“Cambia anche il modo di bere: se stai facendo l’aperitivo non hai bisogno di berti un cocktail intero, ne basta una piccola porzione.”
Nell’ultimo anno e mezzo il fenomeno dei cocktail in bottiglia, i cosiddetti ready to drink, è corso all’impazzata, in maniera talvolta anche schizofrenica, complice la pandemia e la chiusura dei bar. Molti bartender, ex bartender o aziende, hanno iniziato a produrre questi drink pronti da bere, che basta mettere in un bicchiere di ghiaccio — magari completando con qualche gesto da bartender. Purtroppo, essendo nati spesso sull’onda del momento, molti di questi drink già pronti risultano delle miscele un po’ raffazzonate.
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Ma c’è chi ben prima della pandemia aveva capito le potenzialità di questo mercato: uno è “The Key”, una serie di classici — e non — della mixology imbottigliati in bottiglie quadrate, con una elegante “K” impressa sulla cera lacca. Roba premium, insomma. Rispetto agli altri, che si limitano a vendere cocktail già preparati, The Key è un concetto diverso, che tocca un modo differente di consumo, di produzione e di scelta di ingredienti e ricette.
“L’ossidazione di un affinamento ti dà lo stesso risultato dello shock termico di una shakerata, ma meglio: tira fuori altre note interessanti.”
Quello che mi ha particolarmente affascinato è che tutte le ricette fanno dell’affinamento, che sia in botte o in bottiglia o in qualche altro materiale. L’ex bartender Valeria Sebastiani ha iniziato a lavorarci su nel 2016 e ha impiegato due anni prima di lanciarli sul mercato. “Quando ho smesso di fare la bartender ho iniziato a fare consulenze ed eventi, ma mi annoiavano,” mi dice Valeria Sebastiani mentre sorseggiamo i suoi drink alle 11 di mattina. “Così ho cominciato a pensare a dei cocktail già pronti da proporre direttamente agli eventi o ai miei clienti ed è nato The Key.”
La differenza sostanziale tra The Key e gli altri pronti da bere è che non sono stati pensati, come quasi tutti gli altri fanno, per riprodurre un cocktail preso al bancone. Sono concepiti da bere anche senza ghiaccio — un po’ come se fossero degli amari da fine pasto.
“Per anni, attraverso prove su prove, ho cercato di capire come cambiassero i drink con un affinamento. E capivo che si ammorbidivano, ma non sapevo perché. Poi un amico chimico mi ha spiegato che erano proprio il tempo e il riposo che gli facevano perdere mordente e li ingentiliva.” In pratica The Key non ha bisogno di diluizione come gli altri drink, perché è come se il tempo e l’affinamento li diluisse, ammorbidendoli e facendone un cocktail nuovo con dei rimandi della ricetta originale. “L’ossidazione di un affinamento ti dà lo stesso risultato dello shock termico di una shakerata, ma meglio: tira fuori altre note interessanti.”
La Sebastiani utilizza botti rigenerate in rovere francese, grandi giare in vetro o, nel caso di alcuni cocktail, come il Milano Torino, li fa affinare direttamente in bottiglia: “Ammorbidisce la parte del vermouth e alleggerisce la parte alcolica più pesante.”
Circondati dai suoi due simpatici cani e da pizza bianca, a Roma, mi fa assaggiare praticamente tutta la gamma. Iniziamo dal Velvet, un twist sul Negroni ma con base tequila, blend di vermouth, bitter, infusioni di caramello e tè nero in foglie: note dolci che si trasformano in punte tanniche sul finire. A seguire un Milano Torino in cui vengono infuse bacche di Sichuan e albicocche essiccate. È il drink che tra tutti si fa meno affinamento, due settimane in bottiglia per una beva morbidissima che te ne farebbe bere a litri. Poi un Martini Cocktail con essenza di olii essenziali di limone che si fa tre mesi in tino di legno e che lo rendono pungente, ma senza che ti distrugga il cervello, anzi.
E poi il mio preferito, il Manhattan, apparentemente il più dolce di tutti, ma di una dolcezza compensata dall’acidità delle visciole data da un liquore artigianale alle visciole abruzzese. Un totale di sette ricette italiane e internazionali in bottiglie di diverse dimensioni.
“Non volevo proporre i soliti classici,” mi dice Valeria Sebastiani tra un sorso e un morso di pizza. “Volevo che ci fosse dentro qualcosa di più, volevo renderli più complessi, quasi stravolgerli. E per farlo si deve partire dall’ingrediente.” Quindi per farlo si affida a liquori pazzeschi, prevalentemente regionali, e a un forager che le forniscono erbe e fiori pazzeschi colti a mano quasi sempre in Lazio o Abruzzo. Il forager è Edoardo Coccia, che con l’azienda Crisalide le fa olii essenziali con cose prese da raccolte stagionali, mentre le spezie vengono dall’Emporio delle Spezie.
Mentre il mercato di quasi tutti i ready to drink sorti in questa pandemia è stato pensato per il cliente finale che non può andare al bar, anche in questo caso Valeria ha allargato l’orizzonte, prendendosi cura di un mercato che a quasi nessuno era venuto in mente: i ristoranti.
“Forse non tutti ci pensano, ma avere un bar, anche piccolo, è impegnativo. Ha dei costi esorbitanti e devi gestire molte più cose,” mi spiega. “Con questi cocktail puoi sia raccontare una storia, sia servirlo come fine pasto senza nemmeno bisogno di ghiaccio. E in più cambia anche il modo di bere: se stai facendo l’aperitivo al tavolo prima di cena non hai bisogno di berti un cocktail intero, ne basta una piccola porzione.” In più c’è che rispetto ai soliti cocktail pronti da bere, prodotti solo con alcolici, le ricette di The Key ci stanno bene anche con le filosofie culinarie degli chef. E infatti li si trova in posti fine dining come, per dirne alcuni, Pipero e Glass Hostaria a Roma e Le Sirenuse a Positano.
Lo scetticismo in tempi di trend non è mai troppo. Ma devo dire che quelle bottiglie che Valeria mi ha regalato prima di tornare a casa non sono durate più di una settimana. E ne vorrei ancora e ancora e ancora.
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