Aggiornamento del 23 dicembre 2020: il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha annunciato che, a conclusione di lunghi sforzi diplomatici, Chico Forti verrà trasferito in Italia per scontare la pena. Qui di seguito riproponiamo la sua storia.
Secondo la Farnesina, in giro per il mondo ci sono oltre 2.000 italiani detenuti all’estero. Tra questi, probabilmente il più famoso è Enrico “Chico” Forti, 61enne che da vent’anni è detenuto negli Stati Uniti, dove sconta una pena all’ergastolo senza condizionale.
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Nel 2000 è stato infatti condannato per l’omicidio di Dale Pike, ritrovato senza vita su una spiaggia di Miami nel 1998. Secondo l’accusa, Forti l’avrebbe voluto morto perché stava intralciando un affare immobiliare: il padre di Pike (Tony Pike, scomparso nel 2019) era sul punto di cedere a Forti la proprietà del famoso Pikes Hotel di Ibiza, luogo culto negli anni Ottanta, e il figlio l’avrebbe raggiunto per ostacolare una potenziale truffa.
Da allora Forti rivendica la sua completa innocenza, e sostiene di aver subito un abuso giudiziario. A pensarla così sono in molti: cittadini, politici, giornalisti, ed ex magistrati che da anni chiedono che venga fatta luce sulla vicenda. Nell’ultimo anno il caso ha avuto la sua massima esposizione mediatica grazie ad alcune ricostruzioni giornalistiche, su tutte quella di Erin Moriarty per il programma 48 Hours di CBS e la lunga inchiesta de Le Iene “Chico Forti, l’ergastolo negli Stati Uniti e il puzzle della sua storia.”
È veramente complesso riassumere la vicenda e tutto quello è nato attorno a essa: le diatribe tra innocentisti e colpevolisti, le teorie del complotto che lo legano alla morte di Gianni Versace, le complicanze giuridiche e burocratiche. Quindi cercherò di ricostruirlo toccando solo i punti fondamentali, facendomi aiutare da persone coinvolte.
Chi è Chico Forti
Enrico Forti, originario di Trento, viveva a Miami dagli inizi degli anni Novanta. Specializzato in documentari sugli sport estremi, collaborava con varie emittenti televisive come ESPN e si era anche dato al business immobiliare. Alla fine del novembre 1998 gli venne presentato Tony Pike: i due parlarono del Pikes Hotel e giunsero a un accordo per la vendita. Dopo alcune visite a Ibiza, infine, stipularono un contratto presso un notaio spagnolo.
A questo punto, secondo l’accusa, entrò in scena uno dei figli dell’albergatore, Dale Pike. Dale avrebbe sospettato che Forti si stesse approfittando della malattia del padre: Tony Pike, affetto da AIDS, avrebbe infatti sofferto di demenza. Quindi, nel febbraio del 1998, Dale si accordò con Forti per raggiungerlo a Miami e discutere dell’affare, fissando l’incontro per il 15 febbraio (il padre sarebbe arrivato qualche giorno dopo). Secondo la difesa di Forti, invece, Dale non aveva alcuna intenzione di ostacolare l’acquisto.
Forti si recò quindi a prendere Dale Pike all’aeroporto di Miami. Il volo era in ritardo, e Forti era preoccupato perché alle 20 doveva essere all’aeroporto di Fort Lauderdale per andare a prendere il suocero. Quindi contattò Dale dal sistema interno della struttura; infine i due si incontrarono e salirono in auto. Da questo punto in poi, le versioni di accusa e difesa su cosa fecero e dove andarono Forti e Pike divergono completamente. Ma ci torneremo in seguito.
Chico Forti e la morte di Dale Pike
La sera del 16 febbraio, Dale Pike venne ritrovato morto. Il suo corpo, completamente nudo, era riverso in un boschetto vicino alla spiaggia di Virginia Key. Secondo l’autopsia, l’omicidio era avvenuto la sera del 15 febbraio, fra le 18 e le 19:16. Sulla scena del crimine non c’erano tracce. Niente DNA, niente impronte digitali, nessun residuo. C’erano però alcuni oggetti di Dale: il biglietto aereo per Miami, un ciondolo del Pikes Hotel, il passaporto e una tessera telefonica. La polizia controllò quest’ultima, e vide che erano state effettuate tre chiamate al telefono di Forti.
Forti sostiene di aver saputo della morte di Dale solo il 18 febbraio, mentre si trovava a New York, visto che l’incontro con Tony Pike era stato spostato lì. Un amico comune, tuttavia, rivelò a Forti che Dale era morto e che Tony stava andando a Miami. Quindi Forti prese il primo volo e tornò a casa. Tentò di intercettare Pike all’aeroporto, ma non lo trovò, perché Tony era stato preso in consegna dalla polizia.
Come emerso dalle dichiarazioni dei detective al processo, Forti a quel punto era già un sospettato. Quando il 19 febbraio Forti si presentò al distretto di Miami a seguito di una convocazione, gli agenti tentarono di metterlo sotto pressione con una menzogna: gli dissero che anche Tony Pike era stato ucciso a New York, in circostanze simili. Stando alla sua versione, a questo punto Forti andò nel panico e mentì a sua volta, dichiarando alla polizia che non aveva mai incontrato Dale Pike.
Il 20 febbraio Forti tornò di nuovo al distretto per portare dei documenti. Sostiene che in quell’occasione ritrattò volontariamente le dichiarazioni fatte il giorno prima. I detective, invece, dicono che ammise tutto solo dopo che gli furono mostrati i tabulati dell’aeroporto, che dimostravano il suo incontro con Pike. Capire chi mente è impossibile da fuori, perché dell’interrogatorio del 20 febbraio non esistono registrazioni.
Le dichiarazioni di Forti e della polizia, poi, non furono comprovate nemmeno dalla presenza di un legale: i detective non gli avevano letto i famosi “diritti Miranda“—l’avviso obbligatorio, dato dagli agenti a un sospettato in stato di custodia prima che gli vengano poste domande sul presunto reato (la formula “hai diritto ad un avvocato” che tutti conosciamo). “Forti era un sospettato,” mi ha detto Joe Tacopina, l’attuale legale di Forti, “ed è stato interrogato per un lasso di tempo molto lungo che doveva assolutamente tenersi in presenza del suo avvocato.”
Oltre ad aver mentito alla polizia, Forti aveva mentito anche alla moglie. Quest’ultima dichiarò infatti che Forti non gli aveva fatto menzione dell’incontro con Dale Pike. Quindi è fondamentale capire come si erano svolti gli eventi, successivi all’incontro fra i due, secondo le due parti.
Quali sono le accuse nei confronti di Chico Forti
L’accusa dice che Forti, dopo aver incontrato Pike, lo condusse dal suo assassino. Non avrebbe commesso materialmente l’omicidio: avrebbe accompagnato Pike alla spiaggia—a testimoniare la presenza di Forti in zona c’è un’intercettazione telefonica del suo cellulare, captato su una strada nelle vicinanze di Virginia Key alle 19:16—cosciente di quello che stava per accadere, e poi sarebbe ripartito. È provato, infatti, che Forti alle 20 si trovava all’aeroporto di Fort Lauderdale a prendere il suocero. E non avrebbe avuto il tempo effettivo di portare Dale alla spiaggia, ucciderlo, spogliarlo, essere al telefono nella sua auto alle 19.16 e arrivare dal suocero alle 20. “Secondo la polizia,” mi ha detto Tacopina, “Chico sapeva che Dale sarebbe stato ucciso, ma non esistono prove di alcun collegamento con un fantomatico killer. Che del resto non è mai stato né identificato, né cercato.”
Passiamo quindi alla versione di Chico Forti. Secondo quanto dichiarato, Forti dopo aver prelevato Pike lo avrebbe portato a una stazione di servizio per comprare le sigarette. Pike avrebbe quindi fatto una chiamata a un telefono pubblico, e chiesto a Forti di accompagnarlo a un ristorante vicino Virginia Key, il Rusty Pelican, perché alcuni amici lo stavano aspettando. Dopo avercelo portato, sostiene Forti, non lo avrebbe più visto.
Risalire a quella telefonata è tuttavia impossibile. Durante il processo l’accusa aveva portato dei tabulati, per dimostrare che all’ora segnalata da Forti non era stata effettuata nessuna chiamata, ma erano errati: riportavano le chiamate del 15 febbraio 1999. Quando la difesa chiese di verificare quelli del 1998 per capire se effettivamente Pike si fosse messo in contatto con qualcuno (che avrebbe potuto in caso chiarire i suoi successivi spostamenti), si scoprì che non erano più disponibili. “Una cosa senza senso,” dice Tacopina.
Con tutti questi buchi, perché Forti è stato comunque giudicato colpevole? “Per una serie di prove circostanziali,” mi ha spiegato Tacopina. “Come le menzogne da panico di Forti, evidenziate in maniera esasperata durante il processo, e la fantomatica sabbia ritrovata sull’auto di Chico.”
Dopo molti mesi dall’inizio delle indagini su Forti, i detective trovarono infatti della sabbia sul gancio del rimorchio dell’auto di Forti (già controllata in precedenza due volte). Si trattava di poco meno di un cucchiaio da tè di granelli, che secondo alcuni esperti provenivano proprio dalla spiaggia in cui era stato trovato il corpo. Secondo altri esperti interpellati dalla difesa, quei granelli potevano benissimo venire da altre spiagge di Miami. Perché la spiaggia di Virginia Key, come molte altre spiagge del litorale, è composta totalmente da sabbia portata lì artificialmente.
Secondo la difesa di Forti, è il movente a non sussistere. “Siamo in possesso di un documento,” mi ha detto Gianni Forti, lo zio di Chico, “che testimonia come l’accordo per l’albergo prevedesse delle possibilità di recesso per entrambe le parti. Dale Pike non aveva bisogno di venire a Miami per ostacolare l’acquisto, e nelle mail che si scambiò con la fidanzata il giorno prima di arrivare a Miami non c’è traccia di attriti con Chico. Sostiene invece di essere ansioso di incontrarlo, perché mio nipote stava organizzando un importante evento musicale. Perché, quindi, volerlo morto?”
Anche riguardo allo stato di salute di Tony Pike, che avvalora l’ipotesi della truffa, esistono dei dubbi: il notaio che stipulò l’accordo, intervistato anche dal pubblico ministero che si occupava del caso Forti, dichiarò che al momento della firma Tony Pike era sano di mente e vigile. Il notaio non è mai stato fatto testimoniare al processo.
Cosa non tornerebbe nel caso Forti
“Il caso Forti presenta diverse falle,” mi hanno detto Erin Moriarty e i suoi produttori (Paul LaRosa e Murray Weiss), che hanno ricostruito la vicenda per il loro programma su CBS, “e c’è una palese mancanza di prove a carico di Forti. Non è stata, poi, approfondita la figura di Thomas Knott.”
Ed eccoci ad un punto saliente, anche se oscuro: nella vicenda era coinvolto un altro personaggio. Thomas Knott, l’uomo che aveva presentato Tony Pike a Forti. Espatriato con documenti falsi dalla Germania, dove si trovava in libertà vigilata per varie truffe, Knott viveva a Miami sotto l’appartamento di Forti. Conosceva Tony Pike da tempo e, proprio nei mesi precedenti all’omicidio di Dale, aveva perpetrato una truffa ai suoi danni: utilizzando una carta di credito intestata a Pike, gli aveva sottratto decine di migliaia di dollari.
Knott venne processato e condannato per la truffa, ma per la sera dell’omicidio aveva un alibi di ferro: secondo molte testimonianze si trovava a una festa. Diversi esperti che hanno lavorato al caso ritengono che Knott avrebbe avuto un reale movente per voler uccidere Dale Pike. Inoltre, stando a una testimonianza rilasciata recentemente dalla sua ex moglie a Le Iene (tutta da dimostrare), in realtà Knott si sarebbe allontanato da quella festa per due ore.
Ma non è l’unica svolta recente del caso. Proprio durante la puntata di 48 Hours, una dei 12 giurati che formarono la giuria al processo—Veronica Lee, all’epoca 20enne—ha dichiarato di aver subito pressioni per condannare Forti. Sostiene di non averlo mai ritenuto colpevole, e che tutto il processo è stato un errore.
Per il resto, mi spiega Moriarty, “l’opinione pubblica americana ignora la storia di Chico, nemmeno noi ne avevamo sentito parlare prima di occuparcene. Quindi non esiste un gran dibattito sul caso.” Oltre alla mancanza di attenzione, negli Stati Uniti ci sono anche degli ostacoli legali: “Il sistema giudiziario americano,” continua, “è strutturato in modo da difendere le sentenze. E riaprire il caso è veramente molto complesso.”
Della stessa opinione è Joe Tacopina: per una revisione del processo, negli Stati Uniti è necessario presentare non soltanto nuove prove, ma prove che non fossero conoscibili alla corte al tempo del processo. “Devi, poi, dimostrare l’innocenza, che è ben diverso da evidenziare che non ci sono prove per ritenere una persona colpevole.” A tutto questo si aggiunge la discrezionalità della decisione. “Abbiamo fatto sei richieste di appello in questi anni,” mi ha detto Gianni Forti, “tutte rifiutate.”
Quindi non resta che la via della diplomazia. Lo zio di Chico Forti mi ha rivelato di aver chiesto l’istituzione di una commissione di inchiesta in Italia per fare luce su questa faccenda, e mi ha detto che gli esponenti dell’attuale governo gli hanno assicurato di essere pronti a muoversi. Durante una conferenza tenutasi lo scorso 3 dicembre a Roma, il sottosegretario Riccardo Fraccaro (del M5S) ha dichiarato che il governo intende chiedere agli Stati Uniti la grazia per Chico Forti.
In fase di stesura dell’articolo sono state intervistate anche altre persone, poi non incluse nella versione finale poiché non aggiungevano nuovi elementi alla vicenda o non hanno potuto fornire le documentazioni richieste.
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