C’è un sacco di giornalismo musicale di merda, al mondo, e mi ci metto dentro anch’io: ad esempio, ho scritto questa premiere di un pezzo di Borgore, e posso quindi dirlo con una certa autorità. Ma con tutto il rispetto, devo dire che uno dei peggiori vizi del nostro mestiere è l’impulso a mischiare la musica di cui scriviamo con l’immagine che abbiamo di chi l’ha scritta. Certo, poi ci sono anche altre brutture, come scrivere che un produttore ha fatto un beat da zero quando in realtà ha solo mandato in loop una hit soul degli anni Settanta, la tendenza a canonizzare la discografia di un artista prematuramente, e usare l’aggettivo “etereo”—tutte brutture riscontrabili nella mia premiere di cui sopra. Il punto è che la musica occupa uno spazio liminale tra arte e commercio, autenticità e artificio, espressione emotiva e produzione—e spesso scegliamo arbitrariamente, in base a un nostro giudizio di valore, da che parte far pendere la nostra trattazione. Per ogni critico che sconfessa un Chris Brown o un Jef Whitehead a causa dei loro atti sessisti ce n’è un altro che sceglie di non parlare delle accuse a Michael Gira degli Swans o a Dr. Dre, i cui presunti abusi sono stati trattati brevemente dal ciclo di notizie del settore per poi essere praticamente messi da parte, e quindi tacitamente perdonati.
Nel mercato contemporaneo, a cui tutti partecipiamo, regna una tendenza al consumismo consapevole. Non ci facciamo problemi a pagare di più una bistecca se ci viene detto che la mucca ha vissuto una vita felice prima di essere stata macellata, brand di vestiti come Everlane usano la loro dedizione a una “trasparenza radicale” come tattica di marketing, e sul deep web è possibile comprare cocaina equa e solidale. Il valore di un prodotto viene quindi spesso collegato ai valori etici percepiti del suo produttore. Quando si parla di musica, ciò significa che gli artisti sono considerati parte integrante delle canzoni che creano. Se sembrano persone decenti abbiamo più voglia di ascoltarli senza pregiudizi; al contrario, se ci piace ciò che fanno, dentro di noi scatta spessissimo un interruttore che ci fa traslare i valori che assegniamo arbitrariamente alla loro musica sulla loro persona.
Per un esempio meno estremo della stessa dinamica, prendiamo Chance the Rapper. La gente lo ama per un sacco di motivi—non solo la sua musica è confortevole, intima e complessa a livello tecnico, ma Chance si presenta anche come un bravo ragazzo, strenuamente indipendente da logiche di mercato e fortemente impegnato sul sociale. E la sua immagine pubblica coincide con quella reale. Probabilmente il fatto che ha donato un milione di dollari alle scuole pubbliche di Chicago ha contribuito a rinforzare l’immagine che i suoi milioni di fan hanno di lui: Ecco una prova concreta che un artista che mi piace ha fatto una buona azione, dice il ragionamento, quindi posso sentirmi ancora meglio quando lo ascolto ora che so che è una persona pura e genuina. Questa stessa logica, applicata diversamente, si fa più complicata. I fan di Chance sono stati svelti a congratularsi con lui per la donazione, ma sono stati altrettanto veloci a incazzarsi con il Chicago Times, la cui Mary Mitchell ha pubblicato un editoriale in cui parla di come Chance abbia provato a richiedere legalmente di pagare alla sua ex il mantenimento meno del minimo stabilito dalla legge, cioè il 20% del reddito del genitore che non ha la custodia del figlio.
“Non puoi regalare soldi a bambini che non conosci e passare per taccagno quando si parla di tuo figlio,” ha scritto la Mitchell—e il risultato è stata un’ondata di minacce da parte dei fan di Chance, presumibilmente incitati da Chance stesso. Anche se sosterrei che è assurdo aspettarsi che l’arte aderisca perfettamente alle complicate vite private degli artisti, se vogliamo giudicare la musica basandoci sul comportamento extra-musicale di chi la crea non possiamo sentirci sorpresi o arrabbiati quando qualcuno suggerisce—giustamente o meno—che un certo comportamento controverso si rifletta negativamente sul personaggio-artista. “Dentro di noi c’è una tendenza a identificare i grandi artisti come grandi persone,” scrisse Jenny Diski. “Ma dentro di noi sappiamo benissimo che i maiali non possono volare.”
Videos by VICE
“Dentro di noi c’è una tendenza a identificare i grandi artisti come grandi persone,” scrisse Jenny Diski. “Ma dentro di noi sappiamo benissimo che i maiali non possono volare.”
Ovviamente, le infrastrutture tecnologiche e sociali che incoraggiano questi atteggiamenti sono relativamente nuove, e la tensione tra atteggiamenti contemporanei ed eventi passati può essere riscontrata in alcuni pezzi usciti dopo la morte di Chuck Berry che pongono implicitamente la seguente domanda: lo status di Berry nella storia del rock and roll dovrebbe venirgli revocato in nome del suo comportamento sessista? “Quando si parla di azioni reali che danneggiano persone reali, l’arte impallidisce nel suo significato,” ha scritto Andy Martino di The Outline in un pezzo sulla morte di Berry intitolato, “Perché non possiamo essere onesti su Chuck Berry?” Il cuore pulsante del pezzo è qua sotto:
Berry si mise a fare musica dopo essere stato in prigione per rapina a mano armata, un reato che aveva commesso da adolescente. A metà degli anni Cinquanta era diventato uno dei cantautori e artisti più influenti del secolo—tra i suoi devoti e i suoi imitatori c’erano Keith Richards e John Lennon—e la sua portata stilistica si è estesa fino agli MC del Bronx degli anni Settanta, e oltre. Il suo periodo artistico più prolifico si interruppe nel 1959 con un arresto e una condanna per aver violato il Mann Act: in altre parole Berry, che all’epoca aveva 33 anni, era stato accusato di aver fatto sesso con una quattordicenne.
Nel suo tentativo di fornire un contrappeso alla tendenza critica a sorvolare sugli abusi dei musicisti, Martino si concede di immaginare la possibilità che le politiche della responsabilità contemporanee possano venire proiettate nel passato (inoltre, Martino perpetua innavertitamente la tendenza a sottolineare i crimini degli uomini di colore e a trascurare quelli dei bianchi: non fa infatti notare che sia John Lennon che Brian Jones, compagno di band di Richards, hanno tenuto comportamenti violenti nei confronti delle loro partner). Nonostante questo, è innegabile che se Berry fosse stato un musicista contemporaneo, aver fatto sesso con una minorenne avrebbe giustamente interrotto definitivamente la sua carriera.
Ma Berry viveva in un’epoca in cui gli artisti non venivano identificati la loro arte. “La gente non vuole sentire i tuoi problemi, ne hanno abbastanza da loro,” disse Berry a una zine nel 1980, spiegando la filosofia dietro alla sua scrittura. “Se canti canzoni che parlano di problemi, o le ascolti, i problemi resteranno.” Il metodo creativo di Berry rifletteva invece il boom della produzione di massa degli anni Cinquanta, la celebrazione di tutto ciò che era diventato improvvisamente economicamente abbordabile e potenzialmente allettante per qualsiasi essere umano—e chissenefrega se i tetti erano fatti di eternit, se quel figo del presidente era il rampollo di un losco impero economico, se il tizio che scriveva le canzoni preferite d’America era, in segreto, un mostro. Dopotutto Berry venne arrestato all’apice della sua carriera per aver portato una ragazzina oltre il confine del suo stato per presumibili ragioni sessuali, ma ne uscì ancora più popolare di quando era stato messo dentro. Alla fine degli anni Ottanta, quando la sua carriera aveva ormai finito la sua parte più fulgida, Berry era stato accusato di aver aggredito una donna in una stanza d’hotel e di aver filmato segretamente donne che usavano il bagno del suo ristorante in Missouri.
Chiaramente, quando valutiamo la vita e l’eredità di musicisti come Berry dobbiamo prendere in considerazione diverse linee narrative. E ognuna di queste, come ha sostenuto Austin Bryant nel suo necrologio su Noisey, si merita di essere esaminata attentamente. Se, come scrisse Richard Hell, “ogni storia dell’arte è una storia alternativa,” allora la musica di Berry esiste in un universo in cui, per un certo periodo di tempo, non poteva fare niente di sbagliato. Era riuscito nel compito apparentemente impossibile di traslare la sensibilità ineffabile di una generazione in riff e parole, qualificandosi inoltre come un punto di genesi del rock and roll per come lo conosciamo oggi. Ad ogni modo, è interamente comprensibile che lo stesso senso di coraggio e audacia che lo spinse a scrivere pezzi come “Johnny B. Goode” e “Roll Over Beethoven” possa averlo fatto sentire esente dalle regole che governano l’interazione personale, portandolo quindi a tenere comportamenti criminosi che hanno danneggiato la vita di altre persone. E quindi, se riconosciamo la possibilità che gli stessi tratti intrinsechi che hanno portato Berry—o qualsiasi altro artista—a scrivere grande musica possano anche averlo spinto a far male ad altri, come cazzo possiamo riconciliare le due storie che ci restano in mano? David Remnick del New Yorker ha scritto un pezzo ammirevole in cui si scontra con la totalità della biografia di Berry, ma il suo articolo è l’eccezione e non la regola.
Quando parliamo di artisti e morale, raramente poniamo la questione in termini di Aut-Aut. Mi è venuto invece da pensare a una cosa che Simone de Beauvoir scrisse in Per una morale dell’ambiguità, che può essere interpretata come una prospettiva che ci permette di considerare simultaneamente le parti buone e cattive della vita di un individuo:
L’individuo è definito solo dal suo rapporto con il mondo e con gli altri individui; esiste solo trascendendo sé stesso, e può ottenere la sua libertà solo tramite la libertà degli altri. Giustifica la sua esistenza con un movimento che, come la libertà, sorge dal suo cuore ma lo porta al di fuori di sé.
Seguendo questa linea di pensiero, possiamo definire Berry tramite il suo rapporto con gli altri, e possiamo (e dovremmo) quindi giudicarlo rigidamente—accettando comunque il fatto che i suoi difetti non negano il fatto che la sua arte abbia avuto un enorme significato per milioni di persone e che abbia recitato una parte integrale nella nascita degli enormi cambiamenti culturali degli anni Sessanta. Invece che determinare il valore definitivo di Berry mettendo le sue buone azioni contro i suoi crimini, possiamo riconoscere come la sua musica non sia un riflesso del suo privato—anche se le due cose hanno lo stesso punto d’origine. L’eredità musicale di Berry e le sue trasgressioni personali diventano quindi parte di un insieme più grande e complesso che ci richiede di considerare ugualmente valide diverse narrazioni conflittuali. Sì, Chuck Berry era un tizio malato che ha compiuto gesti malati, ma la sua musica esiste al di fuori del suo contesto personale—forgiata da una singola storia, portata però via dalle masse e utilizzata per creare un’infinità di singole storie personali.
Fotografia di copertina di Charles Paul Harris / Getty Images
Segui Noisey su Twitter e Facebook.
Altro su Noisey:
Ke$ha, vittima del pop patriarcale
L’industria musicale italiana è davvero maschilista?
Essere femminista e lavorare per Borgore