruzzavano l’acqua del rubinetto urlando “acqua piper!” mi domandavo se i loro genitori li avessero mai portati a vedere Space Jam; quando hanno dato fuoco al mio banco il pensiero è volato ai loro nonni: da piccoli gli raccontavano favole? E così ho finito per prendermi io cura di loro, provando soltanto a immaginare che cosa significhi una vita infelice e priva di affetto. Mi sono fatto seviziare per immedesimarmi e vedere il mondo dai loro occhi. Ho legato in un modo speciale, da sindrome di Stoccolma: io volevo essere loro amico e loro si facevano i cazzi propri.
Oggi
Oggi ho realizzato che non tutti i bulli hanno avuto un’infanzia da Oliver Twist e non c’è sempre la mano dei genitori dietro rapporti sessuali con l’astuccio o col bianchetto sul mio zaino. Erano azioni futuriste. E ora che molti bulli sono diventati ricchi performer e riconosciuti street artist, con tutte le menate che mi sono fatto sulla loro famiglia posso propormi come biografo.
LE PIÙ FICHE
Allora
Mi hanno tenuto in pugno per anni. Quando tutto era perfetto per fare sega a scuola ero costretto a entrare e a prendere il due in Storia perché una di loro aveva deciso proprio quel giorno di presentarsi con i pantaloni bianchi di lino. Ma non m’importava d’essere impreparato, quando il carattere sessuale primario sbocciava come un fiore nel cavallo basso della tuta acetata.
Le ho amate tutte, con un affetto sincero. Volevo ringraziarle, ma l’unico omaggio era dare loro il voto sul forum di Miss Liceo; o in alternativa sacrificare ancora più seghe. Non si conosceva nulla delle loro vite sentimentali, le si immaginava infelici all’uscita di scuola quando ricchi trentacinquenni le rapivano contro voglia dentro Porsche cabriolet.
Oggi
Troppo facile essere fica in una classe di venti Ted Bundy. Sono cambiate tante cose ormai. Abbiamo capito ad esempio che non potremmo mai stare con una ragazza sulla quale ci siamo masturbati così tanto. O che la scuola non era l’unico dei mondi possibili. Ce n’era un altro fuori, e proprio lì sono andate a finire molte di loro: nella campagna laziale. Dentro le Porsche hanno seguito quegli amori liceali, prematuri. E si commuovono al ricordo di quanto ci stavamo sotto e quanto il liceo sia stato fondamentale per la loro autostima. Oggi il ricordo di loro resiste soltanto in formato jpg nella cartella supersegreta: “Appunti su Max Weber”.
I PROFESSORI
Allora
“Un professore,” diceva, più o meno, Proust, “è il prodotto di un io diverso da quello che si manifesta nelle sue abitudini, nella sua vita sociale e nei suoi vizi.” Dietro le cattedre, come gli analisti dietro il lettino, c’erano infatti esseri bidimensionali. Sagome pedagogiche di cui s’ignorava il privato, per conservarne la credibilità.
Qualcuno tra i professori mi sarebbe piaciuto conoscerlo da giovane. Come quello di Filosofia che di certo “si sfondava d’erba”. O il professore di Inglese austero dietro la cattedra ma che gestiva un non pubblicizzato cineforum pomeridiano dove si proiettava Easy Rider. Ma alla fine l’unico professore che voleva essere l’amicone di tutti era sempre quell’attrezzo di Religione.
Oggi
Si conosce qualcosa in più sui propri professori l’anno della maturità, quando dopo una lunga convivenza, le tensioni si allentano e si può scorgere in un pedagogo lo spiraglio di un’umanità. Ad esempio in pizzeria, per l’ultima cena di classe, quando il professore di Italiano si è scolato la terza birra a stomaco vuoto; o quella volta in gita a Barcellona, sul traghetto, quando il professore di scienze ci aveva indicato le stelle, per tirar fuori dalla tasca la fiaschetta di moscato.
E allora ho capito che è preferibile non sapere troppo sul loro conto, meglio un passo indietro, tenerseli in 2D e bassissima risoluzione. Anche perché i futuri professori del liceo sono gli amici che oggi hanno intrapreso la carriera dell’insegnamento. Persone cupe alle quali non affiderei mai i miei figli.
I BRAVI IN TUTTO
Allora
I bravi in tutto tenevano a galla intere classi, ma allo stesso tempo costringevano più della metà dei compagni a una mediocrità fine pena mai. Una volta che i professori avevano capito chi dovevano essere i migliori, i voti, a priori, cominciarono a marcare la distanza tra loro e il “paese reale”.
Poteva capitare che magari il tuo tema sul diciottesimo canto dell’Inferno non era per niente una merda; almeno fino a quando non arrivava il momento di correggere quel compito che sembrava il pamphlet di Michele Barbi. Una volta capito l’andazzo, quando i ruoli erano ormai cristallizzati, i condannati alla mediocrità hanno smesso di tormentarli e hanno scelto l’alleanza: illuminandoli con la luce riflessa del 6 rosso e il permesso di scopiazzare ogni tanto.
Oggi
Una parte di quei bravi in tutto sono spariti dalla circolazione, ma c’è da stare certi che rispunteranno tra qualche anno sui giornali, nel bene o nel male. Gli altri invece una volta finito il liceo hanno drammaticamente perso il talento: estetisti del quartiere africano che alla tesina della maturità avevano portato il cromatismo di D’Annunzio oppure insegnanti di tiro con l’arco al villaggio vacanze che al liceo avevano la media di nove punto sette in matematica.
Ma in un certo senso è stata la diretta conseguenza del loro studio liceale senza preferenze: riuscire in ogni materia, studiando tutto allo stesso modo e imparando a memoria quello che non capivano. Sono diventate macchine pronte a tutto, senza sfumature. Non si faranno allora dei problemi a lavorare in un call center dell’Enel piuttosto che alla Nasa. A posto così.
I FATTONI
Allora
Quando a Roma, molti anni fa, nevicò, ero in bagno a fumare con un fattone. Non l’avevo mai visto prima. Era scatenato, guardava dalla finestra il nevischio che veniva giù e che lo faceva stare “megapresobene”. Ci teneva a condividere con me le sue emozioni. Mi disse che in quel momento sarebbe voluto andare in giro fattissimo per le strade. Poi disse: “Vorrei troppo prendere il motorino e fare un chioppo sulla neve, pensa che fico.”
Il rapporto con i fattoni è sempre stato difficile. Erano loro a guidare la conversazione, gli altri potevano soltanto stargli appresso e capire al massimo il 30 percento di quello che dicevano. A scuola erano quelli che oscillavano tra l’appena sufficiente e le braccia rubate all’agricoltura, ma non gli importava: je est un autre.
Ogni tanto sapevano stupire. Quando i “lucidoni” si sforzavano, vanamente, di capire Plotino, loro sembravano afferrarlo naturalmente. Ma era solo un momento passeggero. Il loro cervello si accendeva improvvisamente prima del buio totale.
Oggi
Fanno quello che vogliono, perché non sanno fare altro. Seguono l’istinto, pure nel lavoro. Anche se è a tempo determinato, come raccogliere per tre mesi d’estate la cannabis in California. Vedono dove gli altri sono ciechi. Come quando hanno scelto l’Erasmus, non a Copenaghen o a Barcellona, ma in Nuova Caledonia.
Sono disoccupati, giocolieri, hanno dottorati in antropologia o insegnano filosofia, ma sono tutti realizzati a modo loro perché sanno che “la materia non è altro che energia condensata a una lenta vibrazione e che siamo tutti una sola coscienza che ha esperienza di sé soggettivamente.” A Roma per fortuna nevica di rado.
QUELLO STRANO
Allora
Tutti avevano in classe, in varie forme, il tipo strano. Quello talmente taciturno che tornava a casa con il mal di gola. Che d’estate indossava felpe e pantaloni Conbipel e d’inverno maglioni alla dolce vita e giacche verdi di lana. Quello che aveva il look di un regista di Brazzers, codino e baffetti da pipparolo. Quello che dalla classe usciva soltanto per fumare e da casa usciva soltanto la notte. Che non voleva studiare insieme, né andare “a villa” e si pensava trascorresse le giornate in una bara, nella penombra della sua casa-museo che nessuno aveva mai visto. Sprovvisto di qualunque talento, non spiccava in nessuna materia, orbitando da una cartolina di bocciatura nel primo semestre al salvataggio con tre debiti alla fine dell’anno; e te lo ritrovavi ogni volta, inspiegabilmente, qualche banco più in là.
Oggi
Sparito nel nulla. Sui Social Network è introvabile. Qualcuno voleva chiamarlo a casa, ma si è accorto che non gli ha mai chiesto il numero di telefono. Qual era il suo nome, poi? Giovanni? Federica? Tutti i compagni hanno di lui un ricordo diverso, personale.
Una volta finito il liceo ha cambiato completamente vita, o almeno ci ha provato. È passato dallo stadio di sfigato a quello di diversamente sfigato. Numerosi le ipotesi, la più suggestiva è quella che vuole il tipo strano oggi redattore di VICE.
I COMPAGNI DI BANCO
Allora
I cinque anni del liceo li ho passati con cinque diversi compagni di banco. Uno dopo l’altro sono stati tutti bocciati. Era la mia maledizione, ma niente tristezza. Con i compagni di banco l’amicizia, si sa, non decolla mai. È un po’ come in fabbrica davanti a un nastro trasportatore, ore passate a stretto contatto con il vostro vicino non ti fanno venire voglia di chiedergli di uscire pure la sera. Quello che lega due compagni di banco non può essere neanche immaginato oltre il banco. Un rapporto cavalleresco, medievale: si incidono i nomi sul legno e finisce là.
Oggi
Incontrare il compagno di banco dopo qualche anno dà un brivido di imbarazzo come un amore estivo. In fila al cinema o alla festa di un amico dell’università, si può rimanere sorpresi dal compagno di banco e lo si presenta agli amici nell’unico modo che si conosce: “il mio storico compagno di banco,” senza aggiungere altro; e ci si accorge che non si ha proprio niente da dirgli. Nonostante ci sia stato vicino più di nostra madre negli anni duri della nostra adolescenza, ci si rende conto di aver costantemente rinviato la conoscenza più approfondita, dandolo sempre per scontato, come la Basilica di San Pietro.
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