Da quando Salvini una settimana fa ha annunciato con un video sulla sua pagina Facebook che nel Decreto Sicurezza da presentare al Governo ci saranno anche limitazioni di orari per tutti i “negozi etnici” – che, a parer suo, sono ritrovo di spacciatori, ubriaconi e rissosi – si sono sollevate, com’era prevedibile, polemiche e simpatie. A questo si unisce anche la notizia (rispolverata) della senatrice leghista che vorrebbe un esame di italiano e insegne nella nostra lingua per tutti coloro, non europei, che possiedono delle attività in Italia.
C’è chi è stato ben contento di appoggiare il decreto e chi ha dichiarato, come Confesercenti, di restare cauti per non oltrepassare quella linea che va a creare evidente discriminazione all’interno dell’imprenditoria. Il fatto che il Ministro dell’Interno abbia posto l’accento esclusivamente sull’etnicità dei gestori dei minimarket non soltanto potrebbe avere odore di razzismo, ma non tiene in considerazione una quantità importante di fattori economici che potrebbero creare danno al paese.
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In un articolo di qualche giorno fa, Business Insider fa un tracciato di ciò che l’Italia perderebbe nel caso in cui davvero i market alimentari (e non) dovessero davvero chiudere alle nove di sera. La fondazione Leone Moressa ha condotto un’indagine dalla quale emergono dei dati piuttosto floridi legati all’imprenditoria degli stranieri: tutti coloro che, di notte o di giorno, rimangono aperti al pubblico portano un utile al nostro paese pari al 6,9% del valore aggiunto nazionale. Una cosa come 102 miliardi di euro, la cui maggior parte arriva appunto da esercizi come quelli di cui si parla da giorni. Razzismo e perdita di denaro. Non un buon affare, per nessuno.
“Scusa, perché il Carrefour può rimanere aperto 24 ore e noi noi? Tanto la birra non si può vendere più oltre le 22 quindi non capisco”
Per cercare di capire cosa significa nella pratica, nella vita di tutti i giorni, un provvedimento di questo tipo, sono andato in giro per Roma, dove di market e alimentari ce ne sono a bizzeffe. Ho cercato di chiedere cosa perderebbero, quanto è grave, e soprattutto quanto è vero che i loro negozi sono punti di ritrovo per spacciatori e ubriaconi.
Non posso non citare la mia storia personale anche se per un solo momento. Per anni ho abitato sopra uno di questi market, che faceva orari davvero improbabili, parliamo delle 2 del mattino o poco meno. E non posso negare che nella zona del Pigneto c’erano effettivamente diversi casini di sicurezza e ritrovi di spaccio. Spesso accadeva che gli spacciatori venissero riforniti da un capozona italiano e, per cercare di non farsi trovare addosso una quantità di roba tale da farsi sbattere in galera, ne nascondevano parte nei magazzini dei minimarket, che ne traevano un profitto.
Raoul era uno di quei minimarket, anche se mai si è lasciato abbindolare per coprire gli spacciatori di zona. Vendeva birra, certo. Adesso ha capito che voleva dire solo avere casini, per cui ha deciso di chiudere prima, verso le 23. “Che problema c’è a tenere aperto di notte?”, mi dice. “Scusa, perché il Carrefour può rimanere aperto 24 ore e noi noi? Tanto la birra non si può vendere più oltre le 22 quindi non capisco”. In effetti da qualche mese, come accade ogni anno nei momenti caldi dell’anno, c’è un’ordinanza del comune a Roma che impedisce di vendere alcolici dopo le dieci di sera. E se prima si aggirava facilmente, quest’anno è stata davvero rispettata nella maggior parte dei casi.
“Il punto è che se tanto non prendono la birra qui vanno al bar accanto, spesso gestito da italiani. Io qui devo pagare l’affitto non posso avere limitazioni sull’orario. Ho preso i miei soldi dal mio paese, sono venuto qui e dopo aver messo ogni cosa in regola ho aperto la partita Iva.”
Non è semplice per una persona immigrata trovare lavoro. Lavorare insieme a un connazionale è molto più facile e utile. E siccome spesso e volentieri non fanno un solo lavoro, la notte è un buon momento per fare qualche soldo in più. “Sono però d’accordo con Salvini quando dice che dovrebbero mandare a casa chi spaccia, ruba, eccetera. Poi i turisti non vengono più e la vita è un inferno soprattutto per noi, che ci prendiamo le colpe.”, finisce Raoul.
Raoul l’ho visto chiudere tante volte, per schiamazzi, così come chiudono anche in altre città d’Italia (anche attività “più italiane”).
Qui la gente viene spesso, perché ci sono lavoratori italiani che staccano tardi, magari alle otto e mezza- nove di sera e non hanno potuto fare la spesa
Ci sono quei posti invece in cui magari, per conformazione stradale o per scelte di vendita, non hanno affatto problemi di spaccio o simili. Fondamentalmente parliamo di due categorie: quelli che vendono più che altro alimentari e prodotti per la casa, e quelli che invece sono aperti in zone della città molto residenziali. Per la prima categoria ho sentito Mento, che al Pigneto ha il suo negozio ad angolo di frutta e verdura, soprattutto. Un cartello dice chiaramente in tutti i modi che non verranno venduti alcolici dopo le 22.
“Qui la gente viene spesso, perché ci sono lavoratori italiani che staccano tardi, magari alle otto e mezza-nove di sera e non hanno potuto fare la spesa. Vengono a comprare il latte, la verdura, la frutta, i biscotti, tutto quello che serve”, mi dice. “Chiudere prima almeno delle 23 per me è un problema proprio per questo, io di sera lavoro abbastanza e faccio tanti scontrini. Se pago le tasse qual è il problema?”.
E c’è un’altra cosa, a cui non avevo effettivamente pensato e che Mento mi spiega: “Se noi rimaniamo aperti ci sono delle luci. In un quartiere con la criminalità alta spegnere tutte le luci significa favorire rapine”.
“Scusa ma quindi se sono italiano e ho un alimentari posso rimanere aperto?”.
Il Pigneto è, o quantomeno era, un posto dove effettivamente spaccio e risse erano all’ordine del giorno. Così mi sono spostato nella zona di San Giovanni, decisamente più borghese, per parlare con Gazi. Gazi vende dallo sgrassatore ai bastoncini Findus passando per cartine, birra e vino. E la sua clientela è perlopiù fatta di signore e signori e ragazzi che tornano tardi o si sono scordati la marmellata, quindi non ha davvero bisogno di stare aperto di notte. “Se c’è una legge, bisogna rispettarla”, mi dice. Ma quando gli faccio notare che la proposta è stata formulata con toni che rasentano il razzismo si è scosso. “Scusa ma quindi se sono italiano e ho un alimentari posso rimanere aperto?”.
E continua: “Allora, le 21 è troppo presto, almeno le dieci. Ma in generale non sarebbe un problema se siamo in Inverno. D’estate troppo presto, ma in inverno non cambia nulla se chiudi o no. Noi però lavoriamo come tutti, fatturiamo come tutti, quindi non è giusto. La legge va rispettata, ma bisogna parlare di tutti”. In merito a questa cosa, c’è stata una piccola manifestazione il weekend appena passato e ce ne sarà una, molto più grande, il 21 ottobre, contro ogni forma di razzismo, in cui la comunità bengalese (la più grande a Roma), che rappresenta la maggior parte di questi piccoli bazar, protesterà anche per questo decreto. Per questo principio di decreto, mettiamola così.
Qui abbiamo moltissime cose in vendita, dai caricatori del telefono alle caramelle. Vendiamo i panini per i turisti che partono di notte verso l’aeroporto, acqua, insomma c’è sempre tantissima gente da queste parti.
Per chiudere il mio giro ho deciso di andare a Stazione Termini. Qui tutti i giorni e tutte le notti convivono immigrati, polizia e turisti che vanno e vengono. Ad accogliermi nel suo negozio c’era Fahmida, che viene da Dacca e gestisce un piccolo supermercato proprio di fronte all’ingresso della stazione e alle fermate dei bus che portano in aeroporto. Se nei casi precedenti chiudere o meno può essere relativamente un problema, perché in effetti di scontrini non se ne battono poi tanti, davanti alla più importante stazione ferroviaria della Capitale le cose sono diverse.
“Sarebbe un vero casino per noi. Dalle dieci non vendiamo più birra, come tutti”, e questa ormai è frase standard (anche se a volte con gli occhi dolci una bottiglia di alcol si rimedia. D’altronde sono sempre soldi in più) “Qui abbiamo moltissime cose in vendita, dai caricatori del telefono alle caramelle. Vendiamo i panini per i turisti che partono di notte verso l’aeroporto, acqua, insomma c’è sempre tantissima gente da queste parti”, continua. E poi mi dice come sì, anni fa c’erano diverse risse, ma ormai non più, i controlli sono molto serrati e la polizia fa avanti e indietro”.
Il degrado può effettivamente esistere davanti ai minimarket etnici? A volte, sarebbe sciocco negarlo. Ma potremmo fare lo stesso discorso per le attività gestite da italiani o per gli OpenShop24 (quei negozietti fatti solo di distributori automatici sempre aperti)?
Siamo tutti d’accordo che non è chiudendo un posto che vende frutta o biscotti dopo le nove che si combatte il degrado, vero? Le periferie, i centri città, sono pieni zeppi di bar dove la gente può ugualmente fare casino, ma generalizzare su un’economia di mercato ormai importante per l’Italia, è un capriccio non sostenibile.
E poi, Matteo, che dici, chiudiamo anche il Carrefour aperto 24 ore su 24? Ah, no?
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