Provare a raccontare la situazione di Aleppo è un compito difficile per due diversi ordini di problemi.
Il primo è che la battaglia per questa città chiave della Siria in guerra è ormai in corso da quattro anni—quattro anni durante i quali i fronti, i belligeranti, le sorti della popolazione civile hanno subito cambiamenti radicali e situazioni di conflitto molto diverse fra loro (e sempre più drammatiche).
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Il secondo è che mentre scrivo è all’opera una propaganda di guerra che, nella quasi assenza di fonti indipendenti, assolve egregiamente al suo principale compito: disinformare. La parte orientale di Aleppo, dove sono stanziati i combattenti anti-regime e dove abitavano centinaia di migliaia di persone, è stata bombardata indiscriminatamente per i suddetti quattro anni. Il costo di quello che negli ultimi mesi è diventato un vero e proprio assedio è altissimo in termini di vite umane, soprattutto di civili inermi. La propaganda del regime di Bashar al-Asad chiama questa cosa una “liberazione” e definisce le vittime “terroristi”.
Seguendo da tempo ciò che succede in Siria e nei dintorni, ho provato a rispondere alle domande che tutti, vedendo scorrere le notizie delle ultime ore su Facebook, possono essersi fatti sulla situazione.
COSA STA SUCCEDENDO AD ALEPPO?
L’assedio, che ha comportato la chiusura di tutte le vie di approvvigionamento per gli abitanti di Aleppo est, sta terminando con la “vittoria” delle truppe lealiste, aiutate sul campo dagli Hezbollah libanesi e dagli iraniani e nei cieli dai russi. Rimangono sacche di resistenza armata, aree dove i bombardamenti russi non cessano di colpire e dove ancora rimane intrappolata parte della popolazione civile: si parla di centomila persone.
Negli ultimi giorni diverse fonti descrivono esecuzioni di massa di civili e diversi episodi di sciacallaggio, oltre ad attacchi di cecchini ai convogli predisposti per l’evacuazione. Altre fonti locali riportano che diverse donne si sono tolte la vita per evitare lo stupro.
In questo contesto, nel quale diverse cancellerie occidentali e organismi internazionali come l’ONU invocano un tregua vera che permetta ai civili di salvarsi, si assiste a un macabro balletto della propaganda.
Gli ipotetici “cessate il fuoco”, raggiunti tramite fragili accordi (nell’ultimo caso fra russi e turchi), si rivelano messe in scena (il numero delle persone evacuate è molto basso e non sappiamo dove queste persone vadano a finire) il cui fine è principalmente quello di “mostrare al mondo” una disponibilità a salvare vite umane che, invece, sembra non esserci. Chi, per un motivo o un altro, rimarrà ad Aleppo est sarà assimilato a un combattente—dunque, nella terminologia del regime, a un terrorista.
Un corridoio umanitario, per essere effettivo, dovrebbe essere messo in ruolo da parti non coinvolte nel conflitto, non può essere gestito da una di esse: diverse fonti registrano infatti il timore da parte di molti civili di cadere nelle mani dei lealisti che potranno a piacimento decidere sulla loro sorte. E il timore è comprensibile, viste le modalità dei bombardamenti di cui sopra.
L’altro timore, una volta “ripulita” Aleppo est da ogni essere umano, è che gli abitanti originari di quella parte di città non possano mai più tornare, che la composizione demografica della città venga completamente riscritta. Altrove, ad esempio in una delle tante “città martiri” della Siria di questi anni come Homs, il regime ha bruciato i registri del catasto e già nel 2013 il Guardian parlava, usando un termine di certo abusato, di “pulizia etnica”.
COME SIAMO ARRIVATI A QUESTO PUNTO?
La dinamica della battaglia di Aleppo è molto complessa e ha vissuto diverse fasi durante le quali il suo esito si presentava incerto. Aleppo è stata la capitale economica della Siria. Il movimento di protesta contro il regime di Bashar al-Asad nella città, represso come altrove nel sangue, ha iniziato a far sentire la propria voce in relativo ritardo rispetto ad altre aree del paese (le prime sparute manifestazioni si tengono alla fine dell’aprile 2011, un mese e mezzo dopo l’inizio delle proteste). Si è tuttavia manifestato con grande forza, specialmente nelle aree periferiche e sovrappopolate della città, sull’onda delle proteste più decise che si registravano nelle aree rurali della provincia aleppina.
La “battaglia per Aleppo” ha avuto inizio nel luglio del 2012 nel quadro di una vasta offensiva dell’Esercito Siriano Libero denominata “Vulcano di Damasco e terremoti in Siria”. Le forze ribelli (si veda sotto per una spiegazione della composizione) si stanziano in un’ampia parte della città senza mai raggiungerne il cuore. Dopo i primi mesi di scontri, durante i quali (siamo nell’ottobre 2012) anche il centro storico della città subisce danni ingenti, le posizioni dei lealisti e dei ribelli—con il quartiere curdo che rimane “neutrale”—rimangono per molto tempo invariate.
Lo scontro, già nei primi giorni di combattimento, si stabilizza sull’asse est (ribelli)-ovest (governativi) e diventa guerra di posizione. Il regime si appresta a una strategia di lunga durata consistente nel bombardamento indiscriminato delle aree controllate dalla ribellione, con tragiche conseguenze per la popolazione civile e per le infrastrutture. Dalle loro posizioni i ribelli rispondono al fuoco da terra. Essendo strategicamente fondamentale nel contesto più ampio della guerra, sulla battaglia di Aleppo si sono concentrati molti degli sforzi economici e logistici di tutti gli attori geopolitici coinvolti nel conflitto.
Inizialmente poco connotati dal punto di vista religioso, i gruppi armati ribelli hanno vissuto diversi processi di radicalizzazione, dovuti anche alla provenienza dei loro finanziamenti (principalmente Turchia, Emirati, Arabia Saudita e Qatar). Oggi, contano nelle loro fila anche alcuni gruppi jihadisti e la sigla qaidista siriana (Jabhat al-nusra, oggi Jabhat al-fatih al-Sham). Il gruppo Stato Islamico, nato nell’aprile del 2013 col nome di Stato Islamico di Iraq e Levante (ISIS), è invece assente (a suo tempo è stato scacciato dall’area di Aleppo controllata dai ribelli, come anche nel governatorato di Idlib).
Nelle fila dei lealisti combattono oltre ai soldati all’esercito governativo, truppe irregolari lealiste, le milizie sciite libanesi di Hezbollah, l’Iran con diverse formazioni e la Russia (principalmente con l’aviazione). Una svolta nel corso della battaglia per Aleppo si è registrata dopo l’ingresso ufficiale russo nella guerra, a partire da settembre 2015. Sebbene ufficialmente lo scopo dei russi fosse quello di sconfiggere il gruppo Stato Islamico, le operazioni russe si sono concentrate quasi tutte (l’eccezione più “famosa” è la città di Palmira, ora di nuovo nelle mani di Stato Islamico) su quelle aree “ribelli” del paese dove resistono formazioni armate non appartenenti a quella organizzazione, aree di interesse geostrategico per il regime di Damasco e dove gli aiuti logistici e militari delle potenze regionali nemiche (Turchia, paesi del Golfo) si sono concentrati.
Aleppo è al centro di questa strategia e il vero motivo per cui oggi i lealisti sono riusciti a conquistarla sta nell’avvenuto riavvicinamento fra Putin ed Erdogan avvenuto sulla base di comuni interessi economici. La Turchia ha smesso di fornire aiuti ai combattenti di Aleppo, concentrandosi sull’area frontaliera che si trova a nord di quella città, un’area che serve ad Ankara per limitare l’avanzata dei curdi siriani delle YPG i quali, grazie anche all’aiuto americano fornito loro in chiave anti-stato islamico, miravano a congiungere i territori a maggioranza curda nel nord della Siria.
QUALI SONO I POSSIBILI SCENARI?
La battaglia per Aleppo sta terminando nella forma tragica che sappiamo. Dal punto di vista militare e strategico si tratta di una importante vittoria per i lealisti, ma non significa la fine della guerra né la pacificazione di Aleppo. Certamente l’evento inaugura una nuova fase, con la ribellione al regime sempre più confinata terriorialmente nella provincia di Idlib e un controllo del territorio da parte del regime—che dovrà far fronte, probabilmente per molto tempo, a focolai di rivolta e a un incrementarsi degli episodi terroristici—decisamente debole.
La Siria è oggi attraversata da antagonismi apparentemente impossibili da ricomporre, i cui destini sono sempre più legati alle decisioni, alle azioni, ai finanziamenti degli attori esterni. In attesa di sapere quale sarà l’atteggiamento dell’America di Trump abbiamo assistito al già citato riavvicinamento di Turchia e Russia, che si spartiscono le aree di influenza nel nord.
E sappiamo che un esito positivo dell’altra grande battaglia in corso, quella di Mosul in Iraq, renderà inevitabilmente il ripiegamento dei combattenti di Stato Islamico in Siria, dove attualmente gli unici a combattere con risultati effettivi quell’organizzazione sono i curdi delle YPG che guidano le “Forze Siriane Democratiche”, sostenute (per quanto tempo ancora?) da Washington. Intanto nel sud del paese le bocce sembrano ferme, con le forze del “Fronte Sud” sostenute da americani e giordani, tenute in “pausa” da mesi.
CHE CANALI POSSO SEGUIRE PER ESSERE INFORMATO?
Da tempo i gionalisti occidentali non hanno accesso all’area di guerra se non, dalla parte del regime, con fortissime limitazioni (tali da rendere “propaganda” il loro lavoro). In generale tutte le fonti devono seriamente essere poste al vaglio, essendo in atto, come si diceva, una guerra di propaganda.
Le fonti locali indipendenti sul campo sono ormai ridotte al minimo. Fra le più affidabili c’è l’Aleppo Media Center.
Le fonti mediche sono quasi scomparse. La “Syrian Civil Defence” (che sul sito raccoglie donazioni) ha recentemente dichiarato di non essere in grado di raggiungere diverse aree colpite dai bombardamenti. Altro “faro” acceso su Aleppo est, ma senza giornalisti sul campo, è ANA press.
Un giornalista che per lungo tempo ha fornito reportage affidabili sulla situazione ad Aleppo è Rami Jarrah, oggi residente in Turchia.
C’È QUALCOSA CHE POSSO FARE IN CONCRETO?
Difficile operare in qualche forma per dare un aiuto concreto. Essendo la questione eminentemente “politica”, in questo “vademecum” in inglese si invita prima di tutto a fare pressione sui rappresentanti politici nazionali e sugli organismi internazionali per sollevare il problema delle responsabilità e degli aiuti umanitari.
In diverse città europee e in Turchia in questi giorni si è manifestato principalmente di fronte alle ambasciate russe, per chiedere la fine dei bombardamenti e l’apertura di corridoi umanitari veri. Altri hanno invitato a chiamare le rispettive ambasciate.
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