Tutte le foto sono di Francesca Corno.
Il sole è sorto da un pezzo. Sono le quattro del pomeriggio di un sabato di inizio giugno, e migliaia di coppie di palpebre si aprono all’unisono in stanze estranee━muri bianchi, finestre aperte su trombe di scale, soprammobili impolverati. “È ora, zio”, si sente dire in mille lingue. Grugniti di stanchezza e scazzo, quasi indistinguibili l’uno dall’altro, eruttano da bocche felpate. Un corpo, particolarmente coraggioso, si alza e inizia a lavarsi. L’acqua bagna il suo braccialetto del Primavera, ormai ruvido al tatto di un polso arrossato. La Linea 4 della Metro di Barcellona si popola di magliette con stampe coperte di nomi sconosciuti ai più e code interminabili di pance iniziano a concepire la loro colazione sotto forma di hamburguesas e perritos calientes. Il Parc del Fòrum è scosso da un leggero crepitio. Dentro, band indie rock spagnole cantano le loro melodie vuote.
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Car Seat Headrest e i suoi compagni di band sono la versione che ce l’ha fatta della band di primini sfigati del liceo, con anche le gag stantie tipo “Ciao, siamo i Radiohead! Ci hanno spostati sul palco piccolo!”, a cura del suo batterista. Ma Will Toledo trasmette sicurezza tramite un’inespressività lancinante; sta quasi fermo quando dovrebbe scatenarsi e crea quindi vibrazioni a ogni minimo movimento. Quella che doveva essere una vocina cigolante è oggi un timbro basso e avvolgente, e le grida che un tempo registrava nell’abitacolo della macchina di famiglia per la vergogna oggi le fa di fronte a un certo numero di persone. Ma resta impassibile e guarda un punto fisso di fronte a sé mentre, probabilmente, si fa scorrere dentro gli applausi e ride. Dentro di sé. A denti stretti.
Quello che è probabilmente il papà di Car Seat Headrest gli fa una fotina. Accanto, uno zio è orgoglioso dei festival a cui è stato.
Elena Tonra dei Daughter è tutta imbarazzata a suonare di fronte a così tanta gente. Alla fine di ogni pezzo guarda in basso e si sforza di tirar fuori un sorriso, mentre gli altri membri del gruppo dicono i grazie e i prego e i ciao e gli arrivederci. Finito il concerto ed entrata nel suo camerino privato si siede su una poltrona di pelle nera e si mette il viso tra le mani. Inizia a massaggiarlo, partendo dalle tempie e proseguendo in orizzontale verso la fronte. La plastica della sua maschera inizia a venir via. Si stacca all’improvviso, con un suono sordo. Elena si alza e la ripone nel suo armadietto: deve indossarne un’altra e partire subito, ché qualche ora dopo ha un altro concerto nei panni di uno delle miriadi di suoi cloni che sono venuti fuori dopo “Youth”. E poi un altro. E poi un altro. E poi un altro.
A vedere Kamasi Washington ci sono le seguenti tipologie di persone:
– Quelli che ascoltano Kendrick e hanno sentito che “questo qua” ha collaborato con lui.
– Quelli che sono orgogliosi di tenersi al passo con la musica contemporanea e hanno pre-ordinato “The Epic” in 6LP fidandosi solo di quello che avevano letto sugli internets.
– Quelli che si sono sentiti dire da quelli orgogliosi di tenersi al passo con la musica contemporanea che Kamasi era una bomba e dovevano assolutamente venire e che sarebbe stato uno dei concerti dell’anno.
– Quelli che avevano caldo fuori e volevano stare un po’ scialli seduti al fresco.
– Quelli che ascoltano veramente jazz e vogliono davvero essere lì.
A tutti, tranne che agli ultimi, viene in mente di andarsene prima della fine del concerto. Alcuni ci riescono, con il favore delle tenebre. Altri non sono così fortunati. Si narra che certi siano ancora lì, troppo imbarazzati per tentare la fuga.
Lavoratoriiiii… prrrrr!
Gli Explosions in the Sky sono davvero convinti che The Wilderness, il loro nuovo album, sia un bel disco. E quasi quasi sembra che lo sia quando salgono sul palco e, dopo essersi presentati in uno spagnolo adorabilmente scalcagnato come Explosiones en el Cielo, attaccano con la titletrack, che ha quelle tre note in croce davvero carine in fondo, quella progressione stereotipicatamente post-rock che loro però possono anche permettersi di fare dato che, insomma, l’han codificata. Quando partono gli arpeggini eterni di “Your Hand in Mine” tutti si immaginano filmati in slow-motion, in HD, da un drone che passa sopra di loro, immersi in uno scenario bucolico mano nella mano con la loro tipa/il loro tipo dei sogni. Qualsiasi chitarrista si trovi nel pubblico si ri-convince di dover fondare un gruppo così. Sfortunatamente, lo farà.
John Carpenter fa film horror da una vita. Sa che cosa sono i film horror. E sa anche che i film horror non moriranno mai, e quindi è testualmente quello che pronuncia quando sale sul palco. Sa che è una cosa stupida da dire. Ma in fondo sta andando in tour per la prima volta nella sua vita a più di 70 anni, e allora che cazzo gliene frega di darsi un tono. Qualsiasi vocale esca dalla sua bocca è come seguita automaticamente da almeno cinque acca. Quando si mette gli occhiali da sole, le acca diventano dodici. Il suo codino bianco causa il triplo dell’esaltazione che la barbetta di Kevin Parker dei Tame Impala fa scaturire a qualche palco di distanza, nonostante le diverse quantità di persone ad ascoltare.
Gli Mbongwana Star entrano in scena sulle loro sedie a rotelle e si mettono a spiegare in forma musicale il concetto di “afrofuturismo” a un assembramento di curiosi che li aspetta sotto palco. Si rivolgono al pubblico in francese, e tutti fanno comunque finta di capire e fanno casino nei momenti giusti. Alla fine del loro concerto, il 10% dei presenti inizia a considerare un viaggio spirituale in Congo alla riscoperta di sé stessi.
Il cantante dei Beach Slang ha un poster di Pete Doherty in camera da quando aveva tredici anni e, ora che è diventato un musicista di relativo successo, ha finalmente trovato un utilizzo a quel giubbotto tipo uniforme che aveva comprato usato su Craigslist e aveva usato vergognandosi come una bestia quando era andato a vedere i Walkmen all’Union Transfer dieci anni fa. Ora che è dall’altra parte del mondo a suonare può finalmente dare voce a tutte le sue pulsioni di protagonismo, e quindi dice dopo ogni canzone che è tipo megafelice di essere lì. Ringrazia di cuore il loro roadie, invitandolo a salire sul palco per un applauso. Obbliga il suo chitarrista a raccontare una storia troppo lunga su un’intervista che hanno appena fatto per Pitchfork. Da’ il proprio numero di telefono al pubblico, dicendo di chiamarlo o scrivergli se qualcuno dovesse sentirsi triste e avesse bisogno di una mano per non buttarsi da un ponte. A fine concerto, scende alla transenna e abbraccia tutti fortissimo. Le ultime frasi di questo paragrafo non sono inventate.
Foto scattata alle ore 15:30 del secondo giorno.
I cassonetti del Parc del Fòrum sono aperti da cinque ore, e già traboccano━ingordi di avanzi, pasciuti di fazzoletti e vaschette di polistirene. Kebabbari spagnoli sudano stagliandosi di fronte ai loro quattro enormi spiedi bollenti. Chef di pesce indossano guantini neri e mettono a marinare gamberi che venderanno a due euro e cinquanta l’uno. Immigrati cinesi che si fingono giapponesi vendono ramen istantaneo da discount a tre euro. Nell’area Pro, capannelli di giornalisti e fotografi si siedono a tavolini apparecchiati, camerieri sorridenti al loro servizio. Altri addentano pane, porchetta e rucola; altri ancora investono una monetina nell’acquisto di un pastel de Belém. Tutti ingeriscono qualcosa, e si dimenticano dei loro programmi per quell’orario. Si erano persino fatti prestare una penna dal bar, per cerchiare quei nomi che avrebbero voluto vedere dal vivo, almeno una volta, magari solo per curiosità. Avrebbero.
Lubomyr Melnyk porta sempre i pantaloni larghi. Preferisce i colori tenui e parla un sacco. Sale sul palco con la testa bassa, va al microfono e annuncia per filo e per segno tutto quello che farà stasera: suonerà tre composizioni, e le spiegherà nel dettaglio. E quello fa. Illirion (“Il titolo non ha davvero senso, ma parla di vecchiaia”), Butterfly (“L’ho composta in un hotel per ricchi. A loro non frega niente della musica, ma fortunatamente ai loro figli sì. Dei bambini mi stavano ascoltando, e questo è quello che ho suonato per loro”) e Parasol (“Ho registrato il primo piano oggi pomeriggio, suonerò una seconda linea. La prima volta che l’ho fatto tutti gli ultrasessantenni in sala se ne sono andati”). A fine concerto prende i suoi dischi, CD e spartiti (“Anche voi potete imparare a suonare come me, qualche anno fa ero molto più lento. E guardatemi ora!”) e si mette a venderli in mezzo alla gente mentre, alle sue spalle, i tecnici iniziano a smontare il suo trabiccolo. Ci sono duemila persone a vederlo. Probabilmente, a saperlo prima, si sarebbe portato un po’ di vinili in più.
Lubomyr Melnyk all’Auditori Rockdelux.
I Viva Belgrado vogliono essere i Raein, però gli manca qualcosina per essere davvero convincenti. I cardigan e le magliette monocromo ci sono, il bassista tutto preso bene che salta ovunque pure, le grida lontane dal microfono anche. Ma per fare screamo bene bene è meglio se ti fanno cagare le cose troppo lineari, sennò fai post-rock con le grida. Ma è sempre bello e divertente essere in mezzo a un pubblico di spagnoli che urlano cose megaemo tipo “Sé que mi cuerpo encendido aprende lentamente / Pero ahora no puedo dejar de sangrar.”
Patrick Stickles dei Titus Andronicus ha un armadio pieno di magliette col logo della sua band, pantaloni larghi strappati e Converse da cui estrae un completo ogni mattina. Ogni volta che suona, anche alle sette di sera in uno di quei palchi enormi sponsorizzati da brand che non c’entrano una sega con la musica, il terreno polveroso coi sassolini e le vasche per i VIP di fronte, ci crede un casino e sente lo spirito dei Thin Lizzy prendere possesso delle sue falangi. E finché di fronte a lui ci sarà gente presa bene per pezzi da quattordici minuti che parlano della guerra di secessione americana continuerà ad essere una delle principali ragioni che si possono addurre per dare sostegno alla proposizione “il rock è vivo.”
L’autore fa il giovane ai Titus Andronicus.
Alla quarta, assordante ripetizione di “FOR A MINUTE THERE, I LOST MYSELF” dopo che “Karma Police” è già finita, Thom Yorke si rende conto di esercitare un potere messianico non indifferente su un esercito di persone. Per un momento, immagina di guidarle tutte all’assalto contro il quartier generale di Spotify in quella che i libri di storia ricorderanno come “La terribile guerra-lampo di Svezia”. Il fatto che stiano tutti in silenzio anche se la situazione chiamerebbe palesemente caroselli, grida sguaiate e conversazioni di gente a cui non frega un cazzo di vedere il concerto non fa che aumentare le sue ambizioni liturgico-dittatoriali. Poi in scaletta c’è “Creep” e, a cantarla, si ricorda di essere un inglese mezzo orbo tutto piegato su sé stesso che sembra lì lì per tirare le cuoia ogni due giorni e torna in sé. “La prossima volta, Thom”, si dice. “La prossima volta.”
Holly Herndon è una condottiera spaziale che salverà l’umanità dall’estinzione guidandola verso una fase post-corporea. I suoi seguaci costruiranno un’enorme arca di ferro su cui, a qualche momento dall’apocalisse, saliranno un maschio e una femmina di ogni specie. Holly la guiderà attraverso un wormhole e riapparirà da qualche altra parte dell’universo, dove i concetti di “gender” e “politica” non esisteranno più, e la sua musica verrà universalmente riconosciuta come espressione più pura di questa umanità post-umana. Sulla bandiera di questo nuovo popolo ci sarà un render in 3D di Pikachu con attorno delle pannocchie e dei nigiri che ci orbitano attorno.
Gli Avalanches non suonano dal vivo da 16 anni. Hanno organizzato una serie di incontri ipersegreti per decidere come fare a non deludere il mondo intiero dei media musicali, che da “Since I Left You” è lì tipo cane sull’attenti ad aspettare un’occasione per pomparli a bestia. Hanno portato giradischi, CDJ, sintetizzatori, tastiere e un paio di maracas che eran rimaste lì in studio a prender polvere. Dopo giorni e giorni di discussioni e prove gli annunciano che il loro concerto sarà dalle tre alle quattro del mattino. Consci del loro arrugginimento, optano per andare sul sicuro e fare un DJ set: due/tre beat e, sopra, sample dal vivo presi da vinile. E così fanno. Tre quarti d’ora dopo che son saliti sul palco, un pensiero bastardo fa capolino nei loro cervelli: “Cazzo, son tutti presi abbastanza bene. Ma forse è meglio che un paio di pezzi nostri li facciamo.” E così fermano tutto per buttare su, di fila, Frontier Psychiatrist, Frankie Sinatra, Stay Another Season e un nuovo pezzo. A fine concerto un tizio con una maglietta di “Madvillainy” piange perché in fondo ci sperava davvero che ci fosse anche DOOM. In contemporanea, in America, un collaboratore di Pitchfork che fa le news nel weekend bestemmia mentre cerca di trovare video decenti del concerto da embeddare il prima possibile.
Gli Avalanches a metà del loro set.
Gli Sheer Mag sono così punk che hanno un’ora di tempo per fare il loro concerto e smettono mezz’ora prima. La leggenda narra che siano stati avvistati mentre facevano i saltini con lo skateboard lungo il Parc del Fòrum alle sei del mattino━ubriachi a merda, una piada falafel e halloumi in mano e un dito medio a “quel poser di DJ che rompe i coglioni” (cit.).
Gli ultimi barlumi di colore nei cielo vengono annullati dal passare delle ore mentre un vento che definire “freddo” è esagerazione aumenta l’intensità delle onde di fronte ai palchi Pitchfork e Adidas. I più deboli sono i primi a cadere: aprono i loro innumerevoli zaini Fjällräven e ne estraggono altrettante felpe e giacche, degli stessi colori spenti. Si accomodano sulle scalinate di fronte al palco Ray-Ban e bestemmiano tra i denti quando qualcuno gli pesta un piede. Si stendono sulla collinetta di fronte al palco Primavera e si accendono un giunto con il fumaccio che hanno comprato la sera prima. Guardano i vinili delle bancarelle all’ingresso anche se sanno benissimo che non ne compreranno manco uno. Alla prima metro manca ancora una vita, e i loro iPhone sono al 32%.
Il pubblico dei Boredoms.
I Boredoms suonano di pomeriggio, con una cappa che pare di essere all’Idroscalo in un giorno nuvoloso d’agosto. Di fronte hanno una donna longilinea, alta e grigia come il cielo in quel momento, che si mette un paio di tappi per le orecchie due secondi prima che Yamataka Eye vesta i panni di direttore d’orchestra. Insieme, emettono bassi così bassi che qualsiasi voce dal pubblico si perde in una qualche strana, terrificante vibrazione. Yoshimi P-We suona un bacco di metallo, una batteria, un tamburo concavo con dentro delle latte. Se avesse una fornitura a vita di microfoni ambientali probabilmente suonerebbe anche le assi del palco, la barba di Big Jeff che sta in prima fila a vederli e le telecamere che li riprendono.
Un gruppo di amici in età pensionabile si sono vestiti da marinaretti per fare i pirla al concerto di Brian Wilson, e danzare come facevano cinquant’anni fa quando, finite le loro giornate di surf a Santander, andavano nelle migliori balere della Cantabria. Quando partono “Surfin’ USA”, “I Get Around” e “Good Vibrations” si scatenano, e un’orda di #instagrammer si perde i momenti migliori del concerto per fotografarli e postarli il prima possibile usando l’hashtag #notmynonni.
Pusha T in versione liturgica.
Pusha T è il nuovo presidente di G.O.O.D. Music, e ha cuore di ricordarlo a chiunque gli si pari di fronte quando si trova su qualche asse da qualche parte nel mondo. Anche se c’è il Mediterraneo a cinquanta passi di distanza è come essere al Diamonds of Atlanta. Quando partono “Mercy”, “Blocka”, “Move That Dope” e “Runaway” anche i gabbiani si sentono, per un attimo, spacciatori di bamba in carriera mentre qualche decina di persone (principalmente bianche caucasiche e maschie) crea un anticiclone con il movimento circolare delle proprie mani, impegnate a mescolare crack immaginari.
Cronos dei Venom ha una tuta in pelle col petto aperto che usa per esibirsi dal vivo dal 1981. Quando sale sul palco, le molecole del cuoio stringono legami subatomici con quelle della sua pelle, e l’emisfero sinistro del suo cervello━quello che gestisce la parola e la mano destra━trascende la sua corporalità entrando in diretto contatto con Satana. Dalla sua bocca iniziano a uscire blasfemie, e il plettro che ha tra le dita si fonde con le corde del basso che porta a tracolla. La sinistra, quando è libera, si tende al cielo a forma di corna. “Welcome to Hell”, sbraita, e le mamme più buone e pie in tutto il mondo hanno un mancamento improvviso. Di quello che esce dalle casse si capisce poco e niente. Uno dei concerti migliori del festival.
Sempre carichi.
Sabato 6 giugno 2016 un tizio spagnolo, che chiameremo Ramón per comodità, si sveglia e sorride━quella sera avrebbe visto uno dei suoi eroi, Ty Segall. È un ragazzo piuttosto normale a cui piace particolarmente il garage. E quindi, quando si rende conto che è riuscito ad arrivare in prima fila, ci lascia l’anima. Quando Ty scende nel pubblico a fare il cazzone e gli passa in mano un microfono, Ramón quasi non ci crede. Ma inizia a cantare, guidato da un istinto primordiale che elimina qualsiasi paranoia da performance dentro di sé. Quando gli viene chiesto di sostituire Segall sul palco, ormai Ramón neanche si esalta più. Quando si vede di fronte migliaia di persone si sente già la Rock and Roll Hall of Fame al campanello. Nel frattempo, Ty sta pogando nel pubblico come se fosse nel circolo ARCI di provincia più inculato d’Italia. In un mondo utopico la serata di Ramón sarebbe finita con una festa nel backstage in cui sarebbe diventato amico di J Mascis per poi unirsi ai Thee Oh Sees come polistrumentista.
I Moderat salgono sul palco, salutano Barcellona e mettono su “A New Error”. È l’unica loro canzone che il 65% dei presenti sa. Il resto del concerto è passato ad aspettare che salga l’MD, a fare la coda per pagare otto euro e cinquanta un cocktail o a muoversi in maniera più o meno ritmata autoconvincendosi che le proprie gambe riusciranno a reggere ancora un’oretta.
Giù i piedi dai sedili, mi raccomando.
Il sole è sorto da poco. Sono le sette e mezza di mattina di una domenica di inizio giugno e sparuti branchi di persone si agitano, come sacchetti spinti da un vento leggero, sulle piastrelle e sul cemento armato di fronte a DJ dai nomi comuni che ormai selezionano solo brani di altri, senza più la forza di azzardare. Perché chi è ancora qua ha bisogno di una carezza e una felpa, non di un’altra sorpresa, non di un ultimo flusso di adrenalina. Qualcuno si mette ancora una mano in tasca, tira fuori cinque euro spiegazzati e compra una Heineken per berla seduto sugli scalini che danno di fronte al porto. Ogni anno, da qua alla morte termica dell’universo, qualcuno si sederà in quello stesso, esatto punto. Darà uno sperone nei fianchi delle sue aspettative e andrà a Barcellona, riempiendo i suoi follower di foto sfocate di concerti. Si lamenterà che prima questo festival era più bello, certo. Ma, come un cane━o un amico━fedele, continuerà in qualche modo a tornarci, e a sentirsi bene.
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