I Chemical Brothers suoneranno al Mediolanum Forum di Milano il 16 novembre e al Modigliani Forum di Livorno il 17 novembre. I biglietti sono già in vendita.
In questo passaggio verso il nuovo mondo (musicale) c’è stato un momento in cui abbiamo deciso che le cose dovevano suonare sempre “nuove” e i suoni arrivare alle orecchie tutti allo stesso modo, a prescindere da genere e ritmi. Alla fine siamo arrivati ad accettare il fatto che ascoltare qualsiasi cosa sia stata scritta, pensata o anche solo ballata su TikTok da qualcuno che avesse più di 21 anni fosse da retrogradi, conservatori. Da anziani.
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Capiamoci subito: quello che state per leggere non è un rant contro i giovani—i giovani-giovani, intendo, non i trentenni come me—che hanno comunque avuto il merito, finora, di aprire tutte le finestre di casa e far cambiare l’aria, liberandoci dallo schema delle band con chitarra, basso e batteria e dalle loro canzoni buone per le pubblicità delle monovolume.
A un certo punto abbiamo deciso che lo “schema-canzone” andava refreshato (non rinfrescato) e adeguato al tempo; che i suoni fossero tutti per forza freddi o almeno freschetti, oppure latini; e che non ci fosse spazio per la coerenza, o almeno per un viaggione individuale di una certa durata. Ecco: tutte queste cose le abbiamo decise così forte che ci siamo dimenticati di festeggiare il fatto i Chemical Brothers quest’anno ci hanno ricordato che suonano ancora come i Chemical Brothers. Ad aprile 2019 infatti è uscito No Geography, il decimo album in studio del duo di DJ/producer britannici di musica elettronica. Adesso provate a rileggere la frase e scomporla in unità di senso: “2019” + DJ/producer” + “elettronica” + “decimo album”. Fa strano, e dice alcune cose.
Dice prima di tutto che ascoltandolo troviamo quasi 25 anni di carriera coerente per un brand musicale che si è immaginato un suono e ha continuato a scalpellarlo senza compromessi—nonché una delle esperienze musicali tra le più potenti per chiunque non avesse in animo di diventare una rockstar, preferisse la cultura club, e sia nato tra il 1980 e il 1990.
E dice, appunto, che i due rappresentano da anni un pezzetto segnante e significativo delle vite di chi li ha incrociati, musicalmente, nella propria ricerca. Scrivendo questo articolo, per esempio, non riesco personalmente a immaginare a qualcosa di più forte nella scena della mia adolescenza, che non fosse quella roba che sapete tutti se avete più o meno la mia età: i Blink, i RHCP, quella roba lì.
C’era il rockettino, o il rockettone, l’ovvio pop, e il rap era alla sua ennesima ondata tipo infiammazione. E poi lì, cagato nel nulla, c’era il video di “Hey Boy Hey Girl” che ti faceva letteralmente impazzire qualsiasi genere ascoltassi, e che finiva su MTV anche se non rientrava in quelli di cui sopra. Che poi adesso sembra del tutto naturale, o una roba talmente antica da trovare senso solo perché “passato”, ma quella roba lì finiva in TV, ed era sostanzialmente techno.
A titolo d’esempio: avevo decine di amici e compagni di scuola di cultura hardcore, o punk, o proto-emo, o grunge, che erano disposti a concordare sul fatto che quella roba lì, sì, magari era “da discoteca”, ma era una figata lo stesso, e ci uscivano di testa quando partiva quella voce inquietante, quella cassa, o quando passavano il video di “Out of Control” (altra bomba nucleare). Non c’è quasi nessun’altra esperienza elettro, o altro producer, in grado di essere avvicinabile a questa cosa, anche solo a livello numerico.
Comunque sia, alla fine chi lo faceva tornava ad ascoltare i Pearl Jam, o i Rancid, o Alessandra Amoroso, o che so io. Noi che abbiamo continuato, invece, siamo rimasti lì fermi, esposti alle intemperie, funestati dai cambi di guardia nei suoni. Mentre loro, i Chemical Brothers, facevano succedere Surrender e Dig Your Own Hole, e poi Come With Us e Push the Button, sempre a modo loro.
Arrivato al 2019 mi piace pensare a questa linea viola e blu, che si distende come una timeline bella liscia e dritta, come ai confini degli stati USA che tagliano random le praterie di netto perché percorrono quel meridiano lì e non si scappa: è quella striscia che arriva coerentemente fino ad aprile 2019, a No Geography, e che sopravvive a vita, morte e miracoli del big beat, alla French touch, alla dubstep mortale da trailer del cinema, al blitzkrieg della tech-house e alle adunate EDM coi suoi santi e i suoi eroi.
È così perché te ne accorgi subito dal modo in cui ancora concepiscono la canzone come unità, e all’album come insieme. A come nella loro stesura ritmica i crescendo siano enfatici ma del tutto naturali, mai paraculi. A cose come i cambi di passo organici e mai troppo muscolari, a come il bassone funky non diventi mai per forza cringe anche quando il rischio è forte. A come l’ingresso dei nuovi elementi anticipi sempre di un po’ rispetto alle convenzioni musicali.
O ancora, a come il drop non si risolva nella somma delle parti, ma in qualcosa di nuovo e diverso: è quello che accade in decine di canzoni, che posso mettervi qui dentro a memoria senza andare a cercarle (“Come With Us”, “Music: Response”, “Denmark”, “Another World”, “My Elastic Eye”), e che ritrovi ancora oggi in No Geography in pezzi come “Eve of Destruction”, in “We’ve Got To Try”, o nella title track.
Abbiamo temuto per qualche tempo e per qualche uscita che l’ossessione per il suonino pulito e pop, e per il cantatone televisivo, li trascinasse nelle radio e li facesse duettare con un Giorgio Moroder. O che la loro abitudine nel tracciare tre o quattro solchi diversi ad album li portasse a rastrellare via tutto. Invece ne sono usciti con “Bango”. Che poi intendiamoci: a me piace sentire roba nuova sempre. Il Release Radar è il mio migliore amico. Di solito, se ripesco la roba che ascoltavo tre anni fa, mi brucia la fronte. No Geography è uno degli album che ho ascoltato di più quest’anno, e l’han fatto due producer elettro nati nel Settanta. Fate voi.
Vincenzo scrive e gira video per VICE, ma è anche un producer. Ascolta il suo ultimo EP e seguilo su Instagram.