Quando nasci e cresci in una città del Sud Italia per poi trasferirti altrove, il ritorno a casa per le vacanze è sempre accompagnato da una specie di grosso disclaimer luminoso da tirare fuori all’occorrenza. “Sì non abito più qui; sì sto bene dove sto; sì la salsiccia col finocchietto su al Nord non esiste; scusate.”
È pur vero che questa dinamica vale per tutti quelli che da una piccola città si spostano verso una più grande, e che il conflitto “centro/periferia”—non solo politicamente—ha ormai raggiunto livelli apicali. Ma è sull’asse Nord/Sud che la cosa acquista una valenza tutta sua.
Videos by VICE
Per questo motivo mi sembra doveroso cominciare a scriverne con questa premessa: sì sono nato al “Sud”; sì vivo al “Nord” da più di nove anni; no, non sputo sui piatti nei quali ho mangiato; no, non ho un buon rapporto con le autolinee Simet. Scusate.
Sono nato e ho vissuto in Calabria fino all’età di 20 anni. A Cosenza, per l’esattezza—che è una precisazione doverosa per qualsiasi cosentino vivente. Cosenza è la sede dell’Università della Calabria, ha quasi sempre ospitato un indotto di sottoculture giovanili e artistiche quantomeno stimolante, e conserva piccole e grandi differenze storico-geografico-sociali rispetto al resto della regione—NON era una colonia greca, NON c’è turismo balneare top gamma, d’inverno NEVICA ed è “terribbile“.
Questa diversità col tempo ha validato nei cosentini l’idea di una certa superiorità morale a livello regionale, e di una certa e credibile comparabilità rispetto a posti con un PIL pro capite decisamente più alto del nostro, ma con modi di fare e offerte gastronomiche chiaramente molto meno veraci.
Eppure, benché questa autoproclamata peculiarità rispetto alle altre province possa suonare quasi naif al di sopra del Pollino, le sue ragioni si ripercuotono concretamente nella vita di chi la abita, fino ad accomunare praticamente quasi tutti i centri piccoli e medio-grandi dell’Italia meridionale—almeno stando alla mia esperienza.
Per esempio: rispetto al circondario, Cosenza è il posto delle “scene musicali”, del movimentismo, del tifo organizzato di sinistra, con una delle province più vaste d’Italia e un abitato urbano che supera le 100mila persone, tre o quattro McDonald’s (di cui uno “Drive”), e qualche grattacielo—o almeno è quello che ci diciamo da sempre.
Ma proprio per questo, il fatto che per noi cosentini Cosenza sia una specie di Inverigo con le ciambelle fritte salate ci fa spesso dimenticare che la città abbia—a titolo d’esempio—un inestinguibile problema con l’ACQUA CORRENTE, che ospiti viadotti pronti a sgretolarsi nell’indifferenza collettiva, e che segni un tasso di disoccupazione che supera ampiamente il doppio della media UE, nel contesto depressivo della regione più povera d’Italia e di una delle aree più povere d’Europa.
In pratica, bullarsi di una supposta supremazia locale e di un’esistenza più autentica rispetto al freddo Nord è sostanzialmente come vantarsi di aver trovato posto a sedere su un treno soppresso—o almeno in gravissimo ritardo. Eppure facciamo finta di non saperlo.
Vivere al centro di questo continuo scontro di civiltà tra l’affezione per il proprio borgo e la mancanza di ACQUA CORRENTE non è semplice, e mentirei se dicessi che non condiziona alcune delle tue scelte di vita—talvolta anche il modo di pensarla.
Per questo, se dovessi scegliere tre immagini per rappresentare la mia personale esperienza di bambino e poi ragazzo meridionale, probabilmente utilizzerei “lontananza”, “irrilevanza” e “trigliceridi sopra la norma”.
La percezione che ho sempre avuto—specie da calabrese, e non da campano o pugliese—è quella di abitare in un angolo di Terra non inemendabilmente svantaggiato ma remoto, un po’ in ritardo su tutto, e sommariamente ininfluente: sembra sempre che quasi nulla serva a nulla, e che tutto sia lontano—tanto più che per tutta la durata della mia adolescenza internet non ha esercitato alcuna influenza, rendendo tutto ancora più periferico e ovattato.
La prima volta che ho provato questa sensazione di distanza è stata quando a scuola le maestre ci hanno costretti a scrivere una lettera per un amico che era tornato a vivere a Milano, città nella quale era nato e che gli aveva automaticamente conferito gli attributi di Uomo Del Futuro—in camera aveva un poster del concerto di Michael Jackson a Praga e portava un incredibile codino.
In quel momento ho preso coscienza per la prima volta di quale fosse la percezione dei milanesi al Sud—merde menefreghiste che pensano ai codini/al lavoro/agli spritz—, di quanto il mondo fosse tanto grande quanto diverso, e di come da qualche parte esistesse un centro molto lontano ed effettivamente abitato dai bambini delle pubblicità dei giocattoli di Italia Uno e dai protagonisti di Genitori i blue jeans.
Un posto tanto lontano che doveva essere raggiunto con un mezzo antico come una lettera, e situato su un pianeta col quale non avremmo mai colliso—a Cosenza il turismo è pressoché inesistente e i contatti con gli altri, almeno all’epoca, si limitavano al rapporto coi cugini che abitavano fuori regione e che avevano abitudini, gusti e vestiti diversi dai nostri.
Per un po’ mi sono quasi fatto bastare il fatto che, nella cartina socio-geografica che ogni ragazzo si costruisce col calcio, si potesse comunque dire di abitare in una città con una squadra in Serie B—e di aver visto Marcelo Salas subentrare a Vieri durante un Cosenza-Lazio di Coppa Italia—prima di precipitare rovinosamente fra i dilettanti.
Per un altro po’ di tempo, mi sono lasciato cullare dal fatto che mio nonno non avesse mai posato in foto con una lupara in braccio e fosse iscritto al Partito d’Azione—facendomi credere di esser nato in una specie di Appennino Tosco-Emiliano a nord del fiume Savuto, seppur con livelli di scolarizzazione preoccupantemente più bassi.
Crescendo, però, questa ‘distanza’ ha continuato ad ampliarsi, aumentando di pari passo con le mie esigenze adolescenziali. Anche perché per quanto privilegiata fosse o ce la immaginassimo, la mia provincia non corrispondeva esattamente al Sud delle “grandi capitali culturali”, tipo Bari, Napoli, Palermo, Lecce, Catania. Con tutto quello che (non) ne consegue.
Cosenza, infatti, è dove vuoi andare a vivere se nasci a Mottafollone o a Sant’Agata d’Esaro, hai 15 anni e non hai mai preso un treno in vita tua—cosa peraltro piuttosto verosimile dal punto di vista geografico. Intorno, intanto, il resto del mondo continuerà a ignorarti e a fare agilmente a meno di te.
Non c’è un quotidiano o un sito di richiamo nazionale in tutta la regione, un politico di riferimento, un esponente culturale che parli da Cosenza e non da cosentino di nascita—per esempio. La criminalità organizzata è probabilmente più “discreta” ma comunque inestinguibile. Il figlio più illustre della provincia è ancora Gennaro Ivan Gattuso.
E dunque, fatta eccezione per la peculiare pronuncia delle consonanti dentali e per le specialità della casa già citate e più o meno presunte, i tratti comuni tra Cosenza e il resto del Sud ‘di provincia’ non sono poi così diversi da quelli del circondario. Per questo penso di poter scrivere di come si “cresce al Sud”. Più o meno. A Cosenza.
Mai mettersi contro quelli di Catanzaro Lido.
Se l’infanzia nella provincia italiana comporta l’omologazione di massa, nella quale ogni tipo di pretesa culturale e/o individuale si scontra con la realtà del piccolo centro dove tutti non possono non conoscere tutti, crescere in città come Cosenza—e molte altre città del genere—permette una leggera divaricazione sociale, concede il lusso di una scelta, seppur iniqua. Ti permette di decidere se e come combattere una battaglia quotidiana per l’appartenenza culturale, scegliendo da quale parte della barricata posizionarsi.
Le alternative sono grossomodo due.
La prima è arrendersi alla cultura dominante e intimamente reazionaria, nella quale è necessario riconoscersi di volta in volta in un alcune tipicissime rappresentazioni morali—la famiglia, la pettinata (nel senso di “pettinatura appariscente”), Maria De Filippi, le Stratos. In questa parte di mondo, gli eventi della vita vengono codificati attraverso la tipica struttura emotiva di base offerta dall’intera programmazione di Canale5, che possiamo fondare sul quadrato semiotico “Orgoglio/Amore/Tradimento/Rivalsa”—e declinare in termini giovanilistici nella combinazione “Calcio/Motori/Figa/Dragon Ball” offerta da ItaliaUno.
La seconda alternativa di vita, invece, è la resistenza: riconoscersi in pochi eletti, frequentare circuiti paralleli, in casi estremi arrendersi all’incomunicabilità, e aspettare che sia l’ora giusta per andarsene e/o mollare la presa.
Questa forte e squilibrata divaricazione tra le due alternative si ripercuote ovviamente anche nel quotidiano, ed è nella ‘vita notturna’ dei giovani locali diventa evidente in modo esemplare—come fosse un’esasperazione del confine “truzzo/punk”, dove però i punk sono spaventosamente minoritari.
Così, almeno qualche anno fa, se da un lato c’erano i pomeriggi all’IperStanda, i privé della “Corte dei Miracoli” (era una discoteca) e le suonerie in napoletano, dall’altro trovavi la scena indie della zona con le sue gelosie interne, la vanagloria e le serate musicali artistoidi, nelle quali sentirsi parte di un respiro culturale più ampio che però muoveva dalle grandi capitali europee, e che da Cosenza passava leggero e generalmente in ritardo sotto forma di manierismo.
Ecco: io ero lì. Sono rimasto in bilico fra queste due opzioni per qualche tempo, e in questo processo decisionale generalmente inconsapevole, le scuole medie e le prime settimane del liceo hanno avuto un’influenza cruciale—a 13 anni è tutto eccessivamente facile: gli amici sono i compagni di classe, e la tua indipendenza di giudizio è pericolosamente bassa.
Così in poche settimane sono passato dall’arrotolare le maniche delle t-shirt coi miei amici ingellati, a farmi urlare “Caparezzaaa” per strada da quelle stesse persone a causa dei lunghi capelli ricci. Anni dopo, seguendo l’evoluzione dei riferimenti culturali locali, sarei diventato “Brunoriii” (è cosentino) a causa dei baffi, o “talebanooo” per via della barba—”ISIS” nelle accezioni più recenti.
In questo senso, il liceo (classico) è stata palestra e allo stesso tempo la massima rappresentazione dello scontro.
Ho frequentato una scuola del centro storico, che vanta da sempre—non si sa effettivamente a quale titolo, se non per l’aver ospitato un paio di ministri della prima Repubblica in età scolare—un discreto prestigio a livello regionale, ed è di gran lunga l’istituto di riferimento per larghissima parte della borghesia del luogo.
Ho trascorso almeno tre o quattro anni del quinquiennio dentro lo stesso bar, ogni pomeriggio, a fare le stesse cose con la stessa gente: tutta la scuola “che contava” si riuniva lì, a bere caffè corretto con Baileys e a fumare sigarette (si poteva ancora fumare nei locali), senza fare niente di minimamente rimarcabile.
Di rado—fenomeno marcatamente meridionale, almeno all’epoca—era lì che si raccoglievano i soldi per comprare la creolina e imbrattare le classi di notte per rendere inagibile l’istituto per saltare le lezioni: ci si organizzava con i ragazzi dell’alberghiero, in una specie di incontro confederale tra pianeti divergenti, e si pattuiva insieme che una certa notte sarebbe successa una certa cosa per una certa cifra.
Organizzare l’assedio della creolina è stato per anni uno dei punti d’incontro tra i diversi mondi, sebbene temporanei. Ci sono poi però anche quelli imperituri, ricorrenti, e da sempre iper-concilianti tra le varie anime dell’adolescenza liceale: sono il tifo per la squadra locale, e l’inevitabile ricorrenza del “Pranzo dei Cento Giorni”, rito unificante e vero spartiacque dell’esistenza scolastica e giovanile che ho scoperto non essere parte del patrimonio culturale del Nord solo una volta superata la linea Gotica.
I “Cento Giorni”, per come la tradizione è arrivata al mio liceo, sono feste che a turno le classi degli ultimi anni fanno a scuola, più o meno 100 giorni prima della maturità, per celebrare i cinque anni trascorsi e spendere 15 euro a testa di prosecco. In pratica ci si veste eleganti, si addobba la classe e a ricreazione si scende in cortile a portare musica e atti di nonnismo gratuito. Ovviamente l’obiettivo è fare la festa più bella della scuola e la competizione fra le varie classi è fortissima, come una specie di palio di Siena della vacuità ormonale.
Questa follia-a-tempo dura qualcosa come un quarto d’ora, dopodiché viene contingentata in aula e poi spostata coi prof in qualche ristorante dove la festa continua e si cantano canzoni scritte per l’occasione. A pranzo concluso i professori se ne vanno, e gli studenti generalmente si rinchiudono in qualche seconda casa per sfondarsi di canne e giurarsi l’un l’altro che l’università non potrà mai dividerli—emoji pollice.
Highlight culturale di Cosenza degli ultimi 25 anni.
Ecco: nella vita di un ragazzo del Sud il Pranzo dei Cento Giorni ha un valore simbolico forte, segno che il tempo sta passando veloce, che stai ‘diventando grande’, e si inserisce nel capitolo delle celebrazioni—tutte generalmente vissute con grande trasporto.
Non mi riferisco solo alle feste religiose e ai loro banchetti, che sono contemporaneamente una delle leggende propagatesi al Nord e l’orgoglio dei parenti che in genere si immaginano dei Natali ultra-anaffettivi sopra la linea immaginaria “Scalea-Trebisacce”. No: è più un assaggio drogato di vita adulta, cadenzato poi da contestuali diciottesimi celebrati in sale da ballo di alberghi di lusso, ingolfate da baciate, cocktail color Nelsen e prominente sentore di AXE Africa.
È una stagione che si esaurirà molto presto, dato che con l’università sarà uno scegliere tra i centri sociali e le feste fighette di Giurisprudenza. A meno che tu non decida che è l’ora di andartene, cosa che a un certo punto ho fatto.
Ad oggi, i miei amici sono quasi tutti partiti. I pochi che sono rimasti a Cosenza convivono con un tono di sfiducia che fa da sottofondo perenne, e che spesso ti rende odioso ai loro occhi. Così, in questa vaga sensazione di frustrante inanità, ogni cosa venga detta o fatta da chi torna a casa dal Nord—anche il solo parlare con un’inflessione dialettale meno marcata della media per acquisita abitudine—diventa spesso il sintomo evidente del fatto che te la stai tirando per “avercela fatta”.
Da quel momento in poi esprimere un giudizio diventa facilmente “criticare tutto senza voler rimanere lì per cambiare le cose”—come se non si potesse vivere in un posto diverso da quello nel quale si nasce—finendo inevitabilmente per passare per stronzi. È a quel punto che puoi cominciare ad avvertire un lievissimo senso di colpa ingiustificato, che dura generalmente l’arco di una vacanza di Natale o a Ferragosto.
Ma ci sono anche molti casi in cui chi proviene dalle mie parti e abita fuori—Roma, Milano, Perugia, estero—tende invece a rivendicare le proprie origini, cercando qualcosa per cui inorgoglirsi o condividendo post di pagine Facebook filomeridionaliste, in una regione e in una città che hanno sempre dato pochi spunti alla megalomania. Il cibo come da noi, siamo a 20 minuti dal mare e dalla montagna, portiamo 10mila persone allo stadio in Lega Pro.
Fino al viaggio verso casa per le vacanze.
Anche i più accesi patrioti in esilio oltre-Pollino, infatti, si scontrano periodicamente con la realtà biblica del ‘ritorno per le feste’, che almeno per 6/8/10/12 ore gli farà capire che la posa sudista può essere riposta nelle bozze di post del proprio profilo almeno fino alla prima fetta di soppressata.
Mi spiego: per tornare in Calabria, chiunque abiti al Nord (e con “Nord” intendo anche Roma) è generalmente costretto ad affrontare viaggi di durate leggendarie e a fare i conti con una gigantesca e beffarda metafora. E non ci sono mezzi o distanze che possano bastare ad alleviare la pena.
Tornare a casa in treno, per esempio, è reso estremamente complicato dal fatto che serve in genere arrivare fino a Salerno, e poi da lì trovare un modo per scendere più a Sud. In più, c’è da segnalare il fatto che la stazione ferroviaria di Cosenza è sostanzialmente inutile—ed è una gigantesca miniera di rame con le porte girevoli.
Per quanto riguarda gli aerei, invece, esiste l’aeroporto di Lamezia Terme (Catanzaro), che però continua a perdere voli ed è mal collegato da navette carissime che si spostano spesso solo su prenotazione—e i voli verso la Calabria, spesso, vengono venduti a tariffe turistiche da usura legale.
A quel punto, nella maggior parte dei casi, l’unica soluzione resta salire a bordo di uno dei famigerati ‘pullman di linea’, che sono ormai diventati il vero motore economico e logistico della regione—in Calabria, Lenin avrebbe arringato le folle dal piazzale dell’autostazione.
Le compagnie che offrono viaggi del genere—e per tutta la penisola—sono tante e la scelta è molto ricca, come a voler dire che ci si può muovere, che si può fare, ma a patto di sacrificare una giornata intera della propria vita e sudare insieme a un ragazzo di Soverato e a una signora di ritorno da una visita al figlio di stanza a Saronno.
Tutto questo non fa che acuire un senso di lontananza dal resto, e rende quasi epico anche solo il pensiero di voler ribaltare lo stato delle cose. Soprattutto se hai la consapevolezza che una volta a bordo sarai obbligato a prendere visione di uno dei film proposti dalla compagnia, e che il miglior scenario possibile in genere è beccare qualche blockbuster di Checco Zalone.
Segui Vincenzo su Twitter: @wyncenzo